Il peccato cognitivo dell’antropomorfismo

Non c’è dubbio che se dovessimo stilare un elenco dei più gravi peccati cognitivi dell’essere umano, l’antropomorfizzazione, ossia la tendenza a proiettare sugli animali non umani caratteristiche, pensieri, sentimenti ed emozioni umane, sarebbe tra questi. E forse tra i primi posti.

Finanche un osservatore distratto non può non notare come oggi, anche in forza del successo dei movimenti animalisti e di una mutata sensibilità in materia, il nostro rapporto con gli animali sia profondamente cambiato, al punto che il pet è diventato il concorrente principale degli umani sul mercato delle relazioni sociali.

Tale cambiamento è evidente anche dal fatto che gli animali occupano uno spazio sempre maggiore nel mondo dei consumi, tanto che interi settori commerciali si sono affermati con l’intento dichiarato di produrre merci per gli animali: cibo, vestiti, igiene, gadget di ogni tipo, perfino sedute di psicoterapia! Non c’è aspetto del comportamento animale che non sia curato da noi umani. Con il rischio, però,  di vedere in essi “persone” simili a noi in tutto e per tutto e di attribuire loro bisogni, sentimenti, desideri che non hanno.

Così, il cane o il canarino di turno “strizzano l’occhio”, “fanno i dispetti”, “tengono il broncio”, “salutano timidamente”, “fanno i pagliacci”, “mancano di rispetto” o “si comportano in maniera seria”. Un altro rischio è quello di adoperare termini che hanno significati complessi per gli umani e di imporli acriticamente anche agli animali.

Di qui l’interesse del breve articolo di Daniel Q. Estep e Katherine E. M. Bruce, “The concept of rape in non-humans: A critique” (1981), qui tradotto per la prima volta in italiano, che prende le mosse proprio dalla problematicità di termini come “incesto, omosessualità, prostituzione, adulterio, schiavitù, orgasmo e stupro”, quando questi sono applicati a un vasto insieme di comportamenti osservabili nel mondo animale.

Una parola come “stupro”, nello specifico, appare talmente complessa e connotata emotivamente da richiedere particolare attenzione. Per questo gli autori propongono di sostituirla con altre espressioni, più neutrali da un punto di vista denotativo e connotativo.

Lasciando al lettore la sorpresa di scoprire quali siano questi nuovi termini e andando al di là delle riflessioni conchiuse di Estep e Bruce, aggiungerò che questo può essere considerato solo il primo passo verso un nuovo modo di guardare agli animali. Un modo meno antropomorfo, meno umanocentrico, più rispettoso delle specificità e caratteristiche degli animali, i quali non possono essere ridotti al rango di “fornitori di relazioni sociali”, né di surrogati per vite umane incomplete.

Certamente, l’ultimo secolo ha visto l’affermarsi di un atteggiamento più riguardoso nei confronti degli animali, ma anche l’emergere di un contegno “perverso” nei loro confronti, di cui è senz’altro responsabile una deriva antropomorfizzante divenuta ormai senso comune.

Per una trattazione più completa di questa deriva, rimando al quinto capitolo del mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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