La psicologia dell’anno che verrà

Scritto nel 1832 e pubblicato nel 1834, il Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere di Giacomo Leopardi rappresenta una delle più celebri riflessioni su quella che potremmo definire “psicologia del nuovo anno”.

Perché tante persone si scambiano corposi auguri conditi da abbondanti cibi e bevande il 31 dicembre? Perché si ripone tanta speranza nell’anno venturo, quasi che possa essere diametralmente diverso rispetto all’anno appena trascorso? Perché ciò avviene a dispetto dell’esperienza che ci insegna che gli anni passati non sono stati necessariamente anni felici, anzi talvolta disastrosi e funesti?

Prendiamo il 2024. Pensiamo davvero che lo scoccare della mezzanotte farà svanire le guerre che attualmente si combattono tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas? Che la pace si imporrà per magia a popoli afflitti da mille rancori e motivati da bellicosità che affondano le loro radici nel tempo? Crediamo davvero che la disoccupazione svanirà d’un tratto, che i femminicidi si ridurranno a zero e che cancro e leucemia non mieteranno più vittime?

Se ponessimo queste domande a un campione della popolazione riscontreremmo risposte “realistiche”, se non disilluse. Ognuno di noi sa, in cuor suo, che il prossimo anno non sarà molto diverso da quello trascorso e potrà essere addirittura peggiore.

E allora perché festeggiamo?

Per “l’ignoranza del futuro e una illusione della speranza”, come dice Leopardi in un passo dello Zibaldone che potrebbe fare da commento al Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere.

Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti (1 luglio 1827).

La psicologia dell’anno che verrà è sostanzialmente una psicologia delle aspettative illusorie. Sono queste a far sì che il futuro ci appaia roseo e foriero di  felicità, nonostante le delusioni o, almeno, il “realismo” predicato dal tempo vissuto. È la speranza di ciò che ci immaginiamo e ci illudiamo possa accadere a indurci a guardare con ottimismo al futuro.

Questa illusione è affine a tante “fallacie” dell’ottimismo che caratterizzano la mente umana. Gli psicologi ricordano al riguardo:

il “bias ottimistico”, ossia la tendenza delle persone a considerarsi meno soggette a eventi negativi e più soggette ad eventi positivi rispetto alla media della popolazione  (fenomeno osservato in un gran numero di situazioni, dagli incidenti automobilistici ad alcune forme di depressione);

il “ricordo roseo” (traduzione dell’inglese rosy retrospection), ossia la tendenza a ricordare gli eventi del passato in maniera più positiva di quanto siano stati effettivamente (il meccanismo agisce soprattutto nel caso di eventi moderatamente piacevoli);

l’“illusione di controllo”, ovvero la tendenza a ridimensionare i fattori indipendenti dal nostro intervento e ad attribuire a noi stessi un potere di controllo superiore a quello reale (si esprime nella convinzione che le situazioni negative o a rischio possano essere controllate dalla propria abilità, anche quando questa non ha molto a che fare con gli eventi);

la “sicumera” (traduzione dell’inglese overconfidence), ossia l’incrollabile fiducia nei propri giudizi nonostante l’accertata inattendibilità delle proprie valutazioni (le persone tendono costantemente a ritenere la propria valutazione migliore, più saggia, più adeguata ecc. di quanto non sia in realtà);

l’“effetto terza persona”, forma di ragionamento in base alla quale si è indotti a pensare di essere meno vulnerabili e suscettibili all’influenza sociale di quanto non lo siano gli altri (è il caso di chi pensa che i messaggi pubblicitari abbiano effetto sugli altri ma non su di sé, o di chi pensa di essere più furbo degli altri quando si tratta di truffe e inganni);

l’“effetto del falso consenso”, ossia la tendenza delle persone a ritenere che i propri atteggiamenti, credenze, opinioni e comportamenti siano agevolmente condivisi dagli altri (è una forma di egocentrismo, dovuta al fatto che le persone sono portate a pensare a sé stesse come persone normali che fanno cose normali e condivise da tutti);

l’“autoinganno”, ossia il processo psicologico per il quale sono accettati come veri o validi fatti, opinioni, scritti ecc. che sono falsi o non validi.

Insomma, c’è qualcosa nella mente umana che predispone verso l’ottimismo nei confronti del futuro (ma anche del passato), anche a costo di distorcere la realtà. Gli esseri umani tendono a immaginare che il tempo che verrà sarà più felice di quello passato, così come, per lo più, sopravvalutano i fatti che riguardano se stessi, pensando di essere più bravi, intelligenti, capaci degli altri. Inoltre, tendono a sottostimare i propri difetti attribuendosi più virtù. Secondo la psicologia, l’arte di “vedere roseo” e, quindi, di ingannare sé stessi, è indispensabile per la sopravvivenza della specie umana perché permette di sopportare i grandi e piccoli dolori della vita, compresa l’idea della morte, e di continuare a vivere nel migliore dei modi possibili.

Un certa dose di abbaglio è, dunque, indispensabile alla sopravvivenza.

Il 31 dicembre si brinda a un’illusione e si pasteggia con le pietanze dell’autoinganno. E sebbene il vitto del passato sia stato spesso indigesto, crediamo che, in virtù del “caso”, come dice Leopardi, esso sia destinato a essere squisito e leggero.

Illusioni e autoinganni. Sono questi che ci tengono in vita.

E allora…prospere illusioni!

 

Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere

Giacomo Leopardi (1832)

 Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

 Passeggere. Almanacchi per l’anno nuovo?

 Venditore. Si signore.

 Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

 Venditore. Oh illustrissimo si, certo.

 Passeggere. Come quest’anno passato?

 Venditore. Più più assai.

 Passeggere. Come quello di là?

 Venditore. Più più, illustrissimo.

 Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

 Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.

 Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

 Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo.

 Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

 Venditore. Io? non saprei.

 Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

 Venditore. No in verità, illustrissimo.

 Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

 Venditore. Cotesto si sa.

 Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

 Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

 Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

 Venditore. Cotesto non vorrei.

 Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

 Venditore. Lo credo cotesto.

 Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

 Venditore. Signor no davvero, non tornerei.

 Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?

 Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

 Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

 Venditore. Appunto.

 Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

 Venditore. Speriamo.

 Passeggere. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

 Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

 Passeggere. Ecco trenta soldi.

 Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

 

 

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Celebrità e morte naturale

Per il negro non c’è morte naturale, morte necessaria. Ad ogni decesso si consulta lo stregone per sapere da lui chi è l’autore di tale crimine segreto e magico. Ci troviamo ancora in questa condizione di spirito e ogni morte prematura di un uomo famoso induce subito a parlare di avvelenamento, di misterioso assassinio. Tutti ricordano le leggende sorte alla morte di Gambetta, di Félix Faure; esse si collegano naturalmente a quelle che commossero la fine del diciassettesimo secolo, a quelle che oscurarono, ben più dei fatti senz’altro singolari, il sedicesimo secolo italiano. Nei suoi aneddoti romani, Stendhal abusa di questa superstizione del veleno che ai giorni nostri doveva fare ancora più di una vittima giudiziaria (Remy de Gourmont, 2000, La dissociazione delle idee, Alinea Editrice, Firenze, pp. 35-36).

Le osservazioni di de Gourmont ci introducono a uno dei temi più affascinanti della tanatologia. La letteratura etnologica ci racconta da tempo che, presso molte popolazioni preletterate, l’idea di “morte naturale” non era così scontata come oggi: in sostanza, si riteneva che le persone morissero per l’intervento di una causa umana (sortilegio, fattura, incantesimo). Per questo motivo, si cercava di individuare il “colpevole” attraverso ulteriori azioni magiche, che potevano condurre a bellicosità sfocianti in veri e propri conflitti armati.

Oggi, conquistati dall’idea di morte naturale, tendiamo a considerare con cipiglio di superiorità i poveri “primitivi”, affascinati da una morte ritenuta sempre frutto di pratiche magiche. Eppure, come ricorda de Gourmont, anche noi intratteniamo spesso lo stesso atteggiamento nei confronti dei decessi delle persone famose, soprattutto quando queste muoiono in giovane età.

La scomparsa precoce di queste persone, da alcuni di noi paragonate a divinità quasi religiose, e che popolano fittamente il nostro immaginario culturale, erotico, fantastico ecc., è spesso ritenuta inaccettabile per cui la nostra mente elabora spiegazioni sofisticate, spesso complottistiche, per illudersi che, in realtà, esse non sono morte a causa di un infarto, di un aneurisma, di una caduta o di un’altra ragione “banale”, ma perché qualcuno ha voluto la loro morte, ha tramato alle loro spalle, ha messo in atto un piano diabolico per porre fine alla loro esistenza.

In alternativa, come è successo con Elvis Presley, John Lennon e Marilyn Monroe, si preferisce credere che siano ancora in vita, seppure sotto mentite spoglie, per fuggire alla pressione soffocante della celebrità o per altre ragioni sottili che a noi comuni mortali non è dato sempre conoscere.

Insomma, anche in noi è sempre in agguato un pensiero “primitivo” sulla morte che scatta in occasione della scomparsa precoce di nomi celebri del mondo dello spettacolo, del cinema, dello show business, della politica.

Tale atteggiamento, a ben vedere, è una sorta di meccanismo di difesa che ci consente di preservare una idea di immortalità a noi necessaria per continuare a vivere. Come dire: se a ognuno di noi, persone comuni, può capitare di morire precocemente per una causa comune, a loro – ai grandi divi del cinema o della musica – questo non può accadere e, se accade, è per colpa di motivi straordinari, non comuni, in assenza dei quali vivrebbero per sempre.

È una illusione, naturalmente. Un’illusione di immortalità. Ma senza illusioni, la vita non potrebbe essere vissuta.

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Babbo Natale come Halloween

«I bambini credevano a lungo a Babbo Natale e ai neonati trovati sotto un cavolo o in una rosa» (p. 39) dice Annie Ernaux in Gli anni, ricordando il tempo della sua fanciullezza.

Oggi le cose sono cambiate, ma l’associazione tra Babbo Natale e il Natale stesso è ancora indissolubile, tanto che sarebbe impossibile immaginare questa festa senza il paffuto omone vestito di rossa con barba e baffi bianchi.

Eppure, c’è stato un tempo in cui la Chiesa cattolica nutriva nei confronti di Santa Claus (come lo definiscono gli anglofoni) gli stessi sospetti che oggi nutre nei confronti di Halloween, accusata di essere una festa pagana, che non ha nulla a che fare con le nostre tradizioni.

Ce lo ricorda il celebre antropologo Claude Lévi-Strauss, in un suo articolo del 1952 per «Les Temps Modernes» intitolato “Babbo Natale suppliziato” (contenuto in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino, 1967), che inizia così:

Le feste natalizie 1951 resteranno contrassegnate, in Francia, da una polemica a cui la stampa e l’opinione pubblica si sono dimostrati, sembra, molto sensibili, e che ha introdotto, nell’atmosfera gioiosa che è abituale in questo periodo dell’anno, un’insolita nota di acredine. Già da parecchi mesi, le autorità ecclesiastiche, per bocca di certi prelati, avevano espresso la loro disapprovazione per la crescente importanza che le famiglie e i commercianti accordano al personaggio di Babbo Natale. Esse denunciavano un «impaganimento» inquietante della festa della natività, che distoglie lo spirito pubblico dal senso propriamente cristiano di tale commemorazione, a beneficio di un mito senza valore religioso. Questi attacchi si sono intensificati alla vigilia di Natale; certo con più discrezione, ma con altrettanta fermezza, la Chiesa protestante ha unito la sua voce a quella della Chiesa cattolica. Inoltre, sui giornali appaiono lettere di lettori e articoli che attestano, in forme diverse ma in generale ostili alla posizione ecclesiastica, l’interesse risvegliato dalla faccenda. Infine, il punto culminante fu raggiunto il 24 dicembre, in occasione di una manifestazione di cui il corrispondente del giornale «France Soir» ha dato notizia nei seguenti termini:

DINANZI AI BAMBINI DEI PATRONATI

BABBO NATALE È STATO BRUCIATO

SUL SAGRATO DELLA CATTEDRALE DI DIGIONE

Digione, 24 dicembre (nostro servizio)
Babbo Natale è stato impiccato ieri pomeriggio alle grate della cattedrale di Digione e bruciato pubblicamente sul sagrato. Questa spettacolare esecuzione si è svolta alla presenza di molte centinaia dì bambini dei patronati. Era stata decisa in accordo con il clero, che aveva condannato Babbo Natale come usurpatore ed eretico. L’accusa rivoltagli era di paganizzare la festa del Natale e di essersi insediato in essa come un cuculo occupandovi sempre maggior posto. Gli viene rimproverato soprattutto di essersi introdotto in tutte le scuole pubbliche da cui il presepio è scrupolosamente bandito» (pp. 247-248).

Per quanto sembri incredibile, c’è stato, dunque, un tempo, circa 75 anni fa, in cui la Chiesa Cattolica rivolgeva alla figura di Babbo Natale le stesse accuse che oggi rivolge contro Halloween: “Babbo Natale è un personaggio paganeggiante che non ha nulla a che vedere con la ‘vera’ tradizione del Natale”.

Per Lévi-Strauss, la Chiesa aveva ragione perché la credenza in Babbo Natale rappresentava, a suo avviso, «il bastione più solido e uno dei focolai più attivi del paganesimo nell’uomo moderno» (p. 264).

Oggi, però, nemmeno i sacerdoti più retrivi chiedono di bruciare Babbo Natale in effigie. La sua figura è stata completamente assorbita dalla “nostra tradizione” e a nessuno verrebbe in mente di additarlo a simbolo pagano.

Molti altri elementi del Natale hanno origini “pagane” o, comunque, non puramente cristiane: l’albero che addobbiamo ogni anno, l’usanza di scambiarsi regali, la scelta della data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù, il baciarsi sotto il vischio ecc. Eppure, non li avvertiamo come tali. Essi fanno parte a tutti gli effetti di quella dimensione festosa che chiamiamo il Natale e sono legittimati in tal senso dal tempo trascorso.

È possibile allora vaticinare che, tra qualche generazione, anche Halloween sarà avvertita come festa tradizionale e non più spuria e che nessun sacerdote sparerà a zero contro zucche e scherzetti?

Credo di sì, ma risentiamoci tra qualche lustro.

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Le molteplici forme dell’ignoranza

Una delle conclusioni a cui giunge il recente libro dello storico Peter Burke, Ignoranza. Una storia globale (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023) è che l’ignoranza è un campo di studi ancora largamente… ignorato. La tendenza umana a privilegiare il sapere e, quindi, ciò che si conosce ha portato a trascurare ciò che non si conosce. Ma ciò che non si conosce non è una semplice assenza, ma è spesso il risultato di una strategia deliberata del potere che ha interesse a mantenere i suoi sudditi in uno stato di conoscenza assente.

Se questo è vero, è vero anche che l’ignoranza assume diverse forme che, con Burke, possiamo provare a sintetizzare.

Innanzitutto, c’è quella che lo studioso Robert Proctor definisce agnotology, ovvero lo studio dell’ignoranza culturalmente indotta, in particolare la pubblicazione di dati scientifici imprecisi o ingannevoli, come quelli, analizzati dallo stesso Proctor, prodotti dall’industria americana del tabacco per depistare l’attenzione dell’opinione pubblica dal nesso tabacco-cancro. Anche le istituzioni militari e farmaceutiche sono note per la produzione di informazioni distorte e parziali, finalizzate a diffondere un tipo di conoscenza – e quindi di ignoranza – favorevole ai propri interessi. Coniando il termine agnotology, Proctor osserva come l’ignoranza sia più della semplice assenza di conoscenza: essa può considerarsi come l’esito di conflitti politici e culturali tesi a promuovere dubbio, incertezza, ignoranza appunto, relativamente a questioni concrete e importanti spesso nell’interesse di determinati gruppi di potere. L’ignoranza può, dunque, essere costruita attivamente come parte di un piano deliberato.

C’è poi la “dotta ignoranza”, termine coniato dal filosofo quattrocentesco Niccolò Cusano,il quale credeva che al concetto di Dio ci si possa avvicinare soltanto negando quello che egli non è, nel presupposto che Dio sia ineffabile e quindi non conoscibile direttamente.

C’è l’ignoranza organizzativa, provocata dalla diseguale distribuzione della conoscenza all’interno di una organizzazione. L’ignoranza organizzativa è funzionale sia al mantenimento di differenziali di potere all’interno della gerarchia organizzativa sia al più pragmatico svolgimento dei compiti da parte dei singoli membri dell’organizzazione (quella che gli americani chiamano need-to-know-basis).

Ci sono i known knowns, conoscenze di cui si è consapevoli, ciò che si sa di sapere; i known unknowns, le conoscenze inconsce, ciò che non si sa di sapere; gli unknown knowns, ciò che si sa di non sapere; gli unknown unknowns, ciò che non si sa di non sapere.

C’è l’ignoranza selettiva di chi sceglie di non sapere (ad esempio, scegliere di non sapere se si ha un tumore) e l’ignoranza utile o virtuosa (come quando l’ignoranza dell’infedeltà del proprio partner contribuisce al perdurare del matrimonio).

C’è l’ignoranza bianca di chi, bianco, ignora o ha false credenze sui neri e l’ignoranza asimmetrica (quando il gruppo A sa meno del gruppo B o viceversa).

Si potrebbe continuare.

L’ignoranza è un campo quasi inesplorato, eppure essa contribuisce a orientare le nostre esistenze al pari della conoscenza (anche se lo ignoriamo).  

Se desiderate sapere di più sull’argomento, vi rimando alla lettura del libro di Burke.

Vi raccomando anche il mio Alcune funzioni sociali dell’ignoranza (Armando Editore, Roma, 2020) che illumina su alcune sorprendenti funzioni dell’ignoranza nella società. Probabilmente l’unico libro di sociologia dell’ignoranza presente sul mercato editoriale.

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È proibito recitare il rosario in Spagna?

Vari siti italiani (ad esempio questo, questo e questo) hanno recentemente segnalato con allarme che il governo spagnolo del socialista Pedro Sanchez avrebbe deciso di impedire la recita pubblica del rosario; una decisione che minerebbe alla base le più elementari libertà religiose e che è stata accolta con scandalo da vari esponenti cattolici.

In particolare, il governo spagnolo avrebbe vietato una serie di manifestazioni, caratterizzate dalla recita collettiva del rosario, che hanno avuto luogo dinanzi alla sede del PSOE (il Partito socialista operaio spagnolo) a Madrid alla fine dello scorso novembre.

Secondo María García, presidentessa dell’Observatorio para la Libertad Religiosa, si tratterebbe di un attentato clamoroso alla libertà religiosa, una minaccia intollerabile da parte di un governo totalitario.

Ma le cose stanno davvero così? Il governo spagnolo proibisce la recita del rosario o la preghiera in generale come accadeva nell’Unione Sovietica dell’epoca staliniana?

In realtà, come riferisce una debunker spagnola, «ciò che è stato vietato non è la preghiera religiosa, quanto piuttosto l’organizzazione di una serie di proteste non comunicate entro i termini stabiliti dalla legge». Quello che molti siti di parte non dicono, infatti, è che la recita del rosario era parte integrante di una serie di proteste non autorizzate da parte del Governo spagnolo, aventi una finalità sostanzialmente politica.

La legge spagnola stabilisce che

lo svolgimento di riunioni in luoghi di pubblico transito e di manifestazioni devono essere comunicate per iscritto all’autorità governativa corrispondente dagli organizzatori o promotori delle stesse, con un preavviso di almeno dieci giorni di calendario e di trenta al massimo” e che “quando sussistono cause straordinarie e gravi che giustifichino l’urgenza di convocare e tenere riunioni in luoghi di pubblico trasporto o manifestazioni, la comunicazione (…) può essere effettuata con almeno ventiquattro ore di anticipo.

Gli organizzatori delle proteste, dunque, non si sono attenuti alle norme che disciplinano lo svolgimento delle manifestazioni pubbliche. Nessun divieto di pregare. Semplicemente, l’obbligo di far rispettare una legge.

Far passare un divieto imposto dalla legge per una violazione di un diritto basilare è una delle più vecchie strategie propagandistiche utilizzate in ambito politico. In particolare, l’uso di un simbolo religioso come il rosario per fini politici è una pratica a cui anche noi italiani siamo abituati. Si pensi all’uso strumentale del rosario da parte di Matteo Salvini in occasione di comizi politici dove la corona religiosa serve ad “accreditare” posizioni sovraniste o contrarie agli immigrati “in nome di Dio, della patria e della tradizione”.

Su questo e altri aspetti sociali e psicologici del rosario, pubblicherò fra qualche mese un volume che, per la prima volta, discuterà di questo apparentemente innocuo ausilio alla preghiera con il contributo delle scienze sociali.

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L’inattendibilità dei turisti

Capita a tutti noi, al rientro dalle vacanze, di confrontare le nostre impressioni di viaggio con amici, parenti, conoscenti, colleghi. In queste occasioni, riferiamo conoscenze di vario genere apprese durante la visita che si traducono spesso in giudizi definitivi su questo o quel paese. Tali giudizi assumono forma assoluta tramite formule come: “i francesi sono tutti…”; “i settentrionali si comportano…”; “in Africa, le persone…” ecc.

In quanto turisti, tendiamo a riferire queste conoscenze come “autentiche”, “valide”, “attendibili”, “veritiere”. Ma è davvero così? I turisti sono davvero affidabili quando si esprimono sulle caratteristiche, le qualità, i vizi e le virtù dei popoli che visitano in vacanza?

La risposta deve essere per lo più negativa. I turisti sono spesso inattendibili nei loro resoconti di viaggio. E questo per una serie di motivi.

Innanzitutto, essi basano le proprie affermazioni su visite affrettate della durata di poche ore o giorni nel corso delle quali hanno accesso a luoghi o esperienze programmate e stereotipate, ma limitate, che consentono l’acquisizione di informazioni e conoscenze “previste”. Ciò che non rientra nel “programma” viene escluso di norma dalla visita e considerato non significativo o tipico, sebbene possa fornire informazioni importanti sul luogo che si visita.

Il risultato è che il turista, tornato in patria o nel luogo abituale di vita, tenderà a confermare le conoscenze previste dal “programma” di viaggio. Convaliderà, dunque, nei suoi “rapporti di viaggio” l’idea stereotipata di partenza, inevitabilmente parziale, distorta, riduttiva, riferendola come “autentica”.

In secondo luogo, i turisti tendono a generalizzare a partire da singole esperienze: se capita loro una brutta avventura, ad esempio, tenderanno a proiettare il vissuto di quella esperienza sull’intero luogo visitato e sui suoi abitanti. Un comportamento brusco, una rapina, una truffa saranno sufficienti a bollare tutti gli abitanti del luogo come “antipatici”, “inospitali”, “truffaldini”, “infidi”. Al contrario, un incontro eccitante, un’accoglienza calorosa da parte dello staff dell’hotel in cui si soggiorna serviranno a estendere a tutta la popolazione del posto attributi positivi.

In terzo luogo, i turisti conferiscono agli eventi che capita loro di vivere un’importanza esagerata o sottovalutano aspetti che non colpiscono immediatamente la loro attenzione. Ogni esperienza vissuta in vacanza tenderà a essere interpretata come indicatore di strutture caratteriali, urbane, sociali, psicologiche più ampie e profonde. Ciò che non viene vissuto – per mancanza di tempo, per disinteresse, per indifferenza – non esiste o passa in secondo piano. Il turista è estremamente selettivo, ma ciò che colpisce la sua attenzione, sia in senso positivo sia in senso negativo, diviene immediatamente rappresentativo del luogo che visita.

In quarto luogo, i turisti tendono a prestare eccessiva fede alla parola di turisti precedenti, guide turistiche, libri di viaggio, aneddoti, notizie mal comprese dai locali. Queste informazioni “distorte” concorrono a costruire un’immagine inevitabilmente deformata e incompleta del luogo che si visita che, tuttavia, rispecchia per il turista la “verità delle cose”; verità che verrà trasferita come tale in commenti, racconti, resoconti resi ad amici e parenti.

Insomma, c’è qualcosa nel fatto di essere turista che favorisce la parzialità, la distorsione, l’inattendibilità delle conoscenze apprese. Il turista è generalmente inaffidabile. Anche se non lo ammetterà mai.  

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Il peccato cognitivo dell’antropomorfismo

Non c’è dubbio che se dovessimo stilare un elenco dei più gravi peccati cognitivi dell’essere umano, l’antropomorfizzazione, ossia la tendenza a proiettare sugli animali non umani caratteristiche, pensieri, sentimenti ed emozioni umane, sarebbe tra questi. E forse tra i primi posti.

Finanche un osservatore distratto non può non notare come oggi, anche in forza del successo dei movimenti animalisti e di una mutata sensibilità in materia, il nostro rapporto con gli animali sia profondamente cambiato, al punto che il pet è diventato il concorrente principale degli umani sul mercato delle relazioni sociali.

Tale cambiamento è evidente anche dal fatto che gli animali occupano uno spazio sempre maggiore nel mondo dei consumi, tanto che interi settori commerciali si sono affermati con l’intento dichiarato di produrre merci per gli animali: cibo, vestiti, igiene, gadget di ogni tipo, perfino sedute di psicoterapia! Non c’è aspetto del comportamento animale che non sia curato da noi umani. Con il rischio, però,  di vedere in essi “persone” simili a noi in tutto e per tutto e di attribuire loro bisogni, sentimenti, desideri che non hanno.

Così, il cane o il canarino di turno “strizzano l’occhio”, “fanno i dispetti”, “tengono il broncio”, “salutano timidamente”, “fanno i pagliacci”, “mancano di rispetto” o “si comportano in maniera seria”. Un altro rischio è quello di adoperare termini che hanno significati complessi per gli umani e di imporli acriticamente anche agli animali.

Di qui l’interesse del breve articolo di Daniel Q. Estep e Katherine E. M. Bruce, “The concept of rape in non-humans: A critique” (1981), qui tradotto per la prima volta in italiano, che prende le mosse proprio dalla problematicità di termini come “incesto, omosessualità, prostituzione, adulterio, schiavitù, orgasmo e stupro”, quando questi sono applicati a un vasto insieme di comportamenti osservabili nel mondo animale.

Una parola come “stupro”, nello specifico, appare talmente complessa e connotata emotivamente da richiedere particolare attenzione. Per questo gli autori propongono di sostituirla con altre espressioni, più neutrali da un punto di vista denotativo e connotativo.

Lasciando al lettore la sorpresa di scoprire quali siano questi nuovi termini e andando al di là delle riflessioni conchiuse di Estep e Bruce, aggiungerò che questo può essere considerato solo il primo passo verso un nuovo modo di guardare agli animali. Un modo meno antropomorfo, meno umanocentrico, più rispettoso delle specificità e caratteristiche degli animali, i quali non possono essere ridotti al rango di “fornitori di relazioni sociali”, né di surrogati per vite umane incomplete.

Certamente, l’ultimo secolo ha visto l’affermarsi di un atteggiamento più riguardoso nei confronti degli animali, ma anche l’emergere di un contegno “perverso” nei loro confronti, di cui è senz’altro responsabile una deriva antropomorfizzante divenuta ormai senso comune.

Per una trattazione più completa di questa deriva, rimando al quinto capitolo del mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Sulla lamentela “oggi si scrive troppo e si legge poco”

Arnheim lo dichiarò degno di lode. – Ormai ci son quasi soltanto scrittori, e pochissime persone che leggono, – proseguì. – Generale, s’è mai chiesto quanti libri si stampano all’anno? Se ben ricordo escono più di cento volumi al giorno nella sola Germania. E ogni anno si fondano più di mille giornali! Tutti scrivono; ognuno, se gli accomoda, si serve d’ogni pensiero come d’una sua proprietà; nessuno si occupa della responsabilità morale! (Musil, R., 1957, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 548).

Nel mondo della cultura, ci si lamenta spesso del fatto che ci sono più scrittori che lettori. “Tutti vogliono scrivere. Nessuno vuole leggere”. In Italia, questa lamentela assume spesso tinte nazionalistiche: “In Italia tutti vogliono scrivere, nessuno vuole più leggere”, come se si trattasse di un tarlo unicamente nostrano.

A indagare, si scopre che la rimostranza è riferita spesso da scrittori affermati, preoccupati non tanto per le possibili conseguenze nefaste del calo dei lettori, ma del calo delle vendite dei propri libri e della possibile concorrenza di esordienti pronti a insidiare il loro primato (anche se questa preoccupazione non la confesserebbero nemmeno sotto tortura).

C’è poi da intendersi sul significato di “leggere”. Per i letterati, il verbo “leggere” è da intendersi come una sineddoche (la figura retorica della parte per il tutto): vuol dire, cioè, leggere romanzi e poesie di scrittori affermati (o romanzi e poesie scritti da essi stessi). Se si è avidi lettori di fumetti, saggi, manuali, articoli scientifici e altro ancora non si è “veri lettori”. Per loro, una parte – romanzi e poesie – conta più di tutto il resto.

A mio avviso non c’è nulla di male nel fatto di scrivere e pubblicare. Il guaio è quando chi pubblica crede di essere un grande scrittore per questo solo fatto. C’è differenza tra scrivere ed essere “scrittori”. Così come pure tra leggere ed essere “lettori”.

Ma torniamo alla citazione in apertura. Come dimostra Musil, che scriveva nella prima metà del XX secolo, la lamentela del “si scrive troppo e si legge poco” è roba antica. Come è antica la protervia degli scrittori timorosi di vedere minacciate le proprie prerogative. E come accade a tante lamentele, ci dice più cose su chi si lamenta che su ciò di cui ci si lamenta.

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L’ingannevole retorica di Shylock

Mi ha disprezzato e deriso un milione di volte; ha riso delle mie perdite, ha disprezzato i miei guadagni e deriso la mia nazione, reso freddi i miei amici, infuocato i miei nemici.

E qual è il motivo? Sono un ebreo.

Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano?

Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?

E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?

Se noi siamo come voi in tutto vi assomiglieremo anche in questo.

Se un ebreo fa un torto ad un cristiano, qual è la sua umiltà? Vendetta.

La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica; e sarà duro ma eseguirò meglio le vostre istruzioni.

Il monologo di Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare è arcinoto. L’usuraio ebreo difende la propria identità, rivendicando il diritto a essere considerato soprattutto un essere umano, al di là delle appartenenze religiose. “Io sono come voi”, protesta Shylock. Perché, come tutti gli esseri umani, anche gli ebrei piangono, ridono, si ammalano, guariscono, muoiono. Il suo discorso intende persuadere lo spettatore, ricorrendo alla strategia retorica dell’identificazione. Se siamo tutti esseri umani – e questo è un fatto – non devono esserci differenze tra noi. È “scontato” che tutti noi, in quanto esseri umani, piangiamo e moriamo. Si tratta di conoscenze ovvie, note a ognuno di noi.

Ma, a questo punto, Shylock introduce un elemento non tanto ovvio, facendolo passare per tale. “Se ci fate un torto, non ci vendicheremo?”. La domanda è assunta come retorica. Essa prevede, cioè, una scontata risposta positiva. Addirittura, qualche parola più avanti, la vendetta viene presentata come un atto di umiltà cristiana. Ma non è così. La vendetta non discende “naturalmente” dal fatto di subire un torto. Il torto si ripara con la giustizia o con il perdono. La vendetta non è l’esito ovvio del torto come il pianto e la morte sono esiti ovvi e naturali del fatto di essere umani.

Che cosa fa, dunque, Shylock nel suo monologo? Elenca una serie di comportamenti propri a tutti gli uomini e le donne – naturali, ovvi, evidenti – per far passare come naturale, ovvia ed evidente anche la vendetta, che di naturale non ha proprio niente. Una sottile, sapiente strategia retorica per convincere della bontà della condotta vendicativa.

A pensarci bene, si tratta di un’arma spesso utilizzata da persuasori di ogni tipo. Si costruisce un terreno comune, si descrivono argomenti ovvi su cui tutti concordano, per poi inserire di soppiatto un argomento non tanto ovvio, lasciando che le descrizioni precedenti lo “contagino” con la propria ovvietà.

Si pensi al politico populista che, richiamando il “naturale” bisogno di sicurezza di ogni essere umano, introduce sottilmente il tema dell’immigrazione come minaccia a quel bisogno. Oppure, si pensi allo scaltro pubblicitario, che, dopo aver mostrato spazi verdi incontaminati, animali liberi nel proprio habitat, bambini che giocano felici a contatto con la natura, inserisce in questo scenario bucolico la merendina di turno, facendola passare per “naturale”. Gli esempi possibili sono infiniti.

Il monologo di Shylock è il prototipo dei tanti discorsi capziosi cui siamo esposti nella quotidianità, che mirano a persuaderci sulla base di ciò che consideriamo scontato. Esso ci seduce con il fascino dell’ovvietà per venderci di contrabbando ciò che ovvio non è. Incarna una strategia di successo a cui cediamo spesso senza nemmeno accorgercene e di cui siamo spesso vittime. A differenza di quanto accade nella commedia di Shakespeare, dove Shylock non persuade nessuno e, anzi, subisce una sorte avversa, uscendo, infine, di scena dopo aver lamentato un malore.

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Virtù e rapine

È del 17 novembre una notizia che, pur lanciata da diverse testate, anche in rete, sembra non aver suscitato particolari commenti, se non dai diretti interessati.

In sintesi, nel biennio 2021-2022, le rapine in banca risultano quasi dimezzate (-46%) rispetto al biennio precedente. Come riporta il sito di Redattore sociale:

Cresce la sicurezza nelle banche che operano in Italia e negli altri comparti più esposti al fenomeno criminale delle rapine. Nel biennio 2021-2022, infatti, a fronte di una ripresa delle rapine totali commesse in Italia (+7,8% rispetto al biennio 2019-2020), è stata registrata una sensibile riduzione del fenomeno in tutti i settori considerati. Il calo più evidente ha riguardato le rapine in banca che si sono quasi dimezzate (-46%). Seguono le rapine ai distributori di carburante (-30,8%), nelle farmacie (-26,6%), negli uffici postali (-25,6%) e nelle tabaccherie (-22,5%). Rapine pressoché stabili negli esercizi commerciali (+0,4%), mentre aumentano quelle commesse nella pubblica via (+14,7%). Sono questi i principali risultati della nuova edizione del Rapporto Intersettoriale sulla Criminalità Predatoria che prende in considerazione le rapine compiute nel 2022 mettendo a confronto i diversi settori più esposti al fenomeno.

Il Rapporto è stato realizzato dagli esperti di OSSIF (il Centro di Ricerca ABI sulla Sicurezza Anticrimine) e del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale, con la partecipazione di Assovalori, Confcommercio-Imprese per l’Italia, Federazione Italiana Tabaccai, Federdistribuzione, Federfarma, Poste Italiane, UNEM e Italiana Petroli.

Secondo il Direttore Generale dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), Giovanni Sabatini, tale calo è il risultato “della stretta collaborazione con le Istituzioni e le Forze dell’Ordine. La drastica riduzione del fenomeno delle rapine, che negli ultimi dieci anni ha fatto registrare un calo del 90%, passando dalle 1.242 del 2012 alle 124 del 2022, è il risultato tangibile di questo impegno e conferma che procediamo nella direzione giusta”.

Più che di collaborazione – frase d’obbligo nei comunicati stampa – è probabile, tuttavia, che il calo sia attribuibile a una serie di misure di sicurezza e di prevenzione molto pragmatiche che, negli ultimi decenni, hanno interessato le banche.

Si pensi ai vari sistemi di controllo all’ingresso, alle telecamere sia all’interno sia all’esterno delle banche, alla cassaforte temporizzata che ha limitato la quantità di denaro disponibile, alla formazione ad hoc del personale finalizzata alla migliore gestione possibile dell’emergenza rapina, all’aumentato rischio di essere catturati, alla ridotta appetibilità di questa particolare opportunità illecita.

Insomma, i rapinatori non sono diventati più virtuosi. Semplicemente, è per loro più difficile fare quello che facevano un tempo.

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