È un fatto che non finisce mai di stupirci. Incontriamo per caso qualcuno che non vedevamo dalla sua infanzia o poco oltre ed esclamiamo sconcertati: «Come sei cresciuto!» oppure “Come sei diventata grande!”. La sorpresa è autentica, ma il fatto che un bambino si sia trasformato in adolescente o una bambina in giovane adulta non dovrebbe essere la cosa più ovvia del mondo? Sarebbe strano il contrario: una bambina che rimane sempre tale, un bambino che non diventa mai grande. E allora perché ci meravigliamo al punto da restare a bocca aperta?
Lo stesso accade quando ci capita di incontrare un amico/a che non vedevamo da tempo e che ci appare inevitabilmente più vecchio/a. In questo caso, non commentiamo, di solito, il cambiamento per “buona educazione” o, se lo facciamo, adottiamo un tono di scherzo o di rassicurazione (“Non sei cambiato per nulla!”, “Sei sempre la stessa!”). Lo stupore per quel volto trasformato dal tempo, però, rimane. A tal punto che spesso siamo indotti a fugaci, quanto grevi, riflessioni sul trascorrere degli anni. Come si spiega tanto sbalordimento di fronte a un processo così prevedibile? Per quale motivo rimaniamo turbati di fronte a ciò che dovremmo già sapere, ossia che il tempo avanza inesorabilmente per tutti?
È possibile ipotizzare varie spiegazioni.
Una di queste ha a che vedere con la psicologia cognitiva e in particolare con quel fenomeno che va sotto il nome di “euristica dell’ancoraggio” (Kahneman, 2013; Rumiati, Bonini, 2001). Con questo termine, si intende il fatto che le persone tendono ad affidarsi alle prime informazioni acquisite, comprese le prime immagini, che fungono da ancora quando, in seguito, si tratta di prendere una decisione o formulare un giudizio. L’immagine percepita per prima esercita l’effetto di un vincolo mentale e condiziona ogni valutazione successiva. L’ancoraggio è un meccanismo talmente efficace che persino l’introduzione di nuove informazioni rimane arenata alla valutazione originale, definendo un circolo vizioso conservatore in cui qualsiasi revisione riesce ad annullare completamente il giudizio iniziale solo con estrema difficoltà. È una conseguenza della natura conservatrice del pensiero umano. Un esempio classico sono le “prime impressioni” che le persone si fanno degli altri: queste, di solito, sono estremamente coercitive e occorrono molte nuove informazioni per superarle e giungere a un giudizio più aderente alla realtà. È stato dimostrato, fra l’altro, che la consapevolezza del problema dell’ancoraggio non è un antidoto adeguato ai suoi effetti. In alcuni esperimenti, si è notato che i pregiudizi persistono anche dopo che i soggetti del gruppo sperimentale ne sono stati informati e hanno ricevuto l’indicazione di cercare di evitarli o porvi rimedio (Heuer Jr., 1999, pp. 151-152).
Allo stesso modo, l’immagine del bambino o dell’amico che non vediamo da tempo si impone alla nostra mente come un’ancora o un punto di partenza rispetto al quale formuliamo ogni successiva valutazione. La percezione è condizionata dall’immagine precedente “più giovane” sulla quale agisce conflittualmente l’immagine attuale, producendo un momentaneo cortocircuito psicologico, di solito ricomponibile in poco tempo, che suscita sconcerto e confusione.
Un’altra possibile spiegazione, sempre in tema di psicologia cognitiva, chiama in causa la cosiddetta “euristica della disponibilità” (Sutherland, 2010). Anche questa è una scorciatoia mentale che adoperiamo al momento di compiere una decisione o esprimere una valutazione. Si basa sul presupposto implicito secondo cui ciò che viene facilmente richiamato alla mente tramite il ricordo o l’immaginazione – ed è, dunque, “disponibile” alla coscienza –, viene ritenuto per ciò stesso importante fino a essere assunto come criterio di riferimento e confronto. In sintesi, gli individui tendono a orientare le proprie valutazioni sulle persone e sulle cose in base alle impressioni, informazioni o immagini che si presentano per prime alla mente. Tale disponibilità inganna il cervello inducendolo a credere, in assenza di altre informazioni o immagini, che le cose stiano e saranno sempre così, anche se il cervello sa razionalmente che ciò non può essere vero. In presenza di ulteriori informazioni o immagini, invece, queste vengono soppesate, per così dire, in riferimento alle informazioni o immagini conservate in memoria. L’esito è una sensazione di straniamento che indugerà per qualche secondo fino a che ricordo e percezione attuale non giungeranno a un qualche tipo di compromesso, accompagnato spesso da pensierose considerazioni sul tempo che trascorre velocemente.
Così, il confronto tra l’immagine precedente del bambino, che la nostra mente recupera agevolmente essendo immediatamente disponibile alla coscienza, e quella attuale del giovane adulto genera una sensazione perturbante. Sebbene siamo razionalmente consapevoli che il bambino non poteva non diventare grande, il fatto che non lo abbiamo visto crescere gradualmente induce in noi un senso di sorpresa perché il processo di sviluppo è avvenuto senza che ne siamo stati testimoni. È stata, per così dire, sottratta alla nostra psiche una fetta di vita di quella persona e abbiamo bisogno di un po’ di tempo per colmare la distanza tra il prima e il dopo maturata, nel frattempo, nel nostro cervello. Lo stesso avviene quando incontriamo dopo tanto tempo un amico che appare irrimediabilmente incanutito. L’immagine che si presenta alla nostra mente – l’immagine mentalmente “disponibile” – è quella dell’amico giovane che conserviamo dall’ultima volta che l’abbiamo visto e che, improvvisamente, contrasta con l’immagine attuale, destando inevitabilmente stupore e turbamento.
Agisce poi indubbiamente la cosiddetta “legge psicologica dell’inerzia” (Gilovich, 1993) ovvero la tendenza a restare attaccati alle prime opinioni, rifiutando di cambiare prospettiva rispetto a determinate convinzioni, anche in presenza di forti ragioni contrarie. Questa tendenza, che si basa sul principio dell’economia mentale per cui il cervello umano tende ad evitare, quando possibile, l’elaborazione ex novo delle informazioni ricevute, fa sì che, nella mente umana, esistano degli schemi che rifiutano i dati contrastanti, se non nel momento in cui quegli schemi non sono più possibili, per esempio quando la mole di informazioni è troppo grande o quando le informazioni possedute non reggono al confronto con la realtà. Questa “legge” spiega perché gli esseri umani rimangono spesso attaccati a idee che pure sembrerebbe più logico modificare. Spesso, ad esempio, abbandonare una convinzione politica superata o una credenza superstiziosa è difficile proprio per questa umana tendenza all’inerzia psicologica. È, cioè, più facile rimanere attaccati alle prime opinioni che metterle in gioco e analizzarle criticamente.
Allo stesso modo, posti di fronte all’immagine recente di un individuo che non vedevamo da tempo, abbiamo bisogno di qualche minuto per superare l’inerzia vischiosa prodotta in noi dal ricordo precedente dello stesso individuo. La persistenza dell’immagine di un tempo agisce in maniera così autoritaria che diventa difficile per noi “aggiornarla” immediatamente. È come se, in qualche suo anfratto, la nostra mente non riuscisse a concepire che il tempo trascorre anche per coloro che non incontriamo regolarmente. E tale inerzia produce meraviglia e perplessità.
Un’ultima possibile spiegazione dello stupore che proviamo quando ci accorgiamo che il bambino che non vedevamo da tempo “è diventato grande” sta forse nel fatto che esso esprime semplicemente il rifiuto di accettare il trascorrere del tempo: non “vogliamo” che il tempo passi per gli altri perché ciò significa che passa anche per noi e che ci avviciniamo inesorabilmente alla vecchiaia e, dunque, alla morte, come sanno bene i genitori che commentano stupiti la crescita dei propri figli che “fino a ieri giocavano ancora con bambole e trenini” e che adesso sono sposati con figli. “Il bambino diventato grande” potrebbe avere, dunque, su di noi lo stesso effetto di un memento mori e attivare una serie di meccanismi di fronteggiamento o evitamento di cui la sensazione di meraviglia che si prova in quei momenti di “riconoscimento” è solo una modalità. Restiamo colpiti dal tempo che passa e compensiamo la malinconia che ne deriva con una sorta di patetico diniego (“No, non è possibile che sia già trascorso tutto questo tempo!”) su cui il buon senso arriva presto ad avere la meglio, lasciandoci leggermente avviliti.
Insomma, dietro una esclamazione così apparentemente banale quale “Come sei diventato grande!” si celano verità psicologiche e istinti filosofici profondi che rimandano al mistero del tempo e della morte. Un mistero che non riusciamo ad accettare serenamente e che suscita paura e angoscia. Oppure, come quando incontriamo bambini diventati adulti e adulti diventati vecchi, sorpresa e sconcerto.
Riferimenti
Gilovich, T., 1993, How We Know What isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, The Free Press, New York.
Heuer Jr., R. J., 1999, Psychology of intelligence analysis, Center for the Study of Intelligence, Central Intelligence Agency.
Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.
Rumiati, R., Bonini, N., 2001, Psicologia della decisione, Il Mulino, Bologna.
Sutherland, S., 2010, Irrazionalità, Lindau, Torino.