La legge di Goodhart

Risale al 1975, la “legge di Goodhart” che viene oggi formulata nel modo seguente: “When a measure becomes a target, it ceases to be a good measure”, ossia “Quando una misura si trasforma in un obiettivo, smette di essere una buona misura”. Charles Goodhart (1936) è un economista britannico, noto per le sue critiche, nemmeno tanto velate, alle scelte del governo Thatcher.

In un articolo intitolato “Problems of Monetary Management: The U.K. Experience”, egli scrive, tra l’altro: “Any observed statistical regularity will tend to collapse once pressure is placed upon it for control purposes”, ovvero “Qualsiasi regolarità statistica osservata tenderà a venire meno una volta che su di essa venga esercitata pressione a fini di controllo”. Con questa frase, Goodhart intendeva criticare le politiche monetarie basate sul raggiungimento di obiettivi metrici, ma la fortuna della legge si deve soprattutto alla formulazione prima citata, la cui interpretazione si è estesa ben al di là del settore dell’economia.

Il significato centrale della legge, al di fuori del campo economico, è che quando ci si pone un obiettivo legato a un parametro metrico, questo diviene spesso fine a sé stesso, tradendo lo scopo principale per cui era stato ideato.

Questo è particolarmente vero nella nostra epoca “quantofrenica” (Pitirim Sorokin), dominata dalla tendenza a ridurre tutto a misurazione, come se ciò garantisse automaticamente la verità.

Spesso non ci si rende conto che la misura diviene un feticcio da venerare di per sé, dimenticando il motivo per cui era stata concepita, con conseguenze paradossali. Il rischio principale è che la misura può assorbire interamente il concetto di cui è misura fino a coincidere con esso. In questo modo, il concetto si immiserisce, rimanendo prigioniero di un grossolano equivoco di cui però la contemporaneità sembra essere paciosamente orgogliosa.

Facciamo qualche esempio.

Nel sistema scolastico, il voto – inteso quale misura del livello di conoscenza raggiunto dallo studente – è talmente centrale che l’unica cosa che conta davvero è il conseguimento di una buona “valutazione numerica”, con il risultato che non è nemmeno rilevante quale livello di cultura sia stato effettivamente raggiunto dal discente. Un ottimo studente può essere semplicemente chi riesce a trovare il giusto metodo per raggiungere una buona votazione. Tutto il resto è pressoché insignificante dalla prospettiva del sistema

In psicologia, il concetto di intelligenza viene spesso ridotto a ciò che viene misurato dal test di intelligenza, che per definizione ha il compito di ridurre a numero i complessi contenuti del concetto. La conseguenza è che alcune dimensioni, pur rilevanti, del costrutto vengono “messe a tacere” a vantaggio di altre, sulla base di criteri discutibili di valutazione.

In ambito universitario, la carriera di ricercatori e professori viene valutata in base al numero di pubblicazioni prodotte. Questo fa sì che conti più il numero delle pubblicazioni che la loro qualità, oltre ad altri fattori metrici, con effetti non sempre condivisibili sulla qualità della ricerca. Il numero di pubblicazioni cessa, dunque, di essere un buon indicatore del lavoro del ricercatore nel momento stesso in cui viene elevato a obiettivo da raggiungere.

In ambito sessuale, infine, è ancora usuale “misurare” la virilità sulla base del numero di orgasmi avuti o delle donne “possedute”: una valutazione meramente quantitativa che sommerge ogni altro possibile approccio alla sessualità.

Viviamo in un’epoca governata, anche ideologicamente, da misure e parametri numerici, indicatori per noi sinonimi di scientificità e, quindi, di verità. Non ci rendiamo così conto di vivere in un universo finzionale in cui i costrutti da noi concepiti sostituiscono la realtà dandoci l’illusione di essere più reali di essa.

 

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