Tatuaggi di oggi e di ieri

Esaltati e vituperati, magnificati e riprovati, indice di gusto, ma anche “disgrazia sgraziata”, i tatuaggi occupano un ruolo sempre più centrale nell’immaginario estetico della contemporaneità, tanto da essere diffusissimi nelle nuove generazioni che vedono in essi un ornamento, ma anche una modalità espressiva, un segno identitario, una forma di comunicazione.

Non era così ai tempi di Cesare Lombroso. Il “padre” della criminologia contemporanea vedeva in essi un chiaro significato delinquenziale e non aveva remore a definire chi vi ricorreva un criminale, riflettendo, in questo, il senso comune della sua epoca (fine Ottocento – inizio Novecento).

Per Lombroso, il tatuaggio era frequente in certe categorie ed in particolare nei detenuti. Più in dettaglio, tra i recidivi e i delinquenti nati. Inoltre, mentre nei “normali” i tatuaggi apparivano per lo più sulle braccia o sul petto, nei delinquenti apparivano distribuiti su tutta la superficie della pelle. Non a caso, Lombroso considerava i tatuaggi un importante riscontro della teoria dell’atavismo secondo cui la delinquenza si spiega con il riemergere di tratti primitivi dell’evoluzione umana.

Secondo Lombroso nelle popolazioni selvagge, il tatuaggio era soprattutto un segno di casta e di prestigio e, se è sopravvissuto nella modernità, ciò può essere accaduto solo negli strati più marginali e atavici della popolazione, quindi tra delinquenti e prostitute. La persistenza del tatuaggio in questi gruppi era dovuta, secondo lui, alla vanità e all’imitazione, caratteri tipici delle classi inferiori della società.

Dopo Lombroso, l’interpretazione del tatuaggio è diventata molto più articolata. Esso è stato, di volta in volta, considerato sintomo di  immaturità, di caratteropatia, di psicopatia sessuale, di omosessualità, sadismo e masochismo, di alienazione mentale; «indizio di predisposizione criminale ovvero di contatti con il mondo criminale; conseguenza della deprivazione della libertà: sfida al potere, espressione di ribellione o almeno desiderio di mostrarsi in contrasto con l’ordinamento, la società o la gerarchia; tentativo di identificarsi in un gruppo; espressione di disadattamento sociale; tentativo di compensazione di sentimenti o di una situazione di inferiorità» (Baima Bollone, P. L., 1992, Cesare Lombroso ovvero il principio di irresponsabilità, SEI, Torino, 128-130).

Sono trascorsi pochi decenni e lo status del tatuaggio è completamente cambiato. Da stigma criminale e psicopatologico, è divenuto segno normale, o almeno accettato, in tutti gli strati della popolazione e non incontra quasi più resistenza estetica, se non presso i meno giovani.

Certo, non è la prima volta che un fenomeno, inizialmente relegato alle classi inferiori, ascende fino a divenire prassi ordinaria. La storia della moda è piena di fenomeni simili.

Ciò che un sociologo – ma chiunque, in realtà – può imparare dalla storia del tatuaggio è che i segni non sono mai neutri e possono essere esaltati o condannati in virtù delle interpretazioni prevalenti in un determinato tempo e in una determinata società. Sono queste interpretazioni che conducono a elogiare oggi personalità “tatuate” del mondo dello spettacolo come Angelina Jolie e Fedez, che probabilmente sarebbero state giudicate alla stregua di prostitute o delinquenti ai tempi di Lombroso.

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“Non ho tempo”

Se c’è una legge costante e universale del comportamento umano, è che gli individui tendono a conferire forme oggettive a condizioni soggettive, convertendo stati d’animo, sensazioni personali, fatti privati, opinioni singolari in situazioni oggettive, condizioni universali, leggi valide per tutti. Gli esempi abbondano. È esperienza comune sentire dire: «Fa freddo» invece di «Sento freddo». Capita di sorprendere donne in menopausa che affermano: «Fa caldo», quando il calore è dovuto alle vampate di cui soffrono. Alcuni uomini anziani ripetono: «Il mondo è cambiato», quando dovrebbero dire: «Io sono cambiato». Alcune donne amano ricordare: «Gli uomini sono bestie», quando dovrebbero dire: «L’uomo con cui vivo è una bestia». D’altro canto, è usuale sentire uomini lamentarsi: «Tutte le donne tradiscono!» per il fatto di essere stati traditi da una donna. Adolescenti innamorati pensano: «La vita è bella», traduzione in modalità oggettiva di: «Sono felice». Individui di tutte le età dichiarano convinti: «Quel piatto è più buono senza formaggio», invece del più corretto: «A me quel piatto piace senza formaggio». Nei tempi antichi, questa legge si manifestava nel rendere dei e demoni responsabili del proprio comportamento («Non sono io, è Pan che mi fa sentire così!»)». Ancora oggi, persone particolarmente inclini alla religione brontolano: «Dio lo vuole!» per non confessare: «Io lo voglio!».

Un esempio di “conversione nell’oggettività” in cui tutti si riconosceranno è l’espressione “Non ho tempo”. Si tratta di una frase ripetuta all’eccesso che attribuisce al tempo una dimensione reificata, monolitica che si staglia imperiosa e insormontabile davanti a noi. In questo modo, il tempo appare altro da noi, immodificabile, non negoziabile, indipendente dalla nostra volontà. Un monarca tirannico che impone inflessibilmente la propria volontà ai suoi sudditi inermi. Avviene così che un brivido fatalistico percorra e assilli chi è convinto di “non avere tempo”. Non dipende da noi: è il dio Cronos a stabilire a chi o cosa dedicare le ore della nostra giornata. E si sa: di fronte a un dio…

Gli psicologi obiettano, tuttavia, che non è vero che non abbiamo tempo (Draaisma, 2005). Siamo noi che decidiamo di utilizzarlo in un modo piuttosto che in un altro. Siamo noi ad attribuire priorità a determinate attività a scapito di altre. Costruiamo il nostro budget temporale in modo da inserire alcune risorse e ridurne o escluderne altre. Per “avere tempo”, dunque, basterebbe rivisitare la nostra cronoscaletta e mutare le priorità consuete o introdurne di nuove. Cosa non semplice, però. Alle nostre priorità siamo abituati e le abitudini sono difficili da scalzare. Alcune diventano quasi una seconda natura, tanto che privarcene sarebbe vissuto come un trauma.

Come ricordano i sociologi Berger e Luckmann:

Tutta l’attività umana è soggetta alla consuetudinarietà: ogni azione che venga ripetuta frequentemente viene cristallizzata secondo uno schema fisso, che può quindi essere riprodotto con una economia di sforzo e che, ipso facto, viene percepito dal suo autore come quel dato schema. L’abitualizzazione implica inoltre che l’azione possa essere eseguita ancora in futuro nello stesso modo e con lo stesso sforzo economico. Questo vale sia per l’attività sociale, sia per quella non sociale; anche l’individuo solitario nella proverbiale isola deserta abitualizza la propria attività. Quando si alza la mattina e riprende i suoi tentativi di costruire una canoa con dei fiammiferi, può mormorare a se stesso: “Ora ricomincio”, mentre compie la prima fase di un procedimento operativo consistente, mettiamo, in dieci fasi. In altri termini, perfino l’uomo solitario ha almeno la compagnia dei suoi procedimenti operativi (Berger, Luckmann, 1969, p. 82).

Cambiare abitudini è, dunque, difficile. E allora è più semplice rifugiarsi nel luogo comune dell’assenza di tempo, che, in realtà, vuol dire semplicemente incapacità di sovvertire il modo consueto di organizzare il proprio tempo. Dichiarare di “non avere tempo” diventa così un alibi o un pretesto per non cambiare, per non mutare il corso ordinario della nostra vita, appellandoci a una “forza” a noi superiore, che esiste al di fuori di noi, ma che noi stessi alimentiamo e facciamo crescere.

“Non ho tempo” può essere anche un modo per vantare una vita impegnata, senza pause, ricca di attività. Solo gli oziosi – secondo il luogo comune – hanno tempo in abbondanza. Chi lavora, chi ha una famiglia, chi ha una vita sociale piena non ha tempo e ama sbandierarlo a destra e a manca. L’assenza di tempo viene appuntata sul petto come medaglia al valore, riconoscimento di una pienezza costante che non cede mai di fronte alle seducenti lusinghe dell’ozio.

Una variante del meccanismo della conversione della soggettività in oggettività è rappresentata dall’uso del “noi” o della forma impersonale al posto della forma personale. Capita a volte di assistere a scene come la seguente. Una donna è al supermercato in compagnia del marito. Quando viene il suo turno, ordina del prosciutto dicendo: «Ce ne dia duecento grammi». Questo modo di dire fa pensare a gusti alimentari condivisi, ma anche a un assorbimento del personale nel duale, a una forma di cooptazione, o forse a un senso di possesso estremo (chissà se al marito il prosciutto piace davvero). In ambito lavorativo, un modo temibile per rimproverare un collega è costituito dall’espressione: «Abbiamo notato che non lavori più come prima», invece di «Ho notato che non lavori più come prima». Il plurale produce una sgradevole sensazione di “imparziale” quanto “solidale” accusa collettiva a cui è difficile rimanere indifferenti. In alternativa, rendere impersonale il monito, il rimprovero, l’accusa genera una sensazione di sconforto nell’interlocutore e favorisce fortemente lo scoramento del destinatario. «Si dice in giro che batti la fiacca invece di lavorare!». «Sembra proprio che il tuo rendimento scolastico sia scarso». «Si vocifera che non sarai tu ad avere la promozione». Potremmo continuare. L’effetto persuasivo di queste frasi è indubbio. L’altro non può nulla (o quasi) se a decidere il suo futuro è una realtà indistinta e invisibile. A tutti gli effetti pratici, la forma impersonale può costituire una potente arma verbale sulle labbra di chi ne fa uso. Per questo motivo, è spesso temuta e contrastata.

Questo meccanismo psicologico, che ho definito di “conversione nell’oggettivo”, possiede varie funzioni: “oggettivo” vuol dire “universale”, “normativo”, “condiviso”, “comunitario”, “legittimato”, “naturale”, “logico”. Chi trasforma, inconsapevolmente, una condizione soggettiva in oggettiva conferisce a essa un significato nuovo. La sua condizione, improvvisamente, diviene condizione di tutti, stato mentale condiviso, problema comune. Tramite un piccolo scarto, il personale diviene universale e non ci sentiamo più soli, anzi facciamo parte di una comunità in cui tutti sentono quello che sentiamo noi. In virtù di questo trucchetto, il “soggettivo” non diventa solo “intersoggettivo”, ma “naturale”, “senso comune”, e quindi un sapere che non può essere messo in discussione, che non vale la pena di mettere in discussione.

Conversione nell’oggettivo vuol dire anche normalità e legittimità. Se quello che sentiamo è avvertito da tutti, non è uno stato idiosincratico: se il calore che sento è oggettivo, la vampata, e la condizione fisiologica a essa associata, spariscono. Se gli uomini sono tutti animali – e non solo mio marito – è legittimo intraprendere azioni contro di essi in quanto categoria generale. Nel caso del “noi” in ambito lavorativo, la conversione nell’oggettivo è una strategia consapevole che genera una sensazione di accerchiamento ed è, infatti, prediletta da chi pratica il mobbing. Può essere, però, anche inconsapevole, soprattutto se, come nel caso della coppia al supermercato, le persone coinvolte vivono una vita quasi simbiotica.

Ciò che colpisce è che questo meccanismo è spesso inavvertito, inconsapevole, tanto che è facile scivolare dal soggettivo all’oggettivo senza rendersene conto. I sociologi Berger e Luckmann, già citati, chiamano questo processo “reificazione” e lo definiscono come

la percezione di fenomeni umani come se fossero cose, vale a dire in termini non umani o in alcuni casi sovrumani. In altre parole la reificazione è la percezione dei prodotti dell’attività umana come se fossero qualcosa di diverso dai prodotti umani, per esempio, fatti di natura, risultati di leggi cosmiche o manifestazioni della volontà divina. La reificazione implica che l’uomo è capace di dimenticare di essere lui stesso autore del mondo umano e inoltre che la dialettica tra l’uomo, il produttore, e i suoi prodotti, scompare dalla coscienza. Il mondo reificato è, per definizione, un mondo disumanizzato; l’uomo ne fa esperienza come una strana fattualità, un opus alienum su cui non ha alcun controllo, piuttosto che come opus proprium della sua attività produttiva (Berger, Luckmann, 1969, p. 128).

Dimentichiamo di essere noi i produttori del tempo e il tempo ci appare “oggettivo” perché si presenta come se fosse qualcosa di esterno a noi e indipendente dai nostri pensieri e dalle nostre azioni. Un prodotto della natura delle cose. Il paradosso è che le persone producono una realtà – il tempo – che, reificandosi, finisce con il negare la sua origine umana, divenendo qualcosa di altro da sé. Così, attraverso un inconsapevole atto di oblio, erigiamo il tempo a nostra divinità e lasciamo che si imponga a noi con la forza irresistibile di un fatto naturale. O, meglio, di un luogo comune.

Riferimenti

Berger, P. L., Luckmann, T., 1969, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna.

Draaisma, D., 2005, Perché la vita accelera con l’età. Come la memoria disegna il nostro passato, Marsilio, Venezia.

Flamigni, C., 2023, Non ho tempo! Smetti di raccontarti bugie…Prendi in mano la tua vita e la tua carriera in 5 semplici passi, Mind Edizioni, Milano.

p.s. Una versione breve di questo articolo si trova in un precedente post che potete leggere qui

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Il rosario e l’“effetto verità illusoria”

Con il termine Effetto verità illusoria (in inglese Illusory Truth Effect), si intende la tendenza a percepire come vera un’asserzione che viene ripetuta più volte. Vari esperimenti in psicologia hanno dimostrato che la ripetizione di un’affermazione ne accresce la verità percepita. L’effetto è particolarmente evidente in alcuni settori, come la propaganda politica e il marketing, che si basano sulla reiterazione continua, se non ossessiva, di slogan, ritornelli, dichiarazioni perentorie, dicerie, che finiscono con il far sembrare veri contenuti non necessariamente veri.

L’effetto verità illusoria è sfruttato dai politici per orientare l’opinione pubblica dalla propria parte, dai pubblicitari per incrementare la vendita di prodotti commerciali, ma anche in ambito pedagogico. È più facile, infatti, imparare e ricordare le cose se queste sono espresse tramite filastrocche, canzoncine e altre formule verbali simili ripetute in continuazione.

Esso contribuisce anche alla diffusione di fake news, teorie cospiratorie e disinformazioni. Basta ripetere cattive informazioni senza soluzione di continuità per renderle vere alla percezione comune, come è dimostrato oggi dal credito crescente che viene dato a informazioni false che hanno il solo merito di essere reiterate tramite i social o Internet.

Come si spiega questo fenomeno?

Una prima ipotesi prende il nome di processing fluency account. Secondo tale ipotesi, quando un’informazione è ripetuta, viene elaborata in maniera più fluida ed è, di conseguenza, percepita come più veritiera. È la fluidità di elaborazione, dunque, che contribuisce a conferire l’illusione di verità a un’asserzione. Dal momento che l’informazione viene elaborata più agevolmente, abbiamo la tentazione di credere che sia probabilmente vera.

Una seconda ipotesi, battezzata referential theory of truth, postula invece che la ripetizione accresce il legame semantico tra gli elementi di una frase, il che, a sua volta, ne favorisce l’elaborazione e quindi la percezione di verità.

La ripetizione, inoltre, aumenta la familiarità e la familiarità aumenta la sensazione di agio, la quale rende più semplice ai messaggi superare i filtri mentali e provocare un effetto persuasivo sul destinatario.

La recita del rosario è caratterizzata dalla ripetizione continua e quotidiana di preghiere. È probabile che ciò accresca, agli occhi di chi prega, la percezione di verità non solo del rosario, ma di ciò a cui esso fa riferimento ossessivo, ossia l’esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna.

È evidente che la divinità trae alimento dalla ripetizione continua del suo nome da parte di chi prega. Se nessuno pregasse più Dio, questi cesserebbe semplicemente di esistere. È il fatto che i fedeli ne parlano in continuazione a tenerlo in vita. È funzionale alla sopravvivenza di ogni ente celeste che il maggior numero possibile di devoti gli dedichino parole, anche se sono bestemmie o maledizioni. È il linguaggio a creare e sostenere la realtà divina.

Insomma, l’importante è che si parli di Dio. Bene o male, non importa. Ciò che conta è che non si smetta mai di raccontarlo, apostrofarlo, commentarlo, lodarlo, esaltarlo o condannarlo.

Tramite il rosario, dunque, il credente esercita inconsapevolmente su sé stesso un effetto persuasivo che gli rende più agevole accettare l’idea dell’esistenza della divinità, come nemmeno la più sottile argomentazione teologica riuscirebbe a fare.

Si tratta di un punto di visto inconsueto, ma che dà conto anche del perché le autorità cattoliche insistono che si debba pregare e, in particolare, pregare il rosario. Il rosario rappresenta un esercizio costante di auto-persuasione tramite il quale il credente fa su sé stesso, in un certo senso, il lavoro del sacerdote, risparmiandogli fatica e pena.

Potrà sembrare paradossale, ma la verità è che il rosario è, soprattutto, una capillare e sofisticata macchina di persuasione a cui la Chiesa non rinuncerà mai, nonostante la sua astoricità, in virtù della sua indubbia e duratura efficacia.

Per saperne di più sulla psicologia del rosario, rimando al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore).

 

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L’effetto alone è tutto intorno a noi

Quanto è diffuso l’effetto alone, ossia la tendenza a trarre indicazioni sul carattere complessivo di un individuo a partire dalle impressioni ricavate dall’esposizione a un solo tratto della sua personalità?

Moltissimo, a giudicare dalle persone che incontriamo nella nostra vita e che proiettano il loro alone su di noi.

I genitori sono i primi a essere investiti dall’effetto alone. Poiché gli adulti si prendono cura di noi e sanno cose che noi non sappiamo, pensiamo che debbano sapere tutto e che siano, praticamente, onnipotenti, almeno nelle prime fasi della nostra vita.

Subiamo l’effetto alone anche da parte dei nostri insegnanti ai quali attribuiamo caratteristiche di saggezza e sapienza ben al di là delle conoscenze che essi effettivamente possiedono.

Ragazze e ragazzi di cui ci innamoriamo possiedono per noi caratteristiche eccezionali che ce li fanno considerare superiori a quanto siano effettivamente. Del resto, già Freud insegnava che l’innamoramento consiste in una sopravvalutazione della persona amata.

La bellezza fisica delle persone che incontriamo nella vita ci induce spesso a pensare che a essa corrispondano qualità straordinarie in termini di sensibilità e intelligenza.

Attori e cantanti che ammiriamo suscitano in noi aspettative singolari, che ci portano a ritenere che le loro capacità si estendano ben al di là del campo recitativo o canoro, tanto che rimaniamo delusi se, nella vita di tutti i giorni, si dimostrano semplicemente umani.

Ugualmente, tendiamo a ritenere che i “capi” che incontriamo nel mondo del lavoro debbano possedere capacità di leadership che eccedono quelle attese da un punto di vista lavorativo.  

Stesso discorso vale per politici, amministratori, scienziati e personalità di vario genere da cui siamo attirati e ai quali tendiamo ad attribuire caratteristiche positive trasversali.

Ma perché l’effetto alone è tanto importante e pervasivo?

Secondo Amanda Montell,

dietro l’effetto alone c’è un meccanismo di sopravvivenza. Storicamente, allearsi con una persona fisicamente robusta o attraente era una strategia adattiva vincente, e in genere era sensato presumere che una buona qualità ne implicasse altre. Ventimila anni fa, se si incontrava una persona alta c muscolosa, se ne poteva ragionevolmente dedurre che mangiasse più carne degli altri e fosse dunque con ogni probabilità un buon cacciatore – in breve, uno che era meglio avere dalla propria parte. Ed era altrettanto sensato ipotizzare che una persona con un viso simmetrico e i denti sani fosse riuscita a evitare di restare sfigurata a causa di battaglie perse o attacchi da parte di animali, e rappresentasse quindi un altro valido riferimento. Oggi, scegliere una persona da prendere a modello aiuta a costruire la propria identità, e quando si tratta di individuare l’esemplare giusto, abbiamo imparato a decidere di pancia. In fondo, non sarebbe di un’inefficienza spaventosa impiegarci una settimana per valutare un potenziale mentore, o per mettere insieme un intero gruppo di esperti altamente qualificati – uno per la carriera, uno per l’ispirazione creativa, uno per i consigli di moda? Scegliere l’unica figura di riferimento per tutto, sulla base di generalizzazioni affrettate ma nel complesso di buon senso, significa semplicemente usare al meglio il limitato budget psicologico che si ha a disposizione. Et voilà, ecco a voi l’effetto alone (Amanda Montell, 2024, Scusa, ho Mercurio retrogrado. Viaggio nell’era del pensiero magico, ROI Edizioni, Milano, p. 20).

Se così stanno le cose, non sorprende che l’effetto alone sia tanto rilevante per noi. Da esso dipende la nostra stessa sopravvivenza. E, allora, prima di rubricarlo come ennesima illusione che ottenebra la nostra mente, faremmo bene a coglierne il carattere evolutivo che ci aiuta a far fronte a quell’avventura così singolare che è la vita.

Se volete saperne di più sull’effetto alone, vi invito alla lettura del mio Aloni, stregoni e superstizioni, che dedica l’intero primo capitolo a questo importante meccanismo psicologico, con la traduzione dell’articolo di Edward L. Thorndike, che per primo ha introdotto il concetto nel lessico delle scienze umane.

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Le funzioni (non sempre evidenti) della preghiera

Della preghiera crediamo di sapere tutto.

Per qualcuno è un’attività noiosa e ripetitiva a cui si è costretti dal volere della famiglia o del gruppo di appartenenza o dall’autorità religiosa. Per altri, è una forma di comunicazione con la divinità che permette di conferire un senso al mondo che ci circonda e di alleviare le sofferenze dell’esistenza. Per altri ancora, è uno dei segni più evidenti di appartenenza religiosa; un segno che consente di distinguere un credente dall’altro.

La preghiera, però, è soprattutto un fatto sociale complesso, denso di funzioni e significati non sempre riconosciuti da quello che un tempo si chiamava “uomo della strada”.

La preghiera, ad esempio, possiede una dimensione rituale, che prevede la recitazione di determinate parole in determinati momenti e in determinati luoghi, accompagnate da una determinata gestualità e movimenti del corpo.

La preghiera può esprimere una richiesta, per sé (preghiera di petizione) o per altri (preghiera di intercessione). Questo è il caso probabilmente più frequente di preghiera, soprattutto in momenti della vita in cui ci si sente privi di risorse, se non disperati. La divinità diviene destinataria di precise richieste di azione, da cui può dipendere la vita stessa della persona che prega o della persona per cui si prega.

La preghiera può avere una componente meditativa, che consente di lasciarsi assorbire dalla presenza putativa del divino o di focalizzare aspetti intimi della propria spiritualità.

La preghiera può avere una funzione confessoria: attraverso di essa, cioè, si confessa a Dio i propri peccati in un rapporto strettamente intimo, senza la mediazione di nessuno.

La preghiera può servire per esprimere gratitudine alla divinità per un favore concesso o un evento accaduto.

La preghiera può avere una valenza colloquiale che è utile a instaurare un dialogo occasionale o no con la divinità. In questo caso, la divinità può surrogare l’assenza di interlocutori umani significativi a cui affidare il proprio cuore.

La preghiera può avere una funzione psicoterapeutica, tramite la quale ci si libera catarticamente dalle angosce che ci assillano.

Una funzione meno nota della preghiera, in particolare di tipi di preghiera quali il rosario, è quella di costituire un dispositivo per rafforzare l’ortodossia dei credenti, soggiogare le loro scelte, orientare pensieri e convinzioni verso obiettivi prefissati, distogliere la mente da suggestioni sovversive dell’ordine religioso e simbolico dominante, assoggettare il singolo alla collettività, plasmare in maniera uniforme la condotta e la mentalità, ricreare e confermare un preciso sistema di credenze. In una parola, la preghiera può costituire un dispositivo disciplinare adoperato dalle autorità religiose per fini di parte.

Per chi volesse saperne di più su questa e altre funzioni meno note della preghiera, in particolare del rosario, rimando al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore, 2024).

Un libro pieno di sorprese!

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Matto per una lettera

Tra le decine di notizie di cronaca che costituiscono il materiale narrativo su cui reggono i racconti brevi che compongono L’imitatore di voci dell’austriaco Thomas Bernhard (1931-1989), uno in particolare attrae l’attenzione di chi crede che anche un unico segno grafico possa influenzare le sorti degli individui, se non del mondo.

Il racconto, intitolato “Affermazione”, narra di un uomo di Augsburg internato in manicomio perché convinto che le ultime parole pronunciate dal poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832) in punto di morte fossero state mehr nicht! [Basta!] e non mehr Licht! [Più luce!], come tramanda la tradizione. In realtà, aggiunge Bernhard ben sei medici si erano rifiutati di far internare il povero ossesso. Il settimo, però, non solo fu il responsabile della sua istituzionalizzazione, ma ricevette in premio anche la Targa Goethe della città di Francoforte per aver, per così dire, difeso la tradizione.

Questo racconto, che si suppone “vero” in quanto relativo a un fatto “realmente” accaduto, mostra come una sola lettera sia sufficiente a mutare radicalmente il senso di una frase pronunciata negli ultimi istanti di vita: se mehr nicht! evoca la volontà di abbandonare definitivamente un mondo ritenuto ormai intollerabile, mehr Licht! appare come il disperato tentativo di aggrapparsi a un residuo di vita, individuato nella luce, percepita come l’ultimo baluardo contro la morte.

Una sola lettera, dunque, è in grado non solo di distruggere una tradizione, ma anche di conferire un significato totalmente diverso alle parole di un celebre poeta.

Peraltro, sebbene, come è noto, si tenda ad assegnare significati speciali alle ultime parole pronunciate in vita, soprattutto da personaggi celebri, il mehr Licht! di Goethe non è affatto un poderoso pensiero sull’illuminazione dell’esistenza, né una riflessione sulla fisica della luce, bensì una prosaica richiesta di far entrare più luce in stanza. Sembra, infatti, che le ultime parole di Goethe siano state qualcosa come: «Aprite la persiana della camera da letto in modo che entri più luce».

Fonti:

Bernhard, T., 1987, L’imitatore di voci, Adelphi, Milano, p. 55.

Martin, G., “The last words of Johann Wolfgang von Goethe”, Phrase Finder.

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Cambiare i nomi per cambiare il mondo

Si assiste oggi a una frenetica corsa a cambiare i nomi delle persone, delle condizioni e dei luoghi per imporre la propria interessata visione del mondo. A dispetto di tutti i “negazionisti” del potere delle parole, la necessità di modificare l’assetto nominale del mondo per cambiarne la percezione e, con essa, anche la sostanza, è sempre più avvertita come un dovere politico, sociale, culturale. Un’operazione che ha spesso il sapore retrivo del ripristino di vecchi ordini di cose, spacciati per nuovi o, comunque, moderni.

Lo fa, ad esempio, il neoeletto presidente americano Trump, convinto di ribattezzare il Golfo del Messico in Golfo d’America o di abolire ogni nomenclatura che osi sfidare il tradizionale ordine binario maschio-femmina. Per non parlare della crisi climatica, oggetto di puro negazionismo, quasi che, come nelle fasi evolutive dell’infanzia, bastasse respingere il nome per respingere la realtà.

Un altro campione del riassetto nominale del mondo è certamente l’ultraliberista presidente argentino Javier Milei, deciso a spazzare via decenni di lotte delle persone con disabilità, imponendo vecchie categorie per classificare le persone con disabilità cognitiva e intellettiva. 

Lo ha fatto, come tutti i potenti, attraverso la via subdola della burocrazia, l’unica in grado di far accettare le mostruosità più efferate, travestendole con parole apparentemente neutre e imparziali. Sine ira ac studio, come diceva Max Weber.

Lo ha fatto facendo approvare sulla Gazzetta Ufficiale argentina, il 16 gennaio 2025, un documento – la risoluzione 187/2025 – della Agencia Nacional de Discapacidad che ridefinisce i criteri per la concessione delle pensioni di invalidità non contributive a chi ha disabilità intellettive.

In particolare, in un allegato – anexo – della risoluzione si legge:

Según el CI los grupos son: 0-30 (idiota): no atravesó la etapa glósica, no lee ni escribe, no conoce el dinero, no controla esfínteres, no atiende sus necesidades básicas, no pude subsistir solo; 30-50 (imbécil): no lee ni escribe, atiende sus necesidades elementales, pueden realizar tareas rudimentarias; 50-60 (débil mental profundo): solo firma, tiene vocabulario simple, no maneja el dinero, puede realizar tareas rudimentarias; 60-70 (débil mental moderado): lee, escribe, realiza operaciones simples, conoce el dinero, puede realizar trabajos de escasa exigencia intelectual; 70-90 (débil mental leve): cursó primaria y a veces secundaria, puede realizar tareas de mayor envergadura.

In base al QI i gruppi sono: 0-30 (idiota): non ha superato la fase glossica, non legge né scrive, non sa cosa sia il denaro, non controlla gli sfinteri, non soddisfa i bisogni primari, non potrebbe sopravvivere da solo; 30-50 (imbecille): non legge né scrive, soddisfa i bisogni essenziali, sa svolgere compiti rudimentali; 50-60 (profondo handicap mentale): solo segni, ha un vocabolario semplice, non maneggia denaro, sa svolgere compiti rudimentali; 60-70 (disabilità mentale moderata): legge, scrive, esegue operazioni semplici, sa gestire il denaro, può svolgere lavori che richiedono poca competenza intellettuale; 70-90 (ritardo mentale lieve): ha frequentato la scuola primaria e talvolta la scuola secondaria, riesce a svolgere compiti più impegnativi.

In un solo colpo, la risoluzione argentina, facendo piazza pulita della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che pure ha valore costituzionale in Argentina, ma soprattutto dei recenti modelli di classificazione della disabilità, meno discriminanti e stigmatizzanti, reintroduce una nomenclatura medica superata da anni e non più in linea con le moderne conoscenze sulla disabilità.

Termini come “idiota”, “imbecille”, “ritardato” sono disseppelliti e resuscitati con la razionalizzazione che si tratta di termini con “una radice scientifica” e che sono stati sempre adoperati.

Un’argomentazione risibile che non tiene conto del fatto che, nel frattempo, questi termini hanno acquisito una connotazione del tutto negativa e sono stati rimpiazzati da parole più rispettose e adeguate alla contemporaneità. Per questa via, non meraviglierebbe se, improvvisamente, fossero recuperati termini come “invertito” per gli omosessuali maschi o “tribade” per le omosessuali donne, che pure facevano parte del lessico scientifico di qualche secolo fa.

I sostenitori di Milei affermano anche che, con i criteri precedenti, conformi alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità ma giudicati troppi ampi, era più facile compiere truffe ai danni del sistema previdenziale. Ma anche questa argomentazione non regge se pensiamo all’acribia con la quale, in altri paesi, il nuovo modello di valutazione della disabilità si è coniugato con classificazioni più precise e affidabili della vasta fenomenologia in cui ricadono le persone con disabilità.

Per fortuna, l’esempio di Milei non è seguito in tutto il mondo. Anzi, in alcuni paesi, come l’Italia, la terminologia per designare le condizioni di disabilità è cambiata in senso più inclusivo.

Si pensi al Decreto Legislativo 3 maggio 2024, n. 62 “Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato” che, all’art.4, ha così modificato le parole della disabilità.

Art. 4

Terminologia in materia di disabilità

A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto:

a) la parola: «handicap», ovunque ricorre, è sostituita dalle seguenti: «condizione di disabilità»;
b) le parole: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con disabilità»;
c) le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono e sono riferite alle persone indicate alla lettera b) sono sostituite dalle seguenti: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
d) le parole: «disabile grave», ove ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con necessità di sostegno intensivo».

 

L’art. 4 del Dlgs. 62/2024 dimostra come il mondo può essere cambiato in meglio, adottando una terminologia più rispettosa e adeguata a definire le persone con disabilità e le loro condizioni. Cambiando i nomi si può anche migliorare il mondo, non solo peggiorarlo.

Di seguito il testo della risoluzione 187/2025. Qui il testo dell’anexo alla risoluzione.

AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD

Resolución 187/2025

RESOL-2025-187-APN-DE#AND

Ciudad de Buenos Aires, 14/01/2025

VISTO el Expediente EX-2025-04528986-APN-DNAYAE#AND, la Ley Nº 13.478 sus normas modificatorias, los Decretos N° 432 del 15 de Mayo de 1997 sus modificatorias y complementarias y N° 698 del 5 de septiembre de 2017 y sus modificatorias, y

CONSIDERANDO:

Que por el artículo 9º de la Ley Nº 13.478 y sus normas modificatorias, se facultó al PODER EJECUTIVO NACIONAL a otorgar, en las condiciones que fije la reglamentación, una pensión inembargable a toda persona sin suficientes recursos propios, no amparada por un régimen de previsión e imposibilitada para trabajar.

Que mediante el Anexo I aprobado por el artículo 1º del Decreto N° 432/1997, y sus normas modificatorias, se reglamentó el artículo 9° de la Ley Nº 13.478 y se establecieron los requisitos para la tramitación, otorgamiento, liquidación, suspensión y caducidad de las prestaciones no contributivas por invalidez laboral.

Que por el Decreto N° 698/2017 se creó la AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD (ANDIS) como organismo descentralizado en la órbita del MINISTERIO DE SALUD, que tiene a su cargo el diseño, coordinación y ejecución general de las políticas públicas en materia de discapacidad, la elaboración y ejecución de acciones tendientes a promover el pleno ejercicio de los derechos de las personas en situación de discapacidad y la conducción del proceso de otorgamiento de las Pensiones No Contributivas por Invalidez Laboral, entre otras acciones.

Que el Decreto Nº 843/24 en el ANEXO I artículo 1° establece dentro de los requisitos para otorgar la PNC “a) Encontrarse incapacitado en forma total y permanente. Se presume que la incapacidad es total cuando la invalidez produzca una disminución del SESENTA Y SEIS POR CIENTO (66 %) o más en la capacidad laborativa. Este requisito se informará mediante la presentación del Certificado Médico Oficial (CMO) y su documentación médica respaldatoria, en el que deberá indicarse patología y grado de incapacidad, suscripto por profesional médico de establecimiento sanitario oficial o de la AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD, organismo descentralizado actuante en el ámbito del MINISTERIO DE SALUD. La AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD será la encargada de establecer el formulario del Certificado Médico Oficial (CMO) y su modalidad de confección por parte del profesional médico que se utilizará para la acreditación en cada jurisdicción. Dicho documento es de presentación obligatoria para el inicio del trámite. El Certificado Médico Oficial (CMO) contemplará las condiciones de salud, los detalles de las causales de incapacidad laboral y el contexto socioeconómico del solicitante.”

Que, en virtud de las recomendaciones realizadas por la Dirección Nacional de Apoyos y Asignaciones Económicas de esta AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD, resulta procedente aprobar un baremo médico que contenga los lineamientos para el análisis del grado de invalidez laboral.

Que la DIRECCIÓN DE ASUNTOS JURÍDICOS de esta AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD ha tomado la intervención de sus competencias.

Que la presente se dicta en uso de las facultades conferidas por los Decretos N° 698/2017 y sus modificatorios, y N° 96/2023.

Por ello,

EL DIRECTOR EJECUTIVO DE LA AGENCIA NACIONAL DE DISCAPACIDAD

RESUELVE:

ARTÍCULO 1°- Apruébese el Baremo para la evaluación médica de invalidez de las Pensiones no Contributivas por Invalidez Laboral en los términos del Artículo 9° de la Ley N° 13.478, el Decreto Reglamentario N° 432/1997, sus respectivas normas modificatorias y complementarias, identificado como Anexo I (IF-2025-04598583-APN-DNAYAE#AND) que forma parte integrante de la presente medida.

ARTÍCULO 2°- Establécese que la presente medida resultará de aplicación a todo trámite de Pensiones no Contributivas por Invalidez Laboral en los términos del Artículo 9° de la Ley N° 13.478, el Decreto Reglamentario N° 432/1997, sus respectivas normas modificatorias y complementarias, que se inicie a partir de la firma de la presente Resolución o que se haya iniciado con anterioridad; asimismo se aplicará al momento de la revisión y/o auditoría de las mismas.

ARTÍCULO 3°- Instrúyase a la Dirección Nacional de Apoyos y Asignaciones Económicas para que proceda a la implementación administrativa y/u operativa de la presente medida, y realice las capacitaciones necesarias a tal efecto.

ARTICULO 4°.- Comuníquese, publíquese, dese a la Dirección Nacional del Registro Oficial, y oportunamente archívese.

Fecha de publicación 16/01/2025

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Sull’origine del Carnevale

Il Carnevale è una festa cristiana o pagana? Ha qualcosa a che vedere con la religione o è un evento puramente laico?

Considerando i dubbi e gli interrogativi che puntualmente riaffiorano sulla “natura” di questa festività, è più che lecito porsi sul Carnevale domande come quelle proposte. Soprattutto perché le origini del Carnevale si perdono lontane nei tempi e sono tutt’altro che chiare.

Nell’immaginario collettivo, domina l’interpretazione secondo cui il suo nome deriverebbe da un latineggiante carnem levare, che rimanderebbe a un digiuno-privazione prequaresimale di chiara ispirazione cristiana.  Ma la verità è un’altra, come mostra l’antropologo Giovanni Kezich nel suo Carnevale. La festa del mondo.

Per Kezich, il termine Carnevale designa un confuso coacervo di antiche ritualità pagane, sopravvissute ai secoli e confluite in ambito urbano, che celebravano la natura, la fertilità dei campi, l’età dell’oro. Tra queste, in particolare, le feste dei lupercali, degli ambarvali e dei saturnali. Le sue origini sono, quindi, pagane.

Per questo motivo, il Carnevale, al fine di “sopravvivere”, dovette venire a compromessi con il cristianesimo per cui, nel Medioevo, divenne essenziale, anche attraverso ipotesi etimologiche prive di fondamento, legittimarne lo status.

Il nome carnelevare, antesignano di carnevale, fece la sua timida apparizione alla metà del X secolo, in un atto latino di Subiaco del 965, a titolo di mera scadenza fiscale chiesastica, forse per assimilazione al carniprivium, la domenica di quinquagesima, prescritta ai chierici, a partire dalla quale cominciava l’astinenza dall’uso delle carni. Solo più tardi, alla fine del XII secolo, il termine assunse il significato ludico a noi noto.

Per Kezich, l’etimologia di Carnevale va ricercata nel bagaglio degli antichi lemmi rituali pagani impropriamente assimilati al concetto di carniprivium.  L’antropologo ipotizza che esso derivi da locuzioni come carmen arvale o carmen saliare che rimandano, come detto, ai riti dei lupercali, ambarvali, saturnali e simili. La necessità, però, di rendere gli antichi riti funzionali all’ideologia religiosa cristiana ha trasformato questi in una festa propedeutica al periodo di penitenza successivo. Tale necessità ha generato storie prive di fondamento, come quella, famosissima, per cui Carnevale deriverebbe, appunto, da carnem levare, che ne assegna l’origine a una sorta di cerimonia di addio collettivo al consumo alimentare di carne, in previsione della imminente quaresima.

L’etimologia del carnem levare individua il fulcro della festività carnevalesca in un ipotetico momento di passaggio tra un consumo alimentare eccessivo di carne alla completa astensione dalla stessa. Ma tale etimologia non convince. Innanzitutto, un simile momento di passaggio al regime alimentare “di magro”, corrispondente ad esempio allo scoccare della mezzanotte di Natale, non viene mai definito in modo esplicito, tanto più che il cibo di carnevale è costituito, come è noto, da semplici dolci fritti di farina e uova, e che il sabato o il martedì grassi, a dispetto del loro nome, sono sempre stati giorni di merende consumate in disordine qua e là più che di grandi mangiate. Esiste certamente un rito d’ingresso nella quaresima, che è l’imposizione delle ceneri all’alba del mercoledì omonimo, ma guardando a ritroso non troviamo alcun rito equiparabile d’addio del carnevale, che nel contesto liturgico cristiano non esiste. L’idea di una celebrazione del carniprivium, ossia di un carnem levare festeggiato solennemente da schiere di ghiottoni impenitenti, sembra pertanto ispirarsi a un immaginario esercitatosi a posteriori, cioè a partire dall’etimologia più o meno spuria ma già ben consolidata del carnem levare debitamente messa in scena con un po’ di fantasia, piuttosto che viceversa.

C’è inoltre un altro aspetto. Anche ammettendo che possa esservi stato in qualche punto del passato un ritualizzarsi accreditato dell’improvvisa interruzione del regime alimentare “grasso” in funzione di quello “magro”, non si capisce perché tale rito sia stato prima designato e poi comunicato in un latino molto discutibile. Levare, infatti, in latino vuol dire “alzare, sollevare”, non certo “privare” o “fare a meno di”. L’espressione carnem levare non è, dunque, minimamente credibile. Lo stesso si può dire per carnem laxare (da cui deriverebbe “carnasciale”) perché laxare in latino vuol dire “rilasciare, rilassare” e non “lasciare”: segno che questi riti parlano il latino del XIII secolo, e la loro denominazione è il frutto di qualche tentativo maldestro di interpretazione estemporanea, a cura di gente che non intendeva più il latino delle origini.

Carnevale è, dunque, il frutto di uno sdoganamento di antichi riti in funzione di un possibile compromesso con il successivo periodo penitenziale. È un costrutto ad hoc, modellato sulla necessità urgente di cristianizzare la sua festa e di renderne i fasti rappresentabili all’interno di contesti urbani fortemente impregnati di cristianesimo.

Resta il fatto, però, che tale “compromesso” non viene più colto come tale dai contemporanei, ignari delle origini pagane del Carnevale. Anzi, a celebrare questa festa pagana sono spesso proprio coloro che si scagliano acriticamente contro Halloween, accusato di essere una festività pagana di ritorno con “evidenti” connotazioni sataniche.

Forse, però, Carnevale persiste candido e immacolato nelle nostre teste perché festa tradizionale, a cui, cioè, abbiamo fatto l’abitudine da secoli. A differenza di Halloween, che, solo in tempi relativamente recenti, è fuoriuscito dai confini (commerciali) degli Stati Uniti e viene ancora vissuto, al momento, come una festa “che non ci appartiene”. Tra qualche decennio, anch’essa si imprimerà saldamente nelle nostre menti, finendo con il superare ogni forma di resistenza ideologica fino a diventare “tradizione”, ossia “abitudine”.

Fonte: Giovanni Kezich, 2021, Carnevale. La festa del mondo, Laterza, Bari-Roma, pp. 121-129.

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Il “dilemma del rosario”

Quando osserviamo un devoto recitare il rosario, siamo tentati di credere che non vi sia nulla di più semplice. Basta ripetere in continuazione un determinato numero di formule e il gioco è fatto. Se c’è una facoltà cognitiva in gioco, questa è la memoria. Per il resto, la recitazione ci appare come un semplice – forse anche noioso – meccanismo ripetitivo.

In realtà, recitare il rosario è un’operazione complessa. Questa devozione presuppone che il credente reciti una serie di orazioni e contemporaneamente mediti su alcuni misteri della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Al tempo stesso, è necessario formulare un’intenzione: chiedere una grazia, imitare una virtù o distruggere un peccato. In altre parole, il fedele, per recitare correttamente il rosario, deve contemporaneamente fare tre cose diverse, dedicando a ognuna la propria fervida e completa attenzione. Ma è umanamente possibile dire una cosa, meditarne un’altra e farne ancora un’altra con la medesima energia mentale?

Per la psicologia, il credente che recita il rosario si trova di fronte a un compito di multitasking che richiede che la medesima attenzione sia dedicata con la medesima intensità a ogni attività. Il problema è che le risorse attentive sono limitate e le attività sono costrette a entrare in competizione per accaparrarsi quanta più energia possibile. La conseguenza è che, a meno che alcune attività non siano completamente automatizzate, non è possibile svolgerle simultaneamente con la stessa intensità. Sarà necessario, allora, distribuire la propria attenzione in maniera differenziale privilegiando alcune attività a scapito di altre, così che necessariamente alcune di esse non potranno essere elaborate con il medesimo livello di efficienza.

Recitare il rosario, allora, assomiglia ad altre azioni complesse che siamo chiamati a eseguire nella vita quotidiana. Pensiamo alla guida. Quando si guida, bisogna prestare attenzione a destra, sinistra, dietro e davanti, cambiare le marce, abbassare la frizione, accelerare, frenare, osservare i segnali stradali e gli altri automobilisti. E tutto questo quasi in contemporanea. A queste attività aggiungiamo spesso l’ascolto della radio, la chiacchierata con l’amico, l’uso dello smartphone ecc. Un compito di multitasking quotidiano non esente da pericoli. Non a caso l’uso dello smartphone in auto è vietato: esso compromette l’attenzione in un contesto che, invece, ne richiede tanta.

Oppure, pensiamo agli arbitri di calcio che, nel valutare una posizione di fuorigioco, devono tenere conto simultaneamente del giocatore che calcia la palla, della posizione del calciatore che la riceve e di quella dei difensori. Non è un caso che fare l’arbitro sia tanto difficile ed esponga a numerosi errori. Questa difficoltà, però, non è riconosciuta dal tifoso che attribuisce sistematicamente gli errori dell’arbitro a intenzioni malevole.

Come risolvere quello che potremmo definire il “dilemma del rosario”? Semplice. Dedicando poca energia attentiva a uno dei compiti che esso prevede o trascurandolo addirittura. Si spiega così la caratteristica monotonia ripetitiva, strascinata e mnemonica della recita delle orazioni. O il fatto che, ad esempio, il credente non formuli alcuna intenzione, limitandosi alle preghiere e alle meditazioni. La meccanicità oratoria del rosario è una funzione cognitiva che serve a far fronte alla complessità delle richieste che tale orazione avanza al credente. In un certo senso, è un meccanismo di difesa, non dissimile da quello che adottano gli automobilisti quando guidano e che consiste nel retrocedere tra le abitudini meccaniche comportamenti che hanno acquisito gradualmente durante le lezioni di guida. L’abitudine anestetizza la complessità di alcune azioni, facendole diventare, appunto, consuete.

Lo stesso accade in tante altre condotte della vita ordinaria, anche se non ce ne accorgiamo.

La meccanicità della recita del rosario è l’omaggio che i limiti dell’essere umano tributano al divino, la testimonianza che le esigenze della religione non permettono di scavalcare i confini della nostra mente ordinaria. Detto altrimenti, è la prova della nostra finitezza di fronte alla smisuratezza del numinoso.

Per saperne di più sulla complessità psicologica e sociologica del rosario, rimando al mio: La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore).

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“Sono ben altri i problemi”

Nel post precedente, ho discusso di uno dei dispositivi retorici attualmente più in voga per screditare l’avversario in una relazione dialettica: l’argomento secondo cui ciò che afferma l’oppositore scaturisce dal fatto che questi “ha tanto tempo libero”.

Un altro dispositivo, anche questo molto diffuso, è talmente celebre da aver meritato la coniazione di un neologismo ad hoc e una voce su Wikipedia e sulla Treccani. Sto parlando del “benaltrismo”.

Il benaltrismo è la strategia retorica che consiste nello svalorizzare il discorso dell’avversario contrapponendogli questioni o problemi “ben più” gravi, seri, importanti, rilevanti di cui discutere.

Secondo la funzione Ngram Viewer di Google, la frequenza d’uso del termine ha cominciato a decollare dal 1985, almeno considerando il corpus testuale di cui dispone Google. Ma è ormai evidente che il ricorso a questo espediente sia estremamente popolare, soprattutto in contesti dialogici.

Gli esempi sono numerosissimi.

Si va dal tifoso che, di fronte all’evidenza di un rigore fasullo concesso alla propria squadra, obietta: “E allora, i due rigori regalati alla tua squadra?” al sostenitore dei diritti civili degli omosessuali che si sente contestare: “E allora i diritti sociali?”. C’è chi evidenzia i gravi problemi di inclusione sociale patiti dagli immigrati solo per sentirsi contrapporre la “maggiore importanza” dei problemi degli italiani, che, naturalmente, vengono prima. O chi caldeggia la costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina e viene contestato da chi ritiene che i problemi infrastrutturali della Sicilia sono ben altri. O chi accusa il Governo russo di violare i diritti umani in Ucraina per poi sentirsi ribattere che anche l’Occidente ha violato i diritti umani.

Il benaltrismo confina con un’altra strategia retorica, denominata whataboutism, dall’inglese “What about…?” (“E allora…?”), che consiste nel rinfacciare all’avversario la medesima accusa che l’avversario scaglia su di noi, come nel seguente esempio: «Voi avete candidato alle elezioni X che è stato condannato per concussione. Non vi vergognate?». «E voi, allora, che avete candidato Y, già condannato per corruzione in primo grado?».

Sia nel caso del benaltrismo che in quello del whataboutism, l’obiettivo è sempre lo stesso: deviare il discorso, evitare il dibattito, eludere il problema. I contendenti si rimpallano in continuazione la rilevanza dei loro temi, opponendo agli avversari una sorta di celodurismo argomentativo. Questi, a loro volta, rispondono simmetricamente, generando un circolo vizioso in cui tutti delegittimano tutti e dei temi non si discute mai.

Il risultato è che nessuno riesce più a confrontarsi su niente perché ci sarà sempre un argomento più degno, più meritevole, più urgente di cui parlare. Chi ne esce sconfitto ed esautorato è il dibattito pubblico. Per riconquistarlo, è necessario accantonare ogni forma di benaltrismo, anzi ogni forma di elusione, e avere il coraggio di non rifugiarsi dietro paraventi verbali che servono solo a disinnescare la discussione e a spodestarla sin dall’inizio.

Il benaltrismo è l’arma di chi non tollera il confronto con l’altro, di chi preferisce il non fare al fare. È il sintomo di un’accidia da cui siamo afflitti in molti e di un assestamento su posizioni esclusivamente difensive che serve solo a scansare guai. Meglio, allora, riporlo in soffitta insieme alle (tante) altre armi che avvelenano il dibattito pubblico.

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