Come una discarica divenne l’inferno

Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Matteo 5, 22).

Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna (Matteo 5, 29-30).

Nel Nuovo Testamento, i riferimenti alla Geenna, come quelli citati, sono alla base dell’idea che, con il tempo, ci siamo fatti dell’inferno, luogo oltremondano destinato a consumare le anime tra fiamme e tormenti indicibili.

Ciò che è curioso è che il termine Geenna designava nell’Antico Testamento un luogo reale, che gli abitanti del posto sapevano ben localizzare.

La Geenna, infatti, è un avvallamento di Gerusalemme, anticamente luogo di culto idolatrico e poi discarica dove divampava continuamente il fuoco. Il termine deriva dall’ebraico ge Innom che significa “valle di Hinnom”, nota nell’Antico Testamento anche come “valle di Ben-Hinnòn”, ossia “valle del figlio/dei figli di Innom”. La valle si trovava a sud-ovest di Gerusalemme e percorreva la valle del Cedron di fronte al moderno villaggio di Silwan.

A un certo punto, la valle divenne nota come l’altura in cui alcuni re di Giuda intrapresero pratiche religiose proibite, tra cui sacrifici umani per mezzo del fuoco, associate ai riti di Moloch e Tofet. Per questo motivo, il profeta Geremia parlò del giudizio che pendeva su di essa e della sua distruzione (Geremia 7, 30-34):

I figli di Giuda hanno fatto ciò che è male ai miei occhi, dice il SIGNORE; hanno collocato le loro abominazioni nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla. Hanno costruito gli alti luoghi di Tofet nella valle del figlio di Innom, per bruciarvi nel fuoco i loro figli e le loro figlie; cosa che io non avevo comandata e che non mi era venuta in mente. Perciò, ecco, i giorni vengono, dice il SIGNORE, che non si dirà più Tofet né la valle del figlio di Innom, ma la valle del massacro, e, per mancanza di spazio, si seppelliranno i morti a Tofet. I cadaveri di questo popolo serviranno di pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra; e non ci sarà nessuno che li scacci. Farò cessare nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme il grido di gioia e il grido di esultanza, il canto dello sposo e il canto della sposa, perché il paese sarà una desolazione.

Fu Giosia a mettere fine a queste pratiche distruggendo e gettando la maledizione sulla valle di Innom, che divenne una discarica pubblica (2Re 23, 10).

Nell’Antico Testamento, dunque, quando si parla della Geenna, si parla di un luogo reale e concreto, geograficamente individuabile.

Nel Nuovo Testamento, invece, in Matteo, Marco e Luca, ad esempio, il termine “Geenna” perde il suo carattere di toponimo per acquisire la dimensione metaforica di simbolo dell’inferno, dove i dannati bruciano perennemente fra le fiamme, e quindi di perdizione eterna.

La minaccia della Geenna è vissuta come qualcosa di terribile, una punizione senza tempo che strazierà le anime in modi nemmeno immaginabili.

Accade talvolta che luoghi o cose reali assumano, con il tempo, una fisionomia simbolica e vaga che si distanzia progressivamente dalla realtà finendo con il separarsene e trascenderla. In questo passaggio, essi assumono un’identità metafisica, religiosa, divina che fa dimenticare, talvolta, la loro origine terrestre, a favore di una nuova veste che tendiamo a credere generata dalla stessa divinità. In questo modo, la metafora diviene operazione divina che crea ex novo ciò che già l’uomo aveva creato, trasfigurandolo del tutto.

È così che il fulmine diviene un segno dell’ira divina, la peste una punizione inviata da Dio, un’azione cattiva diviene ontologicamente “il male”.

In questo modo, astraiamo una qualità dalla sua dimensione reale, la rendiamo metafora, poi nuova realtà trascendente e le attribuiamo un’origine divina, “cosizzandola”. Attribuiamo a Dio la genesi della nuova realtà, quando siamo noi umani ad averla metaforizzata a partire da qualcosa di sensibile ed evidente.  

Questa operazione è probabilmente a fondamento della stessa identità di Dio, proiezione di timori, aspettative, credenze molto umane, finalizzata a rassicurarci e proteggerci nella finitudine della nostra esistenza.

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Miti e incanti della nostra società

Il denaro non è una realtà materiale: è un costrutto psicologico. Funziona trasformando la materia in concetto mentale. Ma perché succede una cosa del genere? […] Perché accettiamo di rivoltare gli hamburger sulla piastra, vendere assicurazioni sanitarie o fare da babysitter a tre marmocchi pestiferi […], quando tutto quello che otteniamo in cambio dei nostri sforzi è qualche pezzo di carta colorata? Si è disposti a fare queste cose se abbiamo fiducia nelle invenzioni della nostra immaginazione collettiva (Harari, Y., 2022, Sapiens. Da animali a dei, Bompiani, Milano, p. 37).

Altro che facoltà evasiva e inconcludente! L’immaginazione, come ci ricorda Yuval Harari, crea mondi e conferisce senso a quello in cui viviamo. Struttura le nostre esistenze, fornendo loro “miti” in cui credere, che motivano il nostro agire. È alla base dei valori, delle norme, delle regole che ci guidano fin nelle azioni più banali che compiamo.

La precondizione perché ciò accada, tuttavia, è che l’immaginazione sia condivisa, diventi fatto collettivo, esercizio di gruppo. Se questo non accade, diventa delirio di un pazzo, illusione di un mentecatto, utopia destinata al fallimento.

Sono i miti comuni a fondare le religioni; miti comuni a creare le nazioni; miti comuni a istituire i sistemi giudiziari. Se, invece, il mito religioso è appannaggio di un unico individuo, si parlerà di delirio e il rischio della casa di internamento diventerà reale.  Ugualmente, chi volesse fondare una nazione in assenza di condivisione collettiva della sua idea sarebbe presto condannato all’emarginazione. Chi volesse imporre una idea di giustizia ritenuta ridicola dagli altri attirerebbe su di sé derisione e ostracismo.

Come dice ancora Harari: «Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani» (Harari, 2022, p. 41).

I miti collettivi presuppongono credenze, ma anche fiducia: la fiducia che i nostri simili credano a quello in cui crediamo noi. Da questo punto di vista, per quanto spesso ci lamentiamo della diffidenza che regnerebbe sovrana nella nostra epoca, si può dire che, da un punto di vista sociologico, la nostra è la società che più di ogni altra si basa su reti di fiducia salde e ben strutturate.

E non è affatto vero che viviamo in una società disincantata e secolarizzata. Miti e incanti sono ancora tra noi, solo che, essendo condivisi e interiorizzati fin nei precordi delle nostre interiorità, li chiamiamo “senso comune”, illudendoci di aver destituito di ogni fondamento mitologico le nostre esistenze.

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L’appeal dei supereroi

Che cosa rende così attraenti i supereroi? Da Superman a Antman, da Batman a Ironman, da Black Panther a Thor, perché questi “personaggi di fantasia” esercitano un così profondo fascino su di noi? Che cosa ci spinge ad assistere con il fiato sospeso alle loro avventure impossibili, narrate in mondi impossibili, abitati da “cattivi” (villains) altrettanto impossibili?

Sappiamo tutti che quei superpoteri non esistono, che nessuno potrebbe volare, scagliare fulmini o ragnatele dalle mani, ricevere colpi micidiali senza battere ciglio, diventare invisibile e così via. Ciò nonostante, rimaniamo incollati allo schermo (televisivo o del cinema) fino alla fine della serie o del lungometraggio a fare il tifo per loro. E non importa se abbiamo 14 o 44 anni; se siamo maschi o femmine; bianchi o neri. I supereroi dominano il nostro immaginario e ci piace che lo facciano. Perché?

Tra le tante risposte possibili, una chiama in causa i meccanismi dell’identificazione e della proiezione. I supereroi sono di frequente uomini e donne mediocri o, almeno, ordinari, che vivono esistenze mediocri, o, in alternativa, frustranti, svolgendo lavori mediocri o anonimi (anche se potenzialmente rilevanti), ma che, in virtù di superpoteri acquisiti spesso in maniera casuale, riscattano la propria pochezza, maneggiando improvvisamente capacità superiori al resto dell’umanità.

Il superpotere giunge loro dall’esterno, fortuitamente e inaspettatamente, equivalente simbolico di una lotteria milionaria, e stravolge le loro vite, imponendo capacità e responsabilità impreviste con cui devono fare i conti per il resto della loro esistenza. Sono tenuti al segreto riguardo alla loro identità e vivono una doppia vita, consapevoli della loro distinzione rispetto al resto del mondo.

È facile, allora, capire perché gli spettatori amano identificarsi nelle loro vicende. La maggior parte di noi che guardiamo siamo persone altrettanto mediocri, ordinarie o frustrate che, immedesimandoci nel Superman o Capitan America di turno, riusciamo, almeno per qualche ora, a illuderci di avere dei superpoteri attraverso cui riscattare le nostre misere vite.

“Se solo fossimo come loro…” ci incita la nostra fantasia! E almanacchiamo su cosa faremmo se avessimo quel potere speciale che ci rende incredibilmente forti o invisibili. Proiettiamo così sui nostri supereroi i nostri limiti, superandoli in maniera vicaria, almeno per qualche tempo. E se qualcuno ci fa un torto nella vita reale, ci piace immaginare di avere capacità nascoste che ci consentirebbero di “fargliela vedere”.

Si potrebbe ipotizzare un rapporto direttamente proporzionale tra livello di frustrazione e capacità di immedesimazione. Più siamo frustrati, più tendiamo a indentificarci con i nostri superamici e più siamo avvinti dalle loro avventure.

Un elemento non trascurabile, tuttavia, ci differenzia dai supereroi. Nelle loro saghe, i vari Batman e Spiderman affrontano correttamente le responsabilità che accompagnano inevitabilmente i loro superpoteri. Per dire, è improbabile che uno di essi si vendichi del bullo che li tormentava da piccoli, del belloccio che gli sottrae la ragazza del cuore o del collega piaggiatore che ottiene la promozione immeritatamente al suo posto.

Noi sapremmo comportarci altrettanto responsabilmente? O useremmo i superpoteri per confermare in sostanza la nostra persistente mediocrità?

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Sociologia di Trevignano e delle apparizioni mariane

Molte sono le osservazioni sociologiche e antropologiche che è possibile fare sul contenuto del decreto tramite il quale il vescovo di Civita Castellana, Marco Salvi, ha dichiarato riguardo ai fatti di Trevignano e di Gisella Cardia: constat de non supernaturalitate, ossia “Le apparizioni mariane a Trevignano non hanno nulla di soprannaturale”.

La Chiesa possiede tre formule per esprimere un giudizio sull’origine soprannaturale di un fenomeno:

Constat de supernaturalitate: si conferma l’origine soprannaturale del fenomeno;

Constat de non supernaturalitate: si conferma l’origine non soprannaturale del fenomeno;

Non constat de supernaturalitate: Formula dubitativa con la quale non si conferma né l’origine soprannaturale, né quella non soprannaturale del fenomeno.

Il fatto che il vescovo di Civita Castellana abbia scelto la formula di rifiuto è indice del grado di negazione assoluta delle apparizioni mariane a Trevignano da parte delle autorità cattoliche. Rifiuto espresso categoricamente con le parole: “Il titolo ‘Madonna di Trevignano’ non ha alcun valore ecclesiale e non può essere usato come se lo avesse, anche in ambito civile”.

Il decreto impone poi ai sacerdoti il divieto di celebrare i sacramenti o guidare atti di pietà popolare nei luoghi dei fatti di Trevignano o anche in altri luoghi privati, pubblici ed ecclesiali. Vieta anche il semplice recarsi nel luogo di questi fatti.

Tra le ragioni di condanna dei messaggi della Madonna di Trevignano il fatto che essi presentano numerosi errori teologici e “l’eccessiva semplicità dei temi dei messaggi e delle esortazioni della presunta veggente”.

Ma è proprio su questi rilievi che si focalizza l’attenzione del sociologo. Non è forse vero che errori teologici ed eccessiva semplicità sono una costante sociologica dei messaggi delle varie madonne “approvate” di Lourdes, Fatima, Medjugorje e simili? Ad esempio, i veggenti della città bosniaca non sono stati forse accusati di ripetere in continuazione gli stessi messaggi bolsi e vacuamente ecumenici? Un esempio risalente al 25 febbraio 2024: “Cari figli! Pregate e rinnovate il vostro cuore affinché il bene che avete seminato porti frutto di gioia e di unione con Dio. La zizzania ha preso molti cuori e sono diventati sterili, perciò voi, figlioli, siate luce, amore e le mie mani tese in questo mondo che anela a Dio che è amore”.

Ebbene, questo messaggio non è fin troppo prevedibile e privo di originalità, richiamando toni e tempi presenti nei “pensierini” sulla pace di ogni bimbetto di scuola elementare?

La stessa elementarità si trova in sostanza in tutte le apparizioni mariane. E ricordiamo che né Bernadette né i tre pastorelli di Fatima erano esattamente “esperti” in questione teologiche.

Insomma, il vescovo Marco Salvi parla di Trevignano, ma le sue osservazioni non possono estendersi sociologicamente a tutte le apparizioni mariane?

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Comunicare la disabilità

Le parole hanno il potere di creare realtà, unire o dividere, fare amare o odiare, generare affiliazioni o discriminazioni. Questo è tanto più vero se si considera un campo semantico complesso quale quello della disabilità in cui è facile, anche in buona fede, adoperare termini che stigmatizzano o umiliano.

Comunicare la disabilità. Prima la persona, a cura di Antonio Giuseppe Malafarina, Claudio Arrigoni e Lorenzo Sani dell’Ordine dei giornalisti, è un manualetto, rivolto in primis a chi pubblica notizie per mestiere, che ci aiuta a orientarci nel linguaggio inclusivo sulla disabilità, senza cadere negli eccessi del politicamente corretto. In esso è possibile trovare utili indicazioni sui termini da evitare e quelli da adoperare. Ecco alcuni esempi.

DA EVITAREDA USARE
Handicappato
Persona handicappata
Disabile
Diversamente abile
Persona disabile
Persona diversamente abile
Persona con… (specificare la condizione: per
es., paraplegia, tetraplegia, cerebrolesione, sindrome di Down ecc.)
Persona con una disabilità o con disabilità
(prima di tutto si è una persona, ragazza, un ragazzo, bambino, atleta, queer ecc. Metti la persona al primo posto invece che riferirti solo alla
sua condizione)
Handicappato fisico
Handicappato mentale
Persona con una disabilità fisica
Persona con una disabilità intellettiva e/o
relazionale
Persona normale
Persona normodotata
Normodotato
Persona senza disabilità (preferibilmente) o persona che non ha disabilità
Un paraplegico, un tetraplegicoUna persona con paraplegia, tetraplegia
Un cieco
Un non vedente
Una persona non vedente
(meglio evitare il “non” iniziale, che rischia
di negativizzare la persona in generale)
Una persona cieca
Per chi ha un residuo visivo usare:
persona ipovedente
La traduzione del termine inglese “visually
impaired”, menomato nella vista, in italiano è
peggiorativa
Un ritardato
Un Down, una persona Down, mongolo,
mongoloide
Una persona con disabilità intellettiva o
relazionale
(non esistono persone ritardate e non è corretto
indicare un ritardo mentale)
Una persona con sindrome di Down
(condizione genetica e non malattia)
Spastico
Cerebroleso
Persona con una paralisi cerebrale
Persona cerebrolesa
Persona con una cerebrolesione
Menomato oppure invalido oppure storpiocon una disabilità fisica
Confinato oppure relegato in carrozzinaUsa una carrozzina
(la carrozzina aiuta a muoversi e non limita)
Carrozzella (è quella trainata da cavalli)Carrozzina o sedia con ruote o sedia a rotelle o sedia con rotelle

Usare le “parole giuste” consente di “vedere” la realtà della disabilità in modo rispettoso e non umiliante. Le parole segnalate potrebbero, ovviamente, mutare nel tempo ed essere sostituite da altre che la società considererà più adeguate ai tempi. 

Nel frattempo, per chi voglia consultare l’intero manualetto, rimando a questo link per una lettura sicuramente utile e istruttiva.

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Gli anacronismi di Lidia Poët

“La legge di Lidia Poët” è una recente serie Netflix, con Matilda De Angelis nei panni della protagonista, liberamente ispirata alla vita della prima avvocata d’Italia ad essere iscritta all’ordine degli avvocati.

Lidia Poët (1855-1949), in effetti, è esistita davvero. Laureata in giurisprudenza nel 1881, fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura nell’agosto 1883, iscrizione poi revocata qualche mese dopo (novembre 1883) sulla base dell’argomentazione che, quello di avvocato, non era mestiere per donne.

Solo nel 1920, all’età di 65 anni, in seguito all’approvazione della Legge n. 1179 del 17 luglio 1919, Poët riuscì a entrare nell’Ordine degli avvocati e a vedere riconosciuto un lavoro che, di fatto, esercitava da anni con il fratello Enrico.

Ora, se, da un lato, la serie Netflix ci consente di acquisire familiarità con una figura non da tutti conosciuta e sicuramente meritevole di essere apprezzata, anche per il suo lavoro pioneristico in ambito femminista, dall’altro, evidenza notevoli inesattezze e anacronismi a cui vale la pena accennare.

Nel primo episodio, la protagonista è vista dallo spettatore in aperto rapporto sessuale con un giovane amante che, si intuisce, impegnato in un cunnilinguo. I due si mostrano nelle loro nudità perfette, esibendo comportamenti sessuali oggi normalissimi, ma assolutamente discutibili per l’epoca; epoca che sosteneva standard sentimentali, sessuali e igienici sensibilmente diversi dai nostri. Quanti riflettono, ad esempio, sul fatto che pratiche sessuali orali presuppongono forme di igiene incompatibili con gli standard di pulizia del XIX secolo?

Non sto dicendo che tali pratiche non fossero possibili all’epoca, ma che presentarle, come viene fatto nella serie, come “fatto ordinario” è piuttosto lontano dallo spirito del tempo.

Ugualmente inverosimile, nel secondo episodio, l’ingresso della Poët in una fumeria d’oppio frequentata da loschi individui e membri dell’alta borghesia.

Come nel caso del sesso, questa scelta sembra avere come fine una rappresentazione fin troppo spregiudicata e ribelle di una donna che, nella vita reale, fu una borghese ligia ai costumi del suo tempo.

Il linguaggio dei protagonisti, anche in contesti formali, è eccessivamente “contemporaneo”. Nessuno pronuncia termini, espressioni, formule dell’Ottocento. Solo la lettura della sentenza di revoca dell’iscrizione di Poët viene resa in maniera più o meno aderente all’originale. Per il resto, tutti parlano come si parla oggi.

Anche il linguaggio non verbale dei protagonisti della serie è palesemente contemporaneo: smorfie, scrollate di spalle, movimenti del corpo, modi di camminare tradiscono una non verbalità tipica dei giorni nostri, nonché una disinvoltura gestuale che non ci si aspetterebbe da individui che vivono nel XIX secolo.

La colonna sonora della serie è totalmente dissonante rispetto alla realtà storica della trama: non ci sono arie e musiche dell’Ottocento, ma motivi rock ovviamente sconosciuti a chi visse all’epoca.

È probabile che tali anacronismi servano a rimarcare l’eterodossia del personaggio “Lidia Poët”, ma è evidente che le distanze tra realtà e rappresentazione sono eccessive.

Infine, la Lidia Poët della fiction è una donna bella e affascinante. La vera Lidia Poët, almeno in base alle immagini disponibili, aveva un aspetto fisico ordinario. Ciò rientra nella tendenza filmica a valorizzare i protagonisti attribuendo loro caratteristiche fisiche, estetiche e morali superiori alla media nel presupposto che la bellezza esteriore rispecchi il possesso di qualità interiori d’eccezione. Si tratta di una vecchia strategia retorica della fiction televisiva che, però, può provocare distorsioni e cattive interpretazioni della storia reale.

Allo stesso modo, la protagonista viene resa in maniera ipersessualizzata e iperfemminista, scelta, a mio avviso, discutibile.

Anacronismi e imperfezioni non tolgono, comunque, nulla al fatto che la serie “La legge di Lidia Poët” consente di conoscere un personaggio ignoto ai più e che merita di essere conosciuto. Al riguardo, raccomando questo sito che consente di penetrare nel mondo della vera Lidia Poët, anche attraverso la lettura dei suoi scritti.

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Ciclismo e classi sociali

C’è una relazione tra sport e classi sociali? A guardare alla storia del ciclismo sembrerebbe di sì.

Si pensi ad alcuni campioni del ciclismo italiano come Girardengo, Binda, Guerra, Bottecchia. Ottavio Bottecchia, primo ciclista italiano a vincere il Tour de France, nacque in una famiglia povera e lavorò prima come muratore e poi come carrettiere di legnami prima di raggiungere il successo con il ciclismo. Learco Guerra lavorò come muratore fino ai 25 anni. Alfredo Binda lavorava come stuccatore presso uno zio materno. Costante Girardengo lavorava presso le officine ALFA e percorreva ogni giorno 40-50 km in bicicletta tra andata e ritorno a casa. Anche Gino Bartali e Fausto Coppi avevano origini umili e svolsero occupazioni modeste prima di diventare le icone del ciclismo che conosciamo.

Come ricorda Gian Franco Venè,

l’origine dei campioni era bassa, se non infima, e c’era una ragione precisa: per allenarsi molto, farsi i muscoli, conoscere la propria capacità polmonare e iscriversi a una società di dilettanti (ogni cittadina ne aveva più d’una) occorreva svolgere un lavoro quotidiano che contemplasse l’uso continuo della bicicletta, possibilmente di proprietà del datore di lavoro, non del dipendente che non poteva permettersela. I giganti del ciclismo furono così ex garzoni di fornaio, fattorini, portalettere, o anche figli di contadini che, per andare a scuola, arrancavano su strade pessime, con molte salite, per decine di chilometri al giorno (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, p. 194).

Questa origine umile spiega anche la popolarità del ciclismo presso le classi inferiori. Il fatto che i campionissimi usassero un mezzo comune ai membri dei ceti inferiori favorì certamente un rapido processo di identificazione nelle loro imprese. Queste furono vissute come una sorta di riscatto sociale dai marginali, ma non solo. Anche da parte di operai e impiegati.

In epoca fascista, infatti, e anche dopo, operai e impiegati pubblici andavano al lavoro in bicicletta. Il pendolarismo tramite automobile o treno non esisteva e bisognerà attendere qualche decennio prima che le cose cambiassero.

E oggi?

Oggi operai e impiegati pubblici intasano le strade con le loro automobili e affollano i treni, lamentandosi di code in autostrada e ritardi in ferrovia. Le biciclette, invece, sono diventate una forma di passatempo ludico o sportivo per tutti. Nessuno più le utilizza per andare al lavoro… tranne operai e badanti straniere, troppo “poveri” per permettersi auto e treno.

Sì, a ben vedere, le biciclette sono tornate ad essere un simbolo di classe, anche se pochi se ne sono accorti.

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Insulti e offese nel calcio secondo un recente sondaggio

Insultare, offendere, indulgere in atteggiamenti razzisti, anche nel calcio, sono condotte diffusamente vituperate. Ci aspetteremmo, dunque, che chiunque sia intervistato sul tema si esprima coerentemente con quello che viene ritenuto un sentire comune. Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.

Secondo un sondaggio CAWI (Computer Assisted Web Interviewing) realizzato dalla SWG, società specializzata in ricerche di mercato, di opinione, istituzionali e studi di settore, tra il 24 e il 26 gennaio 2024, su un campione rappresentativo nazionale di 800 soggetti maggiorenni, gli atteggiamenti al riguardo sono alquanto eterogenei ed esiste uno zoccolo duro che giudica positivamente l’offesa e l’insulto, anche a sfondo razzista.

Per il 20% del campione, ad esempio, seguire la propria squadra dal vivo porta ad un travolgimento emotivo per il quale è normale lasciarsi andare anche a comportamenti non proprio corretti.

Per metà circa degli italiani, insultare la propria squadra o il proprio campione in seguito a prestazioni negative, intimidire gli avversari e insultare l’arbitro sono un elemento del tifo. Per il 16% è normale scontrarsi fisicamente con i tifosi avversari. Per il 29% è normale utilizzare petardi e fumogeni. Per 1 italiano su 5 sono normali gli insulti ai giocatori legati alla loro nazionalità ed etnia.

Per l’8% del campione, allo stadio è tutto concesso, è giusto che i tifosi vivano le partite con intensità e si lascino andare.

Per il 18% è un elemento del tifo insultare un giocatore per la sua nazionalità o le sue origini etniche, oltre che definire un giocatore “zingaro” o “ebreo”. Per il 16% è normale fare il verso della scimmia o lanciare banane ai giocatori di colore

Tuttavia, dagli sportivi oggetto di insulti ci si attende un comportamento esemplare e, secondo il 74% degli italiani, uno sportivo dovrebbe cogliere queste occasioni per sensibilizzare le persone con le proprie azioni anche a rischio di assumere posizioni forti e ricevere squalifiche.

Sembra, dunque, che, per una parte degli italiani, il calcio sia da considerare una sorta di terra di nessuno in cui comportamenti proibiti in altre dimensioni della vita sono, invece, da considerare leciti. Eppure, tre quarti degli intervistati ritiene che sia necessario sensibilizzare sulle tematiche del razzismo nel corso degli eventi calcistici. Una sorta di schizofrenia, spiegabile forse con l’idea che l’offesa, l’ingiuria abbiano più che altro una finalità retorica nel calcio: l’obiettivo, cioè, è opporsi all’avversario in ogni modo possibile e, a tal fine, anything goes, come dicono gli inglesi.

Si tratta di dinamiche complesse e non sempre intuitive, che ho cercato di dipanare nel mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi, Milano, 2020).

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Cambiarsi la biancheria come fatto sociale

Nel 1937, in piena epoca fascista, si distribuivano agli impiegati pubblici consigli di igiene come il seguente:

Sarebbe assai bene mutarsi di biancheria ogni quattro giorni: ma purtroppo molte volte le necessità economiche si oppongono ad una larghezza che ha tante ragioni per essere seguita. Si ricordi almeno che alcune biancherie hanno diritto al rinnovo frequente: e le mutande si chiamano così appunto perché debbono essere spesso mutate, e le calze sono così facili a lavarsi che basta la buona volontà a ciò che ogni tre-quattro giorni abbandonino il piede. Ne guadagna la educazione, la salute e talora anche l’olfatto (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, pp. 43-44).

Il consiglio appena esposto rivela l’esistenza di standard igienici in epoca fascista sensibilmente diversi dai nostri. Oggigiorno, un membro competente della società non può evitare di lavarsi e cambiare la propria biancheria giornalmente. Non farlo – soprattutto se tale negligenza si traducesse in un odore sgradevole – attirerebbe inevitabilmente giudizi negativi che, in casi estremi, comporterebbero una vera e propria squalifica sociale o una espulsione dal consesso delle persone civili.

Contrariamente a quello che si ritiene comunemente, il rispetto delle norme di pulizia non è solo questione di civiltà. Gli standard igienici riflettono precise condizioni di produzione materiale. In epoca di consumismo avanzato, l’acquisto di articoli di biancheria facilmente usurabili a causa del materiale con cui sono realizzati è fatto comune. È pratica diffusa comperare per pochi euro mutande e canottiere, destinate a un rapido ricambio a causa della deperibilità dei materiali. Ciò rende possibile indossare ogni giorno nuovi capi di biancheria. Questa condizione, abbinata alla disponibilità quasi illimitata di acqua e di prodotti per la pulizia di ogni tipo, consente, anzi impone, l’adesione a norme di igiene molto esigenti che, in quanto tali, non possono essere disinvoltamente trasgredite se non si vuole apparire come dei “devianti igienici”.

In epoca fascista, invece, l’acquisto frequente di indumenti intimi non era alla portata delle tasche di tutti. Anzi, l’ethos popolare spingeva a tenere con sé le stesse mutande per anni e anni e a disfarsene solo se totalmente inutilizzabili. Il ricambio di biancheria era molto meno frequente, così come, del resto, non esistevano in tantissime abitazioni servizi igienici interni, né abbondanti e diversi prodotti per la pulizia della pelle. Il risultato era che la maggior parte delle persone condivideva standard di pulizia e olfattivi che oggi troveremmo inaccettabili, ma che, all’epoca erano del tutto ordinari.

Potremmo essere tentati dall’idea di etichettare i nostri antenati come più “lerci” di noi, ma anche i criteri di pulizia cambiano di epoca in epoca. Non esistono, al riguardo, standard universali e immutabili. È probabile, anzi, che, in un futuro non troppo distante, perfino le nostre norme igieniche appariranno discutibili.

Ogni epoca, tuttavia, tende a interpretare etnocentricamente le proprie norme igieniche come assolute, condannando chi non aderisce a esse a un ruolo di deviante e imputandogli, talvolta, condizioni patologiche. Così oggi, trascurare la propria igiene – ad esempio, “mutare” le mutande ogni quattro giorni o più – potrebbe essere interpretato come un sintomo di depressione, una forma di accidia o, nel migliore dei casi, un indice di sudiceria. 

Ciò che un tempo era normale diventa patologico qualche decennio dopo. Di questi mutamenti è piena la storia dell’umanità. Il che dovrebbe almeno portarci a essere più benevoli nei confronti di noi stessi e di chi ci ha preceduto.

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Immaginazione e fantasia nella società cosmopolita

Scrive l’antropologo Arjun Appadurai:

Nel corso degli ultimi vent’anni il peso dell’immaginazione e della fantasia è notevolmente cambiato, e precisamente nella misura in cui il processo di de-spazializzazione delle persone, delle rappresentazioni e delle idee ha acquisito nuova forza. In tutto il mondo sempre più persone considerano la propria esistenza nell’ottica di possibili forme di vita proposte dai mass-media in tutti i modi immaginabili. Questo significa che la fantasia è oggi diventata una prassi sociale; è in innumerevoli varianti il motore della configurazione della vita sociale di molte persone in società di vario tipo. […] anche l’esistenza più miserabile o quella più disperata, le condizioni più brutali e disumane, la peggiore ingiustizia sperimentata, sofferta, vissuta sono oggi aperte al gioco dell’immaginazione – prigionieri politici, bambini che lavorano, donne che sgobbano nei campi e nelle fabbriche di questo mondo. […] il nuovo potere che l’immaginazione ha acquisito nella produzione della vita sociale è indissolubilmente legato a rappresentazioni, idee e situazioni che vengono da altrove. […] Perciò un’affermazione dell’identità culturale legata al luogo è un azzardo pericoloso (Arjun Appadurai, cit. in Ulrich Beck, 2003, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, pp. 114-115).

Quanto è importante l’immaginazione per le nostre vite di soggetti della società contemporanea? Quanto incide la fantasia sul modo in cui ci rappresentiamo il mondo? Le immagini mediatiche che introiettiamo insieme al cibo in ogni singolo momento delle nostre esistenze istituiscono i valori, le mete, le aspirazioni, gli standard di pulizia e decenza, di accettazione e repulsione a cui informiamo la nostra condotta sociale.

Pensiamo ai migranti che attraversano il pianeta spinti da rappresentazioni mutuate dai media mondiali; agli adolescenti che costruiscono i loro sogni adattandoli dai tanti mezzi di comunicazione social e di massa a cui sono esposti; a chi si converte a una religione dopo aver assistito a un evento in mondovisione (come si diceva un tempo).

È tutto un incrocio di immagini, filmati, icone che scorrono nelle nostre teste, soppiantando spesso le esperienze reali, condannate per principio proprio perché troppo reali e insufficienti al cospetto di quello che l’immaginazione sa darci e che spesso, come diceva Jean Baudrillard, è più vero del vero.

Come dice Appadurai, ognuno di noi è mosso da idee e situazioni che vengono da altrove, ma che, una volta entrate nelle nostre teste, non avvertiamo più come distanti o inarrivabili. È il paradosso della globalità esistenziale: il lontano può essere per noi più vicino del fisicamente vicino; il vicino può essere più invisibile del lontano e distante.

Solo che raramente ci soffermiamo a meditare su questo paradosso e continuiamo a vivere come se la vita fosse semplice e lineare.

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