Insulti e offese nel calcio secondo un recente sondaggio

Insultare, offendere, indulgere in atteggiamenti razzisti, anche nel calcio, sono condotte diffusamente vituperate. Ci aspetteremmo, dunque, che chiunque sia intervistato sul tema si esprima coerentemente con quello che viene ritenuto un sentire comune. Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.

Secondo un sondaggio CAWI (Computer Assisted Web Interviewing) realizzato dalla SWG, società specializzata in ricerche di mercato, di opinione, istituzionali e studi di settore, tra il 24 e il 26 gennaio 2024, su un campione rappresentativo nazionale di 800 soggetti maggiorenni, gli atteggiamenti al riguardo sono alquanto eterogenei ed esiste uno zoccolo duro che giudica positivamente l’offesa e l’insulto, anche a sfondo razzista.

Per il 20% del campione, ad esempio, seguire la propria squadra dal vivo porta ad un travolgimento emotivo per il quale è normale lasciarsi andare anche a comportamenti non proprio corretti.

Per metà circa degli italiani, insultare la propria squadra o il proprio campione in seguito a prestazioni negative, intimidire gli avversari e insultare l’arbitro sono un elemento del tifo. Per il 16% è normale scontrarsi fisicamente con i tifosi avversari. Per il 29% è normale utilizzare petardi e fumogeni. Per 1 italiano su 5 sono normali gli insulti ai giocatori legati alla loro nazionalità ed etnia.

Per l’8% del campione, allo stadio è tutto concesso, è giusto che i tifosi vivano le partite con intensità e si lascino andare.

Per il 18% è un elemento del tifo insultare un giocatore per la sua nazionalità o le sue origini etniche, oltre che definire un giocatore “zingaro” o “ebreo”. Per il 16% è normale fare il verso della scimmia o lanciare banane ai giocatori di colore

Tuttavia, dagli sportivi oggetto di insulti ci si attende un comportamento esemplare e, secondo il 74% degli italiani, uno sportivo dovrebbe cogliere queste occasioni per sensibilizzare le persone con le proprie azioni anche a rischio di assumere posizioni forti e ricevere squalifiche.

Sembra, dunque, che, per una parte degli italiani, il calcio sia da considerare una sorta di terra di nessuno in cui comportamenti proibiti in altre dimensioni della vita sono, invece, da considerare leciti. Eppure, tre quarti degli intervistati ritiene che sia necessario sensibilizzare sulle tematiche del razzismo nel corso degli eventi calcistici. Una sorta di schizofrenia, spiegabile forse con l’idea che l’offesa, l’ingiuria abbiano più che altro una finalità retorica nel calcio: l’obiettivo, cioè, è opporsi all’avversario in ogni modo possibile e, a tal fine, anything goes, come dicono gli inglesi.

Si tratta di dinamiche complesse e non sempre intuitive, che ho cercato di dipanare nel mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi, Milano, 2020).

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Cambiarsi la biancheria come fatto sociale

Nel 1937, in piena epoca fascista, si distribuivano agli impiegati pubblici consigli di igiene come il seguente:

Sarebbe assai bene mutarsi di biancheria ogni quattro giorni: ma purtroppo molte volte le necessità economiche si oppongono ad una larghezza che ha tante ragioni per essere seguita. Si ricordi almeno che alcune biancherie hanno diritto al rinnovo frequente: e le mutande si chiamano così appunto perché debbono essere spesso mutate, e le calze sono così facili a lavarsi che basta la buona volontà a ciò che ogni tre-quattro giorni abbandonino il piede. Ne guadagna la educazione, la salute e talora anche l’olfatto (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, pp. 43-44).

Il consiglio appena esposto rivela l’esistenza di standard igienici in epoca fascista sensibilmente diversi dai nostri. Oggigiorno, un membro competente della società non può evitare di lavarsi e cambiare la propria biancheria giornalmente. Non farlo – soprattutto se tale negligenza si traducesse in un odore sgradevole – attirerebbe inevitabilmente giudizi negativi che, in casi estremi, comporterebbero una vera e propria squalifica sociale o una espulsione dal consesso delle persone civili.

Contrariamente a quello che si ritiene comunemente, il rispetto delle norme di pulizia non è solo questione di civiltà. Gli standard igienici riflettono precise condizioni di produzione materiale. In epoca di consumismo avanzato, l’acquisto di articoli di biancheria facilmente usurabili a causa del materiale con cui sono realizzati è fatto comune. È pratica diffusa comperare per pochi euro mutande e canottiere, destinate a un rapido ricambio a causa della deperibilità dei materiali. Ciò rende possibile indossare ogni giorno nuovi capi di biancheria. Questa condizione, abbinata alla disponibilità quasi illimitata di acqua e di prodotti per la pulizia di ogni tipo, consente, anzi impone, l’adesione a norme di igiene molto esigenti che, in quanto tali, non possono essere disinvoltamente trasgredite se non si vuole apparire come dei “devianti igienici”.

In epoca fascista, invece, l’acquisto frequente di indumenti intimi non era alla portata delle tasche di tutti. Anzi, l’ethos popolare spingeva a tenere con sé le stesse mutande per anni e anni e a disfarsene solo se totalmente inutilizzabili. Il ricambio di biancheria era molto meno frequente, così come, del resto, non esistevano in tantissime abitazioni servizi igienici interni, né abbondanti e diversi prodotti per la pulizia della pelle. Il risultato era che la maggior parte delle persone condivideva standard di pulizia e olfattivi che oggi troveremmo inaccettabili, ma che, all’epoca erano del tutto ordinari.

Potremmo essere tentati dall’idea di etichettare i nostri antenati come più “lerci” di noi, ma anche i criteri di pulizia cambiano di epoca in epoca. Non esistono, al riguardo, standard universali e immutabili. È probabile, anzi, che, in un futuro non troppo distante, perfino le nostre norme igieniche appariranno discutibili.

Ogni epoca, tuttavia, tende a interpretare etnocentricamente le proprie norme igieniche come assolute, condannando chi non aderisce a esse a un ruolo di deviante e imputandogli, talvolta, condizioni patologiche. Così oggi, trascurare la propria igiene – ad esempio, “mutare” le mutande ogni quattro giorni o più – potrebbe essere interpretato come un sintomo di depressione, una forma di accidia o, nel migliore dei casi, un indice di sudiceria. 

Ciò che un tempo era normale diventa patologico qualche decennio dopo. Di questi mutamenti è piena la storia dell’umanità. Il che dovrebbe almeno portarci a essere più benevoli nei confronti di noi stessi e di chi ci ha preceduto.

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Immaginazione e fantasia nella società cosmopolita

Scrive l’antropologo Arjun Appadurai:

Nel corso degli ultimi vent’anni il peso dell’immaginazione e della fantasia è notevolmente cambiato, e precisamente nella misura in cui il processo di de-spazializzazione delle persone, delle rappresentazioni e delle idee ha acquisito nuova forza. In tutto il mondo sempre più persone considerano la propria esistenza nell’ottica di possibili forme di vita proposte dai mass-media in tutti i modi immaginabili. Questo significa che la fantasia è oggi diventata una prassi sociale; è in innumerevoli varianti il motore della configurazione della vita sociale di molte persone in società di vario tipo. […] anche l’esistenza più miserabile o quella più disperata, le condizioni più brutali e disumane, la peggiore ingiustizia sperimentata, sofferta, vissuta sono oggi aperte al gioco dell’immaginazione – prigionieri politici, bambini che lavorano, donne che sgobbano nei campi e nelle fabbriche di questo mondo. […] il nuovo potere che l’immaginazione ha acquisito nella produzione della vita sociale è indissolubilmente legato a rappresentazioni, idee e situazioni che vengono da altrove. […] Perciò un’affermazione dell’identità culturale legata al luogo è un azzardo pericoloso (Arjun Appadurai, cit. in Ulrich Beck, 2003, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, pp. 114-115).

Quanto è importante l’immaginazione per le nostre vite di soggetti della società contemporanea? Quanto incide la fantasia sul modo in cui ci rappresentiamo il mondo? Le immagini mediatiche che introiettiamo insieme al cibo in ogni singolo momento delle nostre esistenze istituiscono i valori, le mete, le aspirazioni, gli standard di pulizia e decenza, di accettazione e repulsione a cui informiamo la nostra condotta sociale.

Pensiamo ai migranti che attraversano il pianeta spinti da rappresentazioni mutuate dai media mondiali; agli adolescenti che costruiscono i loro sogni adattandoli dai tanti mezzi di comunicazione social e di massa a cui sono esposti; a chi si converte a una religione dopo aver assistito a un evento in mondovisione (come si diceva un tempo).

È tutto un incrocio di immagini, filmati, icone che scorrono nelle nostre teste, soppiantando spesso le esperienze reali, condannate per principio proprio perché troppo reali e insufficienti al cospetto di quello che l’immaginazione sa darci e che spesso, come diceva Jean Baudrillard, è più vero del vero.

Come dice Appadurai, ognuno di noi è mosso da idee e situazioni che vengono da altrove, ma che, una volta entrate nelle nostre teste, non avvertiamo più come distanti o inarrivabili. È il paradosso della globalità esistenziale: il lontano può essere per noi più vicino del fisicamente vicino; il vicino può essere più invisibile del lontano e distante.

Solo che raramente ci soffermiamo a meditare su questo paradosso e continuiamo a vivere come se la vita fosse semplice e lineare.

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Offendere con le etimologie

Offendere può forse essere fonte di soddisfazione, soprattutto se l’offeso è una persona particolarmente diosa. Espone, però, inevitabilmente a malumori, ripicche, volgarità, possibili escalation, conseguenze penose. Insomma, è un’attività piuttosto rischiosa.

Un rimedio potrebbe essere ricorrere alle etimologie. Quando ingiuriate, non impiegate immediatamente quella parola, tanto efficace quanto compromettente, ma volgetela nella sua etimologia. L’esito sarà forse meno forte, ma più appagante. L’altro potrà non rendersi conto dell’offesa ricevuta, ma in voi rimarrà l’intimo piacere di aver raggiunto lo scopo senza generare conseguenze irreparabili.

Facciamo qualche esempio.

“Tamarro”, per designare una persona rozza e volgare, potrebbe indurre un certo risentimento nell’altro. Sapendo però che il termine deriva dall’arabo tammar ‘venditore di datteri’, da tamr, ‘dattero’, provate a usare “venditore di datteri” nel rivolgervi al vostro stimatissimo oltraggiando. Lui (o lei) non capirà, ma il vostro compiacimento sarà comunque roba da raffinati.

“Imbecille” è una parola che può giustamente suscitare sdegno e livore. La sua etimologia, dal latino imbecillis, composto da in “senza” e baculum “bastone”, può venirvi in soccorso. “Sei proprio uno ‘zoppo’” o “Guarda quel ‘senza bastone’” potrebbero essere sufficienti a scaricare la rabbia nei confronti di chi si comporta da vero imbecille.

“Cretino” viene dal provenzale crétin ‘cristiano’ ed è un caso etimologico abbastanza interessante. Chiamare qualcuno “cristiano” invece che “cretino” potrebbe indurre l’offeso a travisare le vostre intenzioni, ritenendole addirittura positive. E qui la soddisfazione potrebbe essere perfino maggiore, a meno che l’altro (o l’altra) non siano atei inferociti.

“Meretrice”, ovvero “prostituta”, è una voce dotta che deriva, in ultima analisi, da mèretrix “prostituta”, che viene da merère “meritare, guadagnare”. “Meritevole” potrebbe essere un modo sofisticato per designare chi vende il proprio corpo per denaro.

“Rimbambire”, infine, secondo una ipotesi significherebbe etimologicamente “tornare bambini”. Provate a rivolgervi a qualcuno definendolo “bambino di ritorno”. Rimarrà senz’altro sconcertato (o sconcertata), ma voi gongolerete sapendo bene che cosa intendete dire.

Il gioco potrebbe continuare. Consultando un buon dizionario etimologico, è possibile imbattersi in tante altre interessanti etimologie oltraggianti.

Qualcuno potrà obiettare che si tratta di un ripiego troppo raffinato e che, a volte, bisogna scaricare addosso all’altro tutta la potenza irriverente di una vera parolaccia.

Non sono d’accordo. A volte, un atteggiamento cerebrale è fonte di benessere almeno pari a quello che prova chi ricorre alle volgarità più crasse.  

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Adamo: più di quello che si pensa

Adamo fu il primo uomo creato da Dio secondo la Bibbia? Così come Eva fu la prima donna?

Questo è quello che ci viene insegnato da sempre ed è un insegnamento talmente radicato che saremmo sconvolti dall’apprendere che, in realtà, la parola Adam, come nome proprio, compare raramente al di fuori di Genesi 1-5. Essa, infatti, è presente nell’Antico Testamento per ben ventidue volte e sempre con l’articolo determinativo (ha in ebraico). In queste ventidue volte, il termine è un nome collettivo e significa umanità. Quando, invece, è privo di articolo, viene tradotto come nome proprio.

Così, ha-adam si traduce di solito con “l’uomo” (nel senso di un uomo in genere) o con “l’umanità” (secondo il contesto), mentre adam (senza ha) diventa “Adamo” (l’Adamo che conosciamo tutti). Ad esempio, in Genesi 1, 27, dove si legge “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”, il termine usato per “l’uomo” è proprio adam.

Non a caso, alcuni commentatori riferiscono che Adam non dovrebbe mai essere tradotto come un nome proprio, cosa che condurrebbe allo stravolgimento di migliaia di anni di credenze bibliche che hanno individuato in Adamo un uomo in carne e ossa, responsabile della perdita della grazia divina da parte dell’umanità. Se così fosse, l’umanità non sarebbe caduta nel peccato a causa dell’errore di un solo uomo, ma a causa di… se stessa (circostanza che appare, del resto, più sensata).

Forse, però, addossare la colpa dei nostri errori su un unico individuo – il nostro avo primigenio – serve una funzione psicologica: la funzione del capro espiatorio (altra figura che dobbiamo al folklore biblico). È più facile prendersela con un unico essere abominevole e lasciare che sia questi a essere responsabile di ogni nostro guaio, che cercare la colpa in noi stessi.

È un meccanismo ordinario di funzionamento della nostra psiche – ieri come oggi – che serve ad alleggerirci dall’errore e proiettarlo su un terzo, meglio se questi è lontanissimo nel tempo.

Se così stanno le cose, il povero Adamo sarebbe, dunque, solo la proiezione di tutti i nostri sbagli. “Sei tutti i miei sbagli” come cantavano i Subsonica qualche anno fa. E così la nostra coscienza “se ne lava le mani” (altra frase di origine biblica) e si fa bella ai propri occhi.

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(Ancora) Su vaccini ed effetto nocebo

In un post precedente, mi ero soffermato su una ricerca che dimostrava una importante relazione tra campagna vaccinale COVID-19 ed effetti avversi da effetto nocebo. In altre parole, evidenziavo come la scienza avesse ormai preso coscienza del fatto che molti effetti avversi segnalati da persone appena vaccinate fossero dovuti anche alle aspettative negative nei confronti delle conseguenze del vaccino contro la SARS-CoV-2.

Una recente ricerca sembra confermare tale relazione. Lo studio (una metanalisi), condotto da Haas, Bender, Ballou e altri ricercatori del Programme for Placebo Studies della Harvard Medical School di Boston Twelve, ha preso in considerazione 12 articoli (il più recente pubblicato il 14 luglio 2021) che riferivano il verificarsi di effetti avversi in 45.380 soggetti, dai 16 anni in su, sottoposti a procedura sperimentale. Di questi, 22.578 avevano ricevuto un’iniezione con una semplice soluzione salina (placebo), mentre 22.802 avevano ricevuto un vero vaccino.

Dopo la prima dose, il 35.2% di coloro a cui era stato somministrato il placebo aveva dichiarato di avvertire sintomi come mal di testa e sensazione di affaticamento. Dopo la seconda dose, tale percentuale era scesa al 31.8%. Per coloro che erano stati realmente vaccinati, invece, le medesime percentuali si assestavano al 46,3%, dopo la prima dose, e al 61,4%, dopo la seconda.

Gli effetti avversi avevano, dunque, colpito maggiormente i soggetti sottoposti a vaccinazioni reali, ma, secondo gli autori, quasi due terzi di tutti i sintomi verificatisi dopo la vaccinazione anti-Covid sono da associare alle aspettative negative dei soggetti vaccinati nei confronti della sostanza loro iniettata.

Si tratta del potente “effetto nocebo” che, sempre secondo gli autori, potrebbe avere tra le sue cause la tendenza dei media a soffermarsi a lungo e con ansia sugli effetti indesiderati delle inoculazioni, preparando, dunque, il terreno a un comportamento di eccessiva sorveglianza nei confronti delle sensazioni fisiche sperimentate dopo aver ricevuto una dose di vaccino.

L’effetto nocebo potrebbe, inoltre, indurre a fenomeni di misattribution, vale a dire di attribuzione alla sostanza assunta di effetti da imputare ad altre cause. Tale fallacia contribuisce a un caratteristico “effetto telescopio” per cui tutto ciò che accade nell’arco di tempo immediatamente successivo all’assunzione del vaccino viene, in un modo o nell’altro, attribuito alla subdola azione del vaccino

Tutto questo ha delle evidenti ripercussioni su quel fenomeno che gli anglofoni chiamano vaccine hesitancy, ossia gli atteggiamenti di timore, riluttanza o rifiuto a vaccinarsi (per svariati motivi), di cui gli effetti avversi sono un aspetto importante e ancora non ben indagato.  

Non a caso, gli autori insistono sulla necessità, oltre che eticità, di educare il pubblico sulla possibilità che, in seguito a un trattamento medico, possano svilupparsi reazioni nocebo. Ciò potrebbe, fra l’altro, ridurre la probabilità che abbiano effettivamente luogo.

Infine, informare il pubblico sulla possibilità che si verifichino reazioni nocebo potrebbe contribuire a ridurre i timori relativi alla dannosità dei vaccini contro il COVID-19, il che, a sua volta, potrebbe ridurre il fenomeno della vaccine hesitancy.

Riferimento:

Haas, J. W., Bender, F. L., Ballou, S. et al., 2022, “Frequency of Adverse Events in the Placebo Arms of COVID-19 Vaccine Trials: A Systematic Review and Meta-analysis”, JAMA Network Open, vol. 5, n. 1.

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Revenge bedtime procrastination

In italiano, “procrastinazione della notte per vendetta”. A leggere ciò che dicono alcuni siti e alcune riviste, il termine fa riferimento a un fenomeno conosciuto in Cina, dove la settimana lavorativa è di 72 ore, che consiste nel rimandare il più a lungo possibile il momento di andare a dormire per dedicare tempo a se stessi e alle proprie passioni, in una sorta di protesta vendicativa contro una società che pretende cronofagicamente di occupare tutto il nostro tempo in occupazioni alienanti.

In Occidente è ben nota la bedtime procrastination, ossia la tendenza a rimandare il riposo notturno per scrivere su WhatsApp, compulsare Instagram, Twitter o Facebook, collezionare video su YouTube, dedicarsi a incessanti videogiochi o a ore interminabili di binge watching televisivo. Si tratta di un fenomeno che preoccupa sempre più psicologi e pedagogisti in quanto spostare sempre più avanti il momento di dormire genera stanchezza perenne il mattino seguente e, dunque, l’incapacità di svolgere positivamente i propri ruoli diurni, in particolare quelli di lavoratore e di studente.

Qualche sociologo, come Byung-Chul Han, già parla di “società della stanchezza” o “società assonnata” per descrivere una tendenza che sembra interessare soprattutto i giovani, ma non solo. La revenge bedtime procrastination, invece, è altra cosa: essa rimanda a un precisa scelta compiuta per rimediare alla mancanza di sufficiente tempo libero durante le ore diurne. Una espressione di malessere interpretabile come tacito dissenso nei confronti dei ritmi accelerati e sempre più esigenti della società capitalistica. Un modo per recuperare il controllo di se stessi e ritrovare un senso di libertà, anche se forse illusorio.

Certo – ci  avvertono medici e moralisti – una carenza prolungata di sonno può causare problemi seri di salute: provoca squilibri nel sistema immunitario, riduce la concentrazione, deprime il tono dell’umore, aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiache e ipertensione.

Ma la necessità di trovare tempo per sé, per le proprie cose, è sempre più avvertita oggigiorno, soprattutto in una società in cui proliferano quelli che l’antropologo David Graeber definisce bullshit jobs, ovvero occupazioni così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così.

Psicologi e medici insistono: bisogna dormire 6-8 ore per notte, se si vuole vivere una vita sana. Ma forse la revenge bedtime procrastination è un modo irragionevole per protestare contro una società insana e priva di senso. E non importa se il mattino dopo, ti senti assonnato. Almeno, vivi la vita come vuoi viverla. E se non rendi tanto al lavoro, beh, tanto peggio per il lavoro!

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I numeri della Bibbia

Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero. Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio (Esodo 12, 37-39. Bibbia CEI).

Sui numeri della Bibbia sono stati scritti numerosi articoli e saggi. Certamente, anche il lettore più acriticamente disposto a credere nei suoi racconti, non può non rimanere sconcertato dal fatto che, ad esempio, in base a quanto scritto in alcuni passi dell’Antico Testamento, Matusalemme sarebbe vissuto fino all’età di 969 anni; Noè fino a 950 anni; Adamo fino a 930; Lamech fino a 777 e così via. E questo in un’epoca in cui il numero massimo di anni a cui era possibile realisticamente aspirare era inferiore ai 50!

La cabala ha tentato di interpretare questi numeri in chiave simbolica per cui, ad esempio, l’età di Adamo – 930 anni – risulterebbe dalla sottrazione di 70, numero della perfezione, a 1000, numero di Dio. Ma se consideriamo che la simbologia religiosa è estremamente fertile, sarà sempre possibile attribuire un significato simbolico a qualsiasi numero, tanto non sarà mai possibile essere smentiti. Anzi, più una interpretazione simbolica appare misteriosa ed elegante, più sembrerà credibile.

Ma ritorniamo al brano di Esodo in apertura. Una fuga di seicentomila uomini (a cui bisogna aggiungere donne e bambini, per cui il numero dei fuoriusciti dall’Egitto potrebbe toccare addirittura i tre milioni) appare francamente inverosimile, soprattutto se si considera l’assenza di provviste atte a sfamare tante persone.

Più realistico pensare a una interpretazione errata del termine ebraico elef, che non significa solo “migliaia”, ma anche “capi di famiglia”. Mosè, dunque, avrebbe condotto con sé seicento famiglie, non seicentomila uomini, per un totale di seimila persone al massimo. Un numero sicuramente impegnativo, ma sempre più gestibile di tre milioni!

Le vicende della Bibbia sono relative a una “epoca del pressappoco” in cui i numeri non avevano la medesima rilevanza della nostra “epoca della precisione”. Non dovremmo, dunque, compiere l’errore anacronistico di attribuire a genti di quattromila anni fa la stessa cultura aritmetica che noi diamo per scontata.

Anche i numeri, infatti, contrariamente a quanto ci viene insegnato a scuola, risentono di una dimensione sociale e culturale.

Fonti:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 20-24; 47-48.

Koyrè, A., 1992, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino.

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La mutevole percezione dell’autostop

In base all’articolo 175, comma 7, capo B del Codice della Strada, la pratica dell’autostop è vietata in Italia sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali. Per la precisione, l’articolo citato stabilisce che:

sulle carreggiate, sulle rampe, sugli svincoli, sulle aree di servizio o di parcheggio e in ogni altra zona associata all’autostrada è vietato chiedere o offrire passaggi.

La ratio del divieto sta nel fatto che chiedere o offrire passaggi in autostrada è considerata una pratica pericolosa, potenzialmente in grado di causare incidenti o intasamenti.

Ciò che il Codice non rivela, però, è che, nel corso del tempo, la percezione dell’autostop come fatto sociale e culturale è radicalmente mutata. Come afferma la storica Linda Mahood, autrice dello studio “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, nella prima metà del XX secolo, una norma non scritta, ma diffusamente invalsa, stabiliva che dare un passaggio a un autostoppista fosse un gesto di generosità e umanità, da ricambiare con gratitudine, ma non con denaro. Addirittura, l’hitchhiking, come viene detto in inglese l’autostop, veniva descritto come un’occasione per dimostrare agli sconosciuti di essere persone bene educate, una sorta di esperienza edificante sia per chi concedeva sia per chi riceveva il passaggio.

L’autostop era, inoltre, pubblicamente lodato come una modalità avventurosa di viaggiare. Ad esempio, nel 1934, i giornali celebrarono le “gesta” di due diciannovenni che percorsero 2.300 miglia in autostop per incontrare il Primo Ministro canadese R. B. Bennett, raccogliendo l’autografo dei sindaci di ogni città che attraversavano. Una ragazza, la ventitreenne Nora Harris, che viaggiò da sola da Victoria a Halifax, nel 1938, dormendo e cucinando all’aperto, fu ricordata dai quotidiani canadesi con toni encomiastici.

L’autostop era, infine, incoraggiato come un modo per acquisire conoscenze su se stessi, il proprio e altri paesi. In definitiva, era percepito con un misto di paternalismo e cavalleria, bonarietà e indulgenza: un rituale basato su fiducia e mutuo rispetto, in grado di creare coesione sociale.

Fu a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la percezione dell’autostop cominciò a cambiare. La condotta ingegnosa, avventurosa e lodevole di un tempo cominciò a suscitare dubbi e apprensioni, anche in seguito a casi di autostoppisti rapinati e uccisi dai loro “benefattori” negli Stati Uniti.

Le autorità si mostrarono preoccupate soprattutto per il sesso femminile. I giornalisti cominciarono a dare grande rilievo ai casi di giovani donne violentate dopo aver chiesto un passaggio a uno sconosciuto. In alcuni articoli, trapelò l’accusa che “se la fossero cercata” e che la loro condotta non fosse del tutto innocente. Il fatto, poi, che a chiedere passaggi in strada fossero hippie, capelloni e giovani considerati “non affidabili” contribuì a gettare più di un velo di sospetto sulla figura dell’hitchhiker.

Ben presto, l’autostop venne ad essere considerato una pratica rischiosa sia per gli autostoppisti sia per gli automobilisti: nessuno poteva essere sicuro di chi avrebbe trovato dall’altra parte.

In tempi recenti, film come The Hitcher (1986), Say Yes (2001), The Hitchhiker (2007) hanno contribuito ad associare alla figura dell’autostoppista significati macabri e inquietanti che sono ormai sedimentati nell’immaginario collettivo. A ciò hanno contribuito anche leggende metropolitane come quella dell’autostoppista fantasma, che narra, pur in molteplici varianti, la vicenda di una donna (o una bambina o una ragazza) misteriosa che, salita su un’automobile, scompare nel nulla dopo avere avvisato l’automobilista di un pericolo. Alla fine, quest’ultimo scopre che la ragazza era morta in un incidente stradale.

Da pratica di coesione sociale, generosità e condivisione, l’autostop è, dunque, diventato una condotta rischiosa, potenzialmente criminogena e tipica di vagabondi e marginali. Una trasformazione radicale che ne ha completamente stravolto lo status iniziale, trasformando l’autostoppista in una figura quasi deviante o almeno temibile.

Vedremo nel tempo se essa scomparirà del tutto dal novero delle figure incontrate in strada o se si rinnoverà in qualche forma al momento non prevedibile.

Riferimento:

Linda Mahood, 2016, “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, Journal of Social History, vol. 49, n. 3, pp. 647–670.

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Perché non c’era posto in albergo per Gesù?

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo (Luca 2, 1-7. Bibbia CEI).

Il brano di Luca che descrive la nascita di Gesù e la sua deposizione in una umile mangiatoia ha sempre suscitato sorpresa e interrogativi. Irresistibilmente viene alla mente l’immagine di Giuseppe e Maria alla ricerca disperata di un albergo che non riescono a trovare. Perché? Perché a causa del censimento tutti gli alberghi erano occupati (come quando, ancora oggi, si partecipa a un evento senza prenotare una stanza e si rimane senza alloggio)? Perché i due sprovveduti non erano avvezzi a dormire in luoghi estranei? Perché il futuro salvatore del mondo doveva nascere in un luogo modestissimo per volere di Dio in modo che risaltasse ancora di più la sua condizione speciale?

In realtà, questi interrogativi potrebbero essere viziati da un errore di traduzione. Il termine greco utilizzato da Luca e tradotto con “albergo” è katàlyma, che, secondo gli esperti, può significare anche “caravanserraglio” ossia un recinto scoperto nel quale si chiudevano le bestie da soma, oppure “stanza” come in un altro passo di Luca (22, 11) dove Gesù dice agli apostoli di chiedere al padrone di casa: «Dov’è la stanza [katàlyma] in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?» (Bibbia CEI).

Insomma, niente a che vedere con alberghi o hotel di lusso, come anacronisticamente potremmo pensare. Resta il fatto che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare né una stanza né un recinto per animali. La ragione potrebbe essere la condizione di puerpera di Maria. Secondo la legge ebraica, infatti, la puerpera rimaneva impura per 40 o 80 giorni (40 per il figlio maschio, 80 per la femmina) e rendeva impuri gli oggetti e le persone con cui veniva in contatto. Non poteva, dunque, essere ospitata in una stanza – katàlyma – insieme ad altre persone.

Se le cose stanno così, l’umiltà della condizione natale di Gesù, più che a un presunto volere divino, potrebbe essere dovuta a una semplice circostanza imposta dai costumi locali. Spesso i teologi attribuiscono disegni ultraterreni a fatti che trovano la loro ragione in spiegazioni molto umane, distorcendo il significato di eventi che di numinoso, a ben vedere, hanno poco.

Fonte:

Beretta, R., Broli, E., 2002, Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, PIEMME, Casale Monferrato (AL), pp. 95-97.

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