Confrontarsi “verso il basso” per stare meglio

Che cosa facciamo quando ci sentiamo giù? Quali strategie adoperiamo per superare uno stato di tristezza, malinconia, scoramento, avvilimento?

Tra i tanti rimedi concepiti dall’umanità per migliorare il proprio benessere psicologico, uno si basa su un’azione che tutti noi compiamo quotidianamente per gli scopi più vari e che può assumere anche una finalità “salutistica”: il confronto sociale.

Uomini e donne si confrontano da sempre con altri uomini e donne per comprendere meglio sé stessi e gli altri, per trarre indicazioni sulle proprie capacità e virtù, per imparare dagli altri a svolgere compiti nel miglior modo possibile, per emulazione, per rassicurarsi su ciò che passa per lecito e illecito nel proprio gruppo sociale e, sì, anche per “sentirsi meglio”.

Lo conferma da tempo la psicologia sociale, come emerge da un articolo che è diventato un piccolo classico della disciplina e che risale a oltre quaranta anni fa.

Si tratta di “Downward Comparison Principles in Social Psychology” dello psicologo Thomas A. Wills, pubblicato nel 1981 nella rivista Psychological Bulletin.

Secondo Wills, gli individui possono accrescere la sensazione soggettiva di benessere, in situazioni che lo riducono, ponendosi a confronto con persone che sperimentano condizioni peggiori della loro, soprattutto se non vedono la possibilità di agire per modificarle. Questo principio è definito downward comparison, ovvero “confronto verso il basso”. Secondo Wills, quando non è possibile affrontare i problemi direttamente, le persone usano i confronti sociali verso il basso per migliorare il proprio stato d’animo. In questo modo, pur non intervenendo direttamente sulla fonte del loro malessere, essi agiscono sulla condizione soggettiva, trovando un qualche sollievo.

Alcuni esempi possono essere: lo studente che prende un brutto voto a un esame universitario che trae conforto dal fatto che il suo collega è stato bocciato allo stesso esame; il lavoratore la cui carriera non progredisce che confronta la propria condizione con quella di colleghi di categoria inferiore; la vittima dell’incidente stradale che gli ha causato la rottura del ginocchio che confronta sé stesso con il compagno di viaggio a cui hanno amputato un arto.

Al principio generale del confronto verso il basso, Wills aggiunge altri principi e corollari. Un corollario, ad esempio, è che il confronto verso il basso è stimolato da una diminuzione della sensazione di benessere soggettivo. Il fenomeno del downward comparison, inoltre, può avere luogo sia in forma passiva – semplicemente confrontandosi con la situazione di persone che stanno peggio – sia in forma attiva, agendo per fare in modo che altre persone stiano peggio, anche causando deliberatamente sofferenza e danni fisici.

Un altro corollario è che le persone con bassa autostima hanno maggiore probabilità di ricorrere al confronto verso il basso. Infine, il downward comparison è solitamente eseguito con persone di status sociale inferiore.

La conferma delle ipotesi di Wills è giunta da una serie di ricerche (Taylor, 1983; Taylor, Wood e Lichtman, 1983) su persone che affrontano uno stress grave come il cancro. Questi studi hanno scoperto che i confronti downward (con chi sta peggio) sono molto frequenti; in particolare, le donne con cancro al seno rivelano di affrontare l’evento meglio se mettono a confronto la propria situazione con quella di altre donne “immaginate” che vivono una condizione peggiore della loro. I medesimi risultati sono emersi in altri studi su soggetti afflitti da altre condizioni patologiche.

Insomma, il detto “mal comune mezzo gaudio” sembra avere una sua giustificazione psicologica, soprattutto se gli altri non solo soffrono del nostro male, ma versano in condizioni perfino peggiori. È quello che succede, ad esempio, nel caso del cosiddetto inspirational porn, quell’atteggiamento presente in molti cosiddetti normodotati, che consiste nel porre a confronto la propria condizione con quella di un disabile, per trarne un’opportunità motivazionale. Tale atteggiamento viene espresso con formule del tipo «Se ce l’ha fatta lui/lei, posso farcela anch’io» oppure «Anche se le cose mi vanno male, c’è chi sta peggio di me!».

Sull’inspirational porn ho scritto in un post precedente al quale rimando. L’inspirational porn è la prova definitiva del fatto che gli esseri umani sono disposti a ogni bassezza comparativa pur di sentirsi bene con sé stessi. Il confronto downward può assumere talvolta fattezze davvero ripugnanti!

Riferimenti:

Taylor, S. E., 1983, “Adjustment to Threatening Events: A Theory of Cognitive Adaptation”, American psychologist, vol. 38, pp. 1161-1173.

Taylor, S. E., Wood, J. V., Lichtman, R. R., 1983, “It Could Be Worse: Selective Evaluation as a Response to Victimisation”, Journal of Social Issues, vol. 39, pp. 19-40.

Wills, T. A., 1981, “Downward Comparison Principles in Social Psychology”, Psychological Bulletin, vol. 90, n. 2, pp. 245-271.

Zani, B., Cicognani, E., 2000, Psicologia della salute, Il Mulino, Bologna, pp. 105-106

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La sociologia nel racconto di un celebre scrittore americano

Progressisti, ridicolmente progressisti, perennemente trentaduenni e calvi. È così che lo scrittore americano O. Henry, pseudonimo di William Sydney Porter (1862–1910), amante di calembour e finali a sorpresa, immagina i sociologi nel racconto, qui da me tradotto (potete trovarlo anche qui), apparso nella raccolta Whirligigs del 1910 e intitolato Sociology in serge and straw. È  

Al centro del racconto il surreale incontro/scontro tra upper class e lower class americane all’inizio del XX secolo: la prima, rappresentata dal giovane delfino della ricca casata dei Van Plushvelt, erede di un centinaio di milioni di dollari, istruito da precettori privati ed eternamente indomenicato al pari di un damerino; la seconda incarnata nella figura di “Smoky” Dodson, quindicenne (e mezzo) incontestabilmente sporco e vestito come uno straccione, ma con la passione del baseball, sport che Haywood Van Plushvelt – questo il nome del damerino – non ha mai praticato.

Imbattutisi per caso l’uno nell’altro, i due ragazzi – forse vittime di uno shock culturale o di fraintendimenti dovuti a codici sociali diversi – risolvono le loro incomprensioni con una polverosa e tremenda zuffa di un’ora e un quarto, al termine della quale, riconciliatisi, diventano amici e cementano il loro sodalizio interclassista partecipando a decine di partite di baseball.

Fin qui, l’usurato tema degli adolescenti che si azzuffano per poi diventare compagni di gioco. Ma, come interpretare l’episodio da un punto di vista sociologico? Per il calvo trentaduenne, esso è un segno del progresso, l’araldo di una società in cui non ci saranno più differenze e barriere tra classe e classe, il “sintomo di una generazione in ascesa morale” (uplift), l’annuncio di una nuova fratellanza umana e universale. Al punto che, i ruoli si invertono: Haywood è sul campo di baseball (il “diamante”), vestito da straccione, mentre Smoky indossa gli abiti da damerino e mammoletta del suo nuovo amico.

Ma, dove il sociologo vede progresso e comunità, O. Henry vede l’eterno alternarsi del giorno e della notte, la ciclicità degli eventi della vita, la ricchezza che subentra alla povertà che subentra alla ricchezza. Per lo scrittore americano, l’esistenza ha una natura circolare che porta gli estremi a toccarsi. Un po’ come la Terra, che pure alcuni – i sociologi? – si ostinano a vedere piatta.

Ma, forse, non è altro che una questione di prospettiva. Come il gioco del baseball. Certo, c’è chi vince e c’è chi perde. Alla fine, però, come nel gioco del baseball, chiunque vinca, chiunque perda tornerà sempre a sedere in panchina. Gli opposti si toccano, appunto.

Questa visione circolare della vita spiegherebbe, per O. Henry, anche perché i milionari ritornano alle cose semplici della loro infanzia nell’ultima fase della loro esistenza. O, detta altrimenti, perché si ritorna bambini nella quarta età.

E, allora, ciò che potrebbe sembrare un inarrestabile progresso – come volevano sociologi, educatori e intellettuali della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo – visto da un’angolazione diversa, è solo un ritorno al passato, a una ciclicità che ci sfugge, ma che è sempre in agguato.

Vedere il progresso in ogni evento potrebbe essere, tuttavia, come accenna O. Henry quasi casualmente, la ragione d’essere della sociologia. O almeno della sociologia dell’epoca.

E oggi? Qual è la ragione d’essere di questa “scienza umana”? Ciò che è certo è che i sociologi contemporanei non sono necessariamente progressisti, ridicolmente progressisti, né perennemente trentaduenni e calvi. Le posizioni sono molteplici, talvolta conflittuali. A volte, nemmeno commensurabili.

La costante è che la sociologia continua a essere una disciplina della crisi, di cui incessantemente interpreta cause e ragioni. Ed è probabile che, fino a quando, la sociologia continuerà ad assumere una postura critica nei confronti della società esistente, avremo ancora bisogno della sua voce, anche se stridente, irritante e, talvolta, inattuale.

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“Aiutiamoli a casa loro”

Nel 2017, fu l’allora segretario del Partito Democratico Matteo Renzi a sbandierare quello che è tuttora uno degli slogan più ricorrenti sul tema dell’immigrazione. Prima e dopo di lui, Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, ne ha fatto un emblema della sua politica internazionale, a testimonianza del fatto che le strade di Destra e Sinistra talvolta si incrociano e convergono. Ma anche nel resto d’Europa e del mondo, l’idea espressa dall’ormai celebre “Aiutiamoli a casa loro” è stato condivisa da politici, opinionisti, esperti e cittadini comuni di ogni appartenenza sociale e intellettuale.

È probabile che al suo successo abbia contribuito anche il suo risvolto umanitario. Lo slogan, infatti, suona molto meglio dei programmi che invocano il pugno di ferro sull’immigrazione e non a caso ha acquisito una certa popolarità anche negli ambienti di sinistra, perché associa il tema dell’immigrazione al contrasto alle ingiustizie, alla povertà e alle disuguaglianze.

Del resto, almeno a prima vista, il ragionamento sembra assennato e risponde a una logica semplicissima, se non banale: se aiutiamo i poveri dei Paesi in via di sviluppo a rimanere a casa, questi non avranno più bisogno di emigrare, imbarcandosi in viaggi disperati alla mercé di trafficanti e sfruttatori di ogni tipo, con grande sollievo di governanti e cittadini dei ricchi Paesi occidentali, ossessionati dall’idea che i loro confini siano quotidianamente attraversati da torme di “invasori” stranieri disposti a tutto pur di cambiare aria.

Così, di fronte all’impossibilità di contenere l’immigrazione legale o illegale attraverso un controllo più rigoroso delle frontiere, quale via migliore per ridurre la pressione migratoria che affrontare le “cause profonde”, delle migrazioni, promuovendo lo sviluppo economico nei Paesi di origine dei migranti? Ecco quindi piovere proposte per favorire il commercio e la cooperazione internazionale, fornire aiuti allo sviluppo, promuovere prospettive economiche e pari opportunità, sicurezza e progresso, offrendo denaro e servizi, costruendo scuole e infrastrutture, valorizzando le risorse locali.

Nel 2015, ad esempio, la Commissione Europea creò il “Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa” (valore di oltre 4,5 miliardi di euro, finanziato principalmente attraverso il Fondo europeo di sviluppo) allo scopo di avviare programmi economici che creassero opportunità di lavoro, in particolare per i giovani e le donne, con un’attenzione particolare alla formazione professionale e alla creazione di micro e piccole imprese. Il Fondo era rivolto soprattutto ai Paesi più instabili dell’Africa, fra cui Eritrea, Nigeria, Senegal e altri Paesi di origine di migliaia di migranti. Anche i governi di questi ultimi hanno abbracciato idee simili, esortando i Paesi europei a lanciare una sorta di Piano Marshall per l’Africa.

“Aiutiamoli a casa loro” appare, dunque, come un modo intelligente di risolvere la questione delle migrazioni, eliminando il problema alla radice.  

Ma le cose stanno davvero in questi termini? Sembrerebbe di no.

In primo luogo, perché spesso i tanti programmi salvifici che mirano a promuovere sviluppo e modernità nelle regioni povere del mondo appaiono talvolta poco credibili complessivamente sia per gli “aiuti” modesti che elargiscono, sia per la logica “coloniale” che li caratterizza, per cui l’aiuto diventa un modo per imporre condizionamenti e controlli, sia perché, per funzionare, gli aiuti presuppongono spesso regimi politici locali aperti al liberalismo e al liberismo (cosa niente affatto scontata), sia perché i Paesi destinatari di tali fondi non possono spesso decidere la natura delle iniziative che vengono finanziate, sia perché tali aiuti finiscono spesso con l’arricchire le già prospere élite locali o favorire cicli corruttivi e speculazioni di ogni tipo, che tutto fanno trarre favorire lo sviluppo.

Ma c’è un secondo, forse più importante motivo, per cui il programma “Aiutiamoli a casa loro” non risolve affatto il problema delle migrazioni. Perché, come osserva il sociologo olandese Hein de Haas «è tutta l’idea che il sostegno e lo sviluppo ridurranno la migrazione dai Paesi poveri a essere irrealistica, basandosi su interpretazioni completamente sbagliate delle cause della migrazione» (de Haas, 2024, p. 128).

Addirittura, fa notare de Haas, i fatti e la storia dimostrano senza ombra di dubbio una situazione diametralmente opposta: l’emigrazione, paradossalmente, tende a essere più alta nei Paesi che hanno già raggiunto un certo livello di sviluppo economico, di urbanizzazione e di modernizzazione.

A dispetto di quanto teorizzato dai modelli economici neo-classici, secondo cui il miglioramento nelle condizioni di vita e la diminuzione della povertà favoriscono un decremento dei flussi migratori, la realtà ci dice che i tassi di emigrazione dai Paesi più poveri al mondo, come quelli dell’Africa subsahariana, verso le nazioni occidentali sono molto bassi e che i Paesi con la più alta emigrazione al mondo, Messico, Turchia, Marocco, India e Filippine, sono tutti Paesi a reddito medio.

Più in dettaglio, ciò che emerge a una attenta osservazione è che il rapporto tra sviluppo umano e tassi di emigrazione aumenta «quando i Paesi poveri diventano più ricchi e diminuisce solo quando passano da una condizione di reddito medio a una di reddito alto» (de Haas, 2024, pp. 132-133).

Il fenomeno per cui lo sviluppo economico conduce inizialmente a una crescita dell’emigrazione è noto nella letteratura scientifica, come «transizione della mobilità» o «transizione della migrazione».  Esso fu descritto per la prima volta dal geografo americano Wilbur Zelinsky in un articolo del 1971 intitolato The Hypothesis of the Mobility Transition, «in cui sosteneva che tutte le forme di mobilità interna e internazionale accelerano inizialmente quando le società passano da un assetto rurale-agrario a uno urbano-industriale e attraversano transizioni demografiche» (de Haas, 2024, pp. 133-134).

Ciò vuol dire che se, in un Paese, si verifica la transizione da una società a reddito basso a una a reddito medio, l’emigrazione all’inizio aumenta, per poi decrescere solo quando il Paese raggiunge i livelli più alti di reddito globale.

Ma perché ciò avviene? Perché la crescita economica, migliori strutture scolastiche e infrastrutture portano a un aumento delle capacità e delle aspirazioni a emigrare degli individui. Un reddito più alto, superiore al livello della povertà, accresce la capacità delle persone di procurarsi denaro per pagare biglietti, passaporti, visti, cibo e alloggio, nonché le commissioni da corrispondere a reclutatori e intermediari. Un’istruzione migliore aumenta le potenzialità migratorie perché chi ha competenze e diplomi trova più facilmente lavoro all’estero e può garantirsi un permesso di soggiorno. Chi è povero, invece, non possiede le risorse per pagare gli scafisti, corrompere la polizia di frontiera e trovare alloggio e lavoro nei Paesi di arrivo e, se si sposta, lo fa solo su brevi distanze, fino al villaggio o alla città più vicini.

Lo sviluppo tende ad aumentare anche le aspirazioni delle persone a emigrare. Quando i giovani vanno a scuola, guardano la tv, navigano su Internet, usano lo smartphone, ascoltano la radio, vedono quello che succede nel mondo, il loro orizzonte mentale si allarga e, con esso, il desiderio di andare via dagli ambienti rurali e raggiungere le aree urbane e i Paesi esteri. Inoltre, essere istruiti si accompagna spesso a una certa disillusione nei confronti degli stili di vita tradizionali, ai quali le nuove generazioni preferiscono un futuro diverso.

Ironia della sorte, dunque, osserva de Haas,

costruire una scuola sembra la migliore strategia a lungo termine per svuotare le campagne, perché dopo aver studiato per un certo numero di anni, i giovani non riescono più a immaginarsi come contadini e preferiscono trasferirsi in città, sia nel loro Paese che all’estero. Il desiderio di istruzione è spesso di per sé un motivo per migrare, desiderio che inizia in giovane età se le scuole primarie o secondarie sono assenti nei villaggi e nelle cittadine. Una volta che i giovani terminano la scuola secondaria, sono più propensi a migrare in un altro luogo per proseguire con l’università. E una volta laureati, ci sono buone probabilità che dovranno spostarsi nuovamente per trovare un lavoro che corrisponda alle loro aspirazioni e qualifiche (de Haas, 2024, p. 140).

Dati alla mano, in conclusione, l’idea che lo sviluppo economico costituisca il rimedio più efficace per risolvere le cause profonde della migrazione si basa su presupposti del tutto inesatti. In realtà, a mano a mano che la povertà diminuisce e redditi e istruzione aumentano, l’emigrazione cresce perché crescono contemporaneamente il desiderio e le capacità delle persone di migrare.

Le società che si trovano nel mezzo della transizione da economie agrarie-rurali a economie industriali-urbane producono il più alto volume di migrazione internazionale e da contesti rurali a urbani. Solo quando una società passa da un reddito medio a uno più alto, la migrazione da aree rurali a urbane tende a rallentare. Una volta che una nazione ha raggiunto lo status di reddito alto, il desiderio di trasferirsi all’estero diminuisce perché più persone sono in grado di realizzare le loro aspirazioni di vita rimanendo a casa.

Superato un punto critico di sviluppo economico, i tassi di emigrazione cominciano a decrescere e il Paese inizia ad attrarre lavoratori provenienti da Paesi più poveri (de Haas, 2024, p. 143).

Ciò significa forse che i Paesi ricchi dovrebbero smettere di aiutare i Paesi poveri, istituendo programmi per favorirne lo sviluppo? Ovviamente, no. Ma è importante capire che la transizione migratoria è un processo lungo, che può provocare un’attenuazione dei tassi di migrazione solo nel lungo periodo, e che richiede diverse generazioni per potersi completare. È un’illusione, dunque, pensare che fornire aiuti nel presente possa portare a un’interruzione delle migrazioni nel presente. Un fatto che i politici spesso non considerano (o non vogliono considerare), abbacinati dalla necessità di risolvere tutto nei tempi brevi dei loro mandati, e i cittadini non colgono, affascinanti dall’apparente risolutezza dello slogan e luogo comune “Aiutiamoli a casa loro”.

Riferimenti

De Haas, H., 2024, Migrazioni. La verità oltre le ideologie. Dati alla mano, Einaudi, Torino, pp. 125-146.

Zelinsky, W., 1971, “The Hypothesis of the Mobility Transition”, Geographical Review, vol. 61, pp. 219-249.

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Pier Paolo Vergerio, critico del rosario

Potrà sorprendere qualcuno, ma i più feroci avversari del rosario si trovano non tra atei inveterati e blasfemi miscredenti, ma tra gli stessi religiosi, sia cattolici sia di altre confessioni cristiane e religioni.

Un posto di primo piano, al riguardo, spetta ai protestanti. Martin Lutero, ad esempio, considerava il rosario una preghiera monotona e ripetitiva in totale contrasto con il celebre versetto evangelico in cui Gesù dice: “Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole” (Matteo 6,7).

Lutero avversava il rosario anche per un’altra ragione: se questa preghiera diventava un’opera praticata per guadagnarsi la salvezza, essa era del tutto inutile e dannosa, come tutte le opere. Per il riformatore tedesco, è la fede a salvare, infatti, non le opere.

Infine, un ulteriore motivo di attrito era dato dalla stretta associazione del rosario con la vendita delle indulgenze, che trasformava questo in una preghiera superstiziosa e offensiva verso Cristo e la Chiesa cattolica in una squallida agenzia di compravendita.

Tra i protestanti italiani che hanno espresso parole di fuoco contro il rosario è opportuno ricordare Pier Paolo Vergerio, considerato l’alfiere dell’evangelismo italiano.

Vergerio nacque nel 1498 a Capodistria (Istria), allora territorio della Repubblica di Venezia. Come quasi tutti i suoi fratelli, si dedicò alla carriera ecclesiastica, giungendo rapidamente ai vertici tanto da ottenere, nel 1536, il vescovato della sua città natale.

Quella che sembrava una folgorante carriera ecclesiastica subì una brusca interruzione quando, nel 1544, fu presentata all’Inquisizione veneziana una denuncia per eresia ai suoi danni. La denuncia aveva un suo fondamento in quanto Vergerio aveva cominciato a frequentare ambienti non ortodossi da un punto di vista religioso. In seguito, nel 1549, fu costretto a lasciare l’Italia per non farvi più ritorno.

Per sua fortuna. Il religioso capodistriano fu, infatti, condannato per eresia su 34 punti, deposto dalla sua dignità episcopale e reso passibile di arresto se si fosse ripresentato in Italia. Da allora, Vergerio si fece promotore di una serie di iniziative polemiche contro il papato e cominciò a dare alle stampe alcuni dei suoi pamphlet più importanti.

Morì a Tübingen, il 4 ottobre 1565.

Vergerio fu tra gli autori più prolifici della cosiddetta “Riforma italiana” e fu autore di numerose pubblicazioni, spesso di taglio polemico. Le sue opere annoverano: accusationi, lettere, discorsi, comparationi, confutationi, orationi, difensioni, retrattationi, risposte, trattatelli e così via.

Tra i suoi interventi polemici contro il devozionismo religioso, oltre a un famoso sermone contro le immagini sacre, troviamo un pamphlet contro il rosario, intitolato A quegli Venerabili Padri Dominicani, che difendono il Rosario per cosa buona (1550). Di questo è opportuno dire qualcosa.

Perché Vergerio avversa il rosario?

Bersaglio della sua invettiva sono soprattutto i domenicani, gli appartenenti all’ordo praedicatorum, da lui definito “disordine” «favorito hoggidì nel Regno Papesco, più che quegli de tutti gli altri fratti».

Per Vergerio i domenicani «per ambitione, per avaritia, per conservarvi le commodità del ventre», difendono ogni sorta di bugia e sono «impiissimi nemici et persecutori della pura dottrina che Giesù Christo insegnò, et gli santi Apostoli insegnarono, et palesi et impudenti difensori delle hipocrisie, delle idolatrie et delle false dottrine».

Tra i numerosi «culti falsi et dottrine false, vergognose et indefensibilissime» professate dai domenicani, Vergerio annovera il rosario. Demerito di quest’ultimo è quello di essere una preghiera del tutto contraria a quel «modo di orare, puro et semplice» insegnato da Cristo nei Vangeli. Quest’ultimo – come fa notare anche Lutero in riferimento a Matteo 6, 7 – «specialmente riprese la longhezza et il multiloquio, et volle che si dovesse haver l’animo attento alle dimande che in quella sua divina oratione sono et promesse di essaudire cui havesse pregato il Padre in nome di esso Figliuolo».

La più grande menzogna è costituita dalla “pia leggenda” secondo cui la Madonna avrebbe consegnato direttamente a san Domenico il rosario nel corso di un’apparizione spettacolare. La leggenda racconta che

Dominico predicava in Tolossa et vedendo di non poter far tutto, si lamentava con la Vergine Maria, et che ella li disse: «Predica il mio Rosario, cioè insegna che si habbiano a dire centocinquanta Ave Marie et quindeci Pater Nostri, tenendo la mente et il pensiero ad altro intento che alle parole della oratione da Christo insegnata et farai tutto», et […] fra Dominico si puose a predicare quel Rosario et fece tutto grandissimo.

Perché «questa per prima è una favola, è un inganno, una dottrina o moneta falsa»? Perché se la predicazione del rosario fosse cosa davvero buona e utile, afferma Vergerio, la Madonna non avrebbe tardato «per lo spacio di MCCL anni, a far intendere quel così eccellente modo […] di poter far frutto».

Altro mistero. Perché dopo la morte di Domenico di Guzman, una devozione così divina fu «intermessa et dimenticata» fino a 200 anni dopo, quando di nuovo la Madonna incaricò il frate bretone Alano della Rupe di riformare il mondo tramite il rosario «et comandò a colui che in honore di lei lo andasse predicando nel modo che fra Domenico fatto haveva»? Tutto questo appare a Vergerio come una “favolazza” «nella quale voi fate l’humilissima ancilla di Christo così ambitiosa et superba che ella vogli le laudi per sé, e così impia che vogli mutare et alterare la dottrina di suo Figliuolo et riformare ella il mondo con nuovi et superstitiosi modi».

Vergerio condanna, fra l’altro, il modo in cui Alano della Rupe – da molti ritenuto oggi il vero “inventore” del rosario domenicano – descrive il suo rapporto con la madre di Gesù, giudicandolo turpe e osceno. Alano, infatti, dice che la Madonna «salutando[lo], et con la sua santissima mano fatto un anello degli propri capelli quello sposò, et detegli un bascio vergineo». E ancora: «La Sacra Vergine lo sposò per suo sposo devoto, et dateli a lattare il suo sacro latte dalle sue sacratissime mammelle, et il bascio vergineo li concesse, et li fu familiare come la sposa al sposo». In effetti, sembra di poter commentare con Vergerio: «Vi paiono queste cose da scrivere della Santissima Vergine, et da dare a leggere a popoli?».

Da buon protestante Vergerio biasima anche l’idea che la recita del rosario possa servire per la salvezza delle anime dei defunti, soprattutto se i nomi dei defunti sono iscritti negli elenchi delle cosiddette confraternite del rosario, che, all’epoca di Vergerio, avevano cominciato a sorgere numerose:

Et quando li prieghi de’ viventi potessero giovare a’ morti (ché non possono, dite quel che volete) che gofferia è questa, che bisogna scrivere i nomi loro nelle confraternità se debbono giovare, dove l’avete trovata o sognata? Ma il bello è che poco dopo si dice che fa mestiero che que’ nomi siano scritti a mano di uno de vostri frati, et che ogn’uno che è così scritto partecipa de’ tutti li beni, li quali fanno tutti i fratelli della compagnia del Rosario, et che partecipare non possono co’ loro, li nomi de’ quali non sono con que’ modi scritti.

Vergerio trova scandalosa la consuetudine di acquistare le corde «de Paternostri et d’Avemarie» (come si chiamavano allora i rosari), per farle benedire dai frati domenicani sull’altare. Il suo commento:

Dove havete voi trovato, che nel Christianesmo se habbiano a fare queste bagatelle, di metter tanto numero de legnetti infilzati in una corda sopra l’altare, et fare che un frate con una stola al collo si metta a scongiurarli et incantarli, et dire quelle inettie et impietà, che egli prega Dio che in que’ legni infonda la virtù dello Spirito Santo? O vergogna! Et anchora non vi muoverete a far stracciare et abbruggiare queste gofferie?

Altrettanto riprovevole è l’uso del rosario in funzione apotropaica, quasi fosse un amuleto magico, nella convinzione che: «Chi porterà addosso, o tenerà quelle baie in casa, sarà difeso dalle aversità in questo mondo, et nell’altro harrà il paradiso».

Molto luterana è la condanna dell’associazione alla recita del rosario delle «grandissime indulgentie, le quali […] conseguiscono coloro che su que’ legni da voi scongiurati fanno oratione».

Assolutamente da condannare, poi, l’invenzione dei tanti miracoli attribuiti alla recita del rosario. Vergerio cita i miracoli dell’adultero “rinsavito” dopo che la moglie, su suggerimento di san Domenico, ebbe infilato «la corda delle Avemarie sotto il capezzale dove dormiva il marito»; del cavaliere che uccise tutti i suoi nemici grazie all’intervento della Madonna sollecitata dalla preghiera del rosario; della «giovane alla quale un lupo mangiò tutte le interiora et senza di esse visse tre giorni et hebbe questa gratia perciocché ella diceva il rosario».

Si tratta, afferma il capodistriano, solo di «favole, anzi incantamenti et diavolerie» insegnate impropriamente al popolo al posto del Vangelo; artifizi per distrarre i credenti «semplici et idioti» dalla portata universale del messaggio di Cristo e indottrinare i fedeli in modo non conforme all’insegnamento di Gesù; «ribalderie» per i semplici dietro le quali si scorgono «l’empietà, gl’inganni de’ papisti… gli errori e le idolatrie del regno dell’Antichristo».

L’argomento principe dell’invettiva vergeriana si trova a conclusione del pamphlet, quando l’ex vescovo osserva:

voi dite queste parole: «Imperocché senza lo aiutorio di Maria Vergine non si può pervenire alla salute». Chi vi pare di questa conclusione? Con la quale loica vi bastarebbe l’animo di poterla provare? O improdentissimi falsarii della vera dottrina di Christo! Adunque egli con tutto il suo sangue sparso, et con tutta la sua acerbissima morte, non ne può salvare, se noi non andiamo alla Madonna che ci salvi essa? Voi mentite, se volete ciò affermarre, et ingannate et assassinate le anime delle genti.

In altre parole, è blasfemo anteporre la Madonna al Cristo come strumento di salvezza, dimenticando tutto il sangue versato da Gesù per l’umanità intera.

In conclusione, per Vergerio, il rosario è una preghiera contraria all’insegnamento di Cristo; che si regge su una leggenda assurda e priva di fondamento; induce un atteggiamento superstizioso, che porta ad associare a una stringa di oggetti poteri miracolosi e apotropaici, oltre che innumerevoli quanto inutili indulgenze (altra biasimevole invenzione della Chiesa cattolica). Il rosario rafforza la credenza in un inesistente purgatorio, ma, soprattutto, blasfemia delle blasfemie, rende la madre di Gesù più importante di Cristo stesso. Costituisce, infine, un esercizio di abuso della credulità popolare, attraverso cui il “disordine” domenicano spaccia al popolino ogni sorta di fole per persuaderlo a conformarsi alle credenze da esso sostenute.

Una condanna radicale, dunque, della più celebre devozione popolare cristiana ancora oggi esistente, proveniente da un cristiano, seppure non cattolico. In questo atteggiamento di disapprovazione, Pier Paolo Vergerio non era solo tra i protestanti. Sempre in Italia, possiamo ricordare la figura più recente di Tito Signorelli (1875-1958), autore de Il Rosario. Studio storico-critico (1932), testo ormai introvabile, ma decisamente interessante al riguardo.

Le opere di Vergerio e di Signorelli non sono certamente capolavori della letteratura religiosa. La loro “minorità” è accresciuta dal fatto che sono strali velenosi lanciati contro la più importante devozione extraliturgica concepita dalla Chiesa di Roma. Sono, però, testimonianze importanti di un modo diverso di vedere un oggetto apparentemente umile e dimesso come il rosario, che vanta ancora oggi un’importanza straordinaria per milioni di credenti cattolici nel mondo.

Fonte: A quegli Venerabili Padri Dominicani, che difendono il Rosario per cosa buona (1550) in Vozza, V. (a cura di), 2019, Antologia vergeriana. Scritti minori del “vescovo di Cristo”, Aracne Editrice, Ariccia (RM), pp. 49-89.

A chi volesse saperne di più sugli intricati significati del Rosario, raccomando il mio libro La sacra corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).

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“Mussolini ha fatto anche cose buone”

Un controverso giudizio politico? Una discutibile espressione nostalgica? Un tentativo di riabilitare una pagina oscura della storia d’Italia? C’è indubbiamente tutto questo. Ma “Mussolini ha fatto anche cose buone” è oggi soprattutto un tormentone molesto, una locuzione annidata nei recessi più reconditi del cervello, un luogo comune che, nel migliore dei casi, non esprime altro che una banale ovvietà. Anche se pochi se ne rendono conto. Forse perché il ripeterla frequentemente genera quello che gli psicologi definiscono “effetto familiarità”: il fatto di reiterare determinate parole fa sì che esse, al di là del loro significato, entrino a far parte del bagaglio di conoscenze consuete degli individui, acquisendo una connotazione positiva che rende estremamente difficile liberarsi criticamente del contenuto ripetuto, soprattutto se la ripetizione incessante inizia nell’infanzia (Cialdini, 1995). E liberarsi criticamente di “Mussolini ha fatto anche cose buone” è estremamente difficile.

La frase ha (almeno) due livelli di lettura: il primo ha una valenza retorico-politica; il secondo una valenza “apodittica”, nel senso che esprime una verità talmente evidente e banale che i più ne sono abbagliati e non riescono a scorgerla, così come i personaggi del racconto di Edgar Allan Poe (1809-1849) La lettera rubata (1845) non riuscivano a scorgere la lettera che pure era lì, in bella mostra davanti a loro. Vediamo perché.

In base al primo livello, la frase viene pronunciata per ragioni di interesse politico: per far passare, cioè, l’idea che, tutto sommato, il fascismo fu un periodo apprezzabile, da cui gli italiani trassero “anche” importanti benefici. Dire “Mussolini ha fatto anche cose buone” diventa, così, il primo passo per riabilitare retoricamente il fascismo e renderlo, in qualche modo, accettabile. Facendo leva sulla parola “anche” che, di per sé, dovrebbe comunicare un’aggiunta residuale – Mussolini fece alcune “cose buone” in aggiunta alle tante “cose cattive” – questa lettura propone, in realtà, un subdolo scivolamento semantico per cui quella che dovrebbe essere una mera particella aggiuntiva finisce con l’acquisire il significato dell’avverbio “soprattutto”, assegnando alla frase un significato opposto a quello che prima facie dovrebbe avere.

Chi ripete il ritornello delle “cose buone” fatte da Mussolini per ragioni politiche farà notare, ad esempio, che Mussolini “ci diede le pensioni, la tredicesima e la Cassa Integrazione”, “bonificò le paludi”, “costruì strade, scuole, case”, “sconfisse la mafia e la corruzione”, “fece arrivare i treni in orario”, “diede ordine e sicurezza all’Italia” e via dicendo. Così, attraverso la figura retorica dell’accumulazione, mettendo insieme meriti eterogenei, reali o presunti, creerà un efficace effetto argomentativo che persuaderà l’interlocutore più superficiale della “bontà” dell’opera del Duce.

Ricorrendo, poi, alle figure retoriche dell’ellissi (che consiste nell’omissione di qualche elemento che resta comunque sottinteso nella frase) e della reticenza (che consiste nell’improvvisa interruzione di un messaggio con la soppressione di una sua parte), il ripetitore del ritornello tralascerà di menzionare le (molto maggiori) cose “non buone” fatte da Mussolini: il ricorso sistematico allo squadrismo, le continue pratiche di violenza e demagogia, i brogli, le intimidazioni e le rappresaglie contro gli oppositori (come l’uccisione di Matteotti), la repressione della libertà di organizzazione, i partiti messi fuori legge, l’abolizione dei sindacati, la proibizione di scioperi e serrate.

Più in generale, lo stesso “dimenticherà” (o farà finta di dimenticare) che il fascismo impose un regime totalitario, un regime, cioè, caratterizzato dal controllo assoluto e capillare dello stato sui cittadini, in ogni aspetto della loro vita. Questo controllo si manifestò attraverso la repressione, la centralizzazione del potere in un unico individuo o partito, l’assenza di libertà e pluralismo; un controllo assoluto sulla stampa e la soppressione dei giornali di opposizione; una insofferenza estrema nei confronti di qualsiasi forma di critica al governo, allo Stato e ai loro rappresentanti; la reintroduzione della pena di morte per i reati contro la sicurezza dello Stato; l’istituzione di un tribunale speciale per giudicare i delitti contro lo Stato e il regime. Tutte cose che, per noi, abituati a vivere in un regime democratico, sarebbero intollerabili, e che superano per importanza ogni possibile aspetto positivo del fascismo.

A questo punto, il sostenitore del “buonismo” di Mussolini ricorderà, forse, che il fascismo proclamò le leggi razziali del 1938 e l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale nel 1940, fatti che, aggiungerà invocando la logica dell’eccezione, sarebbero, in fondo, le uniche due pecche addebitabili al Duce. Ma ometterà inevitabilmente di dire (anche per ignoranza) che le “cose buone” attribuite al leader fascista, a ben vedere, così eccezionali non furono.

Come osserva lo storico Francesco Filippi, ad esempio, la convinzione che Mussolini ci abbia dato le pensioni è un falso perché il sistema pensionistico in Italia risale al 1895, quando Crispi era capo del Governo, e ben prima del Ventennio erano già stati approvati una serie di provvedimenti assistenziali e previdenziali. Non è neanche corretto affermare che Mussolini abbia istituito la tredicesima. In realtà, questa fu concessa solo agli impiegati del settore industriale, in un contratto collettivo nazionale che imponeva due ore di lavoro in più al giorno “per particolari mansioni”, oltre le dieci già previste. Fu solo nel 1960 che il beneficio della mensilità in più fu estesa a tutti i lavoratori (Filippi, 2019, pp. 7-17).

Solo parzialmente vera è l’idea – anche questa considerata da alcuni una verità inconfutabile – secondo cui Mussolini riuscì nell’impresa di bonificare i terreni paludosi italiani. In realtà, su otto milioni di ettari di terreni bonificabili, il leader fascista riuscì a portare a termine poco più del 6% del lavoro preventivato, nonostante il lancio di un immenso battage propagandistico di cui ancora oggi conserviamo memoria (Filippi, 2019, pp. 18-30).

Frutto di una capillare opera di censura della stampa e di uno stretto controllo sull’informazione circolante in Italia, è l’idea, giudicata da molti una verità assoluta, secondo cui “quando c’era Lui, i treni arrivavano sempre in orario”. In realtà, in epoca fascista, tutte le notizie riguardanti scandali, omicidi insoluti, malagestione della cosa pubblica, inadempienze governative ecc., che potevano mettere in cattiva luce l’operato del Governo e delle forze dell’ordine, venivano rigorosamente censurate, al punto che gli italiani finirono con il credere che certe cose non avvenissero mai o quasi. Accadde, così, che la mancata notiziabilità di alcuni eventi coincise con la loro “scomparsa”. Tra questi, il fatto che i treni arrivassero in ritardo o che vi fossero reati rimasti impuniti. L’opera efficacissima della propaganda cancellò dalla mente delle persone del tempo l’idea che in Italia avessero luogo “cose brutte” (Filippi, 2019, pp. 120-121).

Insomma, attraverso un abile lavoro retorico, che si regge su accumulazioni, reticenze, ellissi, slittamenti semantici, opportuni oblii e ignoranza, il primo livello di lettura del luogo comune secondo cui “Mussolini ha fatto anche cose buone” propone una interpretazione interessata e di parte della frase, le cui finalità sono comunque scoperte e trasparenti: assolvere il fascismo dalle sue macchie ed esaltarne i meriti.

Al contrario, il secondo livello di lettura – quello che ho denominato “apodittico” – è paradossalmente meno facile da cogliere, nonostante la sua assoluta evidenza.

Pensiamoci bene. Il fascismo ha governato l’Italia per vent’anni e si è retto su un consenso di massa indubitabile, seppure non universale e non sempre costante. Ora, non è possibile governare un paese per vent’anni senza fare delle cose che possono risultare utili (“buone”) ai cittadini. Nemmeno il tiranno più sadico o crudele riuscirebbe in un’impresa del genere (forse neppure un idiota). Ad esempio, un dittatore come Stalin (1878/79-1853), che stabilì un vero e proprio regno del terrore e fu responsabile della morte di milioni di persone, riuscì a promuovere, sebbene a carissimo prezzo, la trasformazione radicale della struttura economica russa attraverso la collettivizzazione dell’agricoltura e l’avvio a tappe forzate del processo di industrializzazione del paese. Augusto Pinochet (1915-2006), autore di crimini atroci contro l’umanità, diede impulso alla vita economica del Cile, facendolo progredire industrialmente (almeno in parte). Il leader libico Muammar Gheddafi (1942-2011), giunto al potere dopo un colpo di stato e accusato di crimini contro l’umanità, ha rilanciato l’economia libica e realizzato colossali infrastrutture, fra cui un acquedotto di tremila chilometri che pompa l’acqua fossile del Sahara fino alla costa libica.

A parte ciò, è noto che dittatori e tiranni – personaggi spesso egocentrici, maniacali, narcisisti e demagogici – amano “fare cose”, se non altro per mostrare il loro valore ai contemporanei e ai posteri o anche solo per autocelebrarsi. Opere pubbliche (come la costruzione dell’EUR), iniziative paternalistiche a favore del popolo, provvedimenti riguardanti l’assistenza dei più poveri, innovazioni legislative radicali che spesso rispondono al comune sentire sono da sempre il marchio di fabbrica di despoti e autocrati. È inevitabile, dunque, che essi facciano anche “cose buone”, cose, cioè, che hanno ricadute positive sulle masse, talvolta anche loro malgrado. Ad esempio, Mussolini dedicò i suoi sforzi all’opera di bonifica dei terreni paludosi soprattutto nell’interesse della borghesia agraria, ma ciò non toglie che tale opera ebbe ricadute positive anche sui semplici cittadini.

Allo stesso modo, il fatto che Mussolini non abbia “inventato le pensioni” non significa che non abbia sviluppato le politiche previdenziali e assistenziali già in atto prima del suo avvento, attraverso, ad esempio, l’istituzione dell’INFPS (la futura INPS), che diede lavoro a circa 8000 persone nel 1941, tanto che lavorare per questo ente «divenne un sogno per una buona fetta della piccola borghesia impiegatizia, zoccolo duro di consenso al fascismo» (Filippi, 2019, p. 12). Misura clientelare? Demagogia populistica? Senz’altro. Ma ciò non toglie che tanti italiani ne trassero una importante fonte di occupazione e di reddito.

Il Codice Rocco – il codice penale approvato in piena epoca fascista nel 1930 – è ancora oggi in vigore, nonostante numerose modifiche, a dimostrazione del fatto che alcune “cose” sono sopravvissute al regime e vengono considerate ancora “buone” attualmente. Il complesso urbanistico dell’EUR, già citato, fu concepito in vista dell’esposizione universale del 1942, che avrebbe consentito di celebrare i vent’anni della marcia su Roma e accreditare ulteriormente il regime al cospetto del mondo. Eppure, esiste ancora oggi.

Se Mussolini abbia fatto o no cose buone è, dunque, un falso problema. Chiunque sia al potere “fa cose”, se non altro per attribuirsi meriti e onori. E alcune di queste “cose” finiscono con l’avere un qualche impatto positivo sulla popolazione. Mussolini non sfugge a questa considerazione. E non c’è nemmeno bisogno di scomodare l’altro luogo comune degli “italiani, brava gente”, secondo cui gli italiani sarebbero naturalmente inclini alla benevolenza e immuni dalla disumanità verso il nemico in guerra, a differenza di altri popoli (Del Boca, 2005).

Il problema sorge quando questa ovvia, banale, apodittica verità – tutti i potenti, perfino i dittatori, “fanno cose”, anche “buone” – diventa un’arma retorica al servizio di interessi politici che vorrebbero redimere, se non glorificare, periodi oscuri della storia per riproporne programmi e contenuti.

Per questo, dobbiamo sempre guardarci da chi sostiene con convinzione che Mussolini ha fatto anche cose buone. Ciò può essere vero, per le ragioni sopra menzionate. Anzi, è “ovviamente” vero. Ma non deve essere motivo di assolvimento di colpe e riabilitazione morale. Il rischio è quello di far rientrare subdolamente dalla finestra norme, valori, tentazioni e suggestioni già condannati e allontanati a pedate dalla porta della storia.

Riferimenti

Cialdini, R. B., 1995, Le armi della persuasione, Giunti, Firenze.

Del Boca, A., 2005, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza.

Filippi, F., 2019, Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, Torino

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Preghiere e neuroscienze

A chi ci si rivolge quando si prega? Chi è l’interlocutore delle orazioni che, quotidianamente, i credenti recitano in tutto il mondo? La domanda è più che legittima, se si pensa che il destinatario delle preghiere è invisibile e inattingibile ai sensi. Forse la preghiera è il precipitato di un’illusione eterna quanto l’umanità e il suo interlocutore nient’altro che un ente immaginario o addirittura una parte della nostra psiche (il Super-io freudiano) proiettata all’esterno di noi stessi. O, forse, come sostengono i credenti, un ente superiore esiste davvero, anche se non possiamo vederlo.

Per Uffe Schjoedt e i coautori di “Highly religious participants recruit areas of social cognition in personal prayer” (2009), è possibile fornire una prima risposta a questi interrogativi adoperando i metodi delle neuroscienze. I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica (MRI) il cervello di un gruppo di giovani cristiani danesi di confessione luterana (20 soggetti in tutto: 6 maschi e 14 femmine), impegnati in cinque compiti: recitare preghiere altamente formulaiche (come il Padre Nostro), recitare preghiere spontanee, recitare formule non religiose (ad esempio, una filastrocca), recitare pensieri spontanei (ad esempio, dei “pensierini” per Babbo Natale), pronunciare espressioni non linguistiche (contare da 100 in giù). I tre compiti finali sono stati concepiti come formule di controllo. Lo scopo era indagare quali aree neurali del cervello si attivassero e come durante l’esercizio devozionale.

A ogni soggetto è stato chiesto di dedicare 30 secondi a ognuno dei cinque compiti e ogni compito è stato ripetuto sei volte. Ai soggetti è stato anche chiesto di eseguire ogni compito interiormente con gli occhi chiusi e con la massima concentrazione.

Il risultato finale mostra, per adoperare le parole degli autori, che i soggetti dell’esperimento hanno attinto «alle aree della cognizione sociale nell’esecuzione della preghiera personale, il che fa pensare che pregare Dio sia una esperienza intersoggettiva paragonabile a una “normale” interazione interpersonale». Detto altrimenti, chi prega si rivolge al suo Dio come si rivolgerebbe a un amico o, comunque, a un umano. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, secondo Uffe Schjoedt, il cervello umano non si è evoluto per comunicare con enti invisibili e soprannaturali. Al contrario, il cervello umano si è evoluto per far fronte alle sfide poste dall’ambiente circostante, per sopravvivere alle minacce dei predatori e interagire con altri esseri umani.

Ciò potrebbe voler dire che, non essendo neurologicamente attrezzati per avere a che fare con un Dio, ci illudiamo di comunicare con lui (o lei) quando preghiamo, ma, in realtà, siamo impegnati in un compito molto umano in cui ci rivolgiamo ad altri umani.

Le neuroscienze potrebbero, dunque, dirci che quella di Dio è una questione illusoria e che rivolgersi a un’entità soprannaturale è come rivolgersi a un amico immaginario.

Uffe Schjoedt e gli altri autori dell’articolo sono, in realtà, consapevoli che questa conclusione è azzardata. Nessuna neuroscienza è in grado di rispondere all’eterno interrogativo riguardo l’esistenza o no di Dio. La risposta che esperimenti del genere ci danno, però, è che le attività di comunicazione con altre dimensioni sono codificate dal nostro cervello in maniera umana. Forse, troppo umana per non destare qualche sospetto.

Per altre riflessioni sulle preghiere, rimando al mio libro La sacra corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).

Fonte: Uffe Schjoedt, Hans Stødkilde-Jørgensen, Armin W. Geertz, Andreas Roepstorff, 2009, “Highly religious participants recruit areas of social cognition in personal prayer”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, vol. 4, n. 2, pp. 199-207.

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“Come sei diventato grande!”

È un fatto che non finisce mai di stupirci. Incontriamo per caso qualcuno che non vedevamo dalla sua infanzia o poco oltre ed esclamiamo sconcertati: «Come sei cresciuto!» oppure “Come sei diventata grande!”. La sorpresa è autentica, ma il fatto che un bambino si sia trasformato in adolescente o una bambina in giovane adulta non dovrebbe essere la cosa più ovvia del mondo? Sarebbe strano il contrario: una bambina che rimane sempre tale, un bambino che non diventa mai grande. E allora perché ci meravigliamo al punto da restare a bocca aperta?

Lo stesso accade quando ci capita di incontrare un amico/a che non vedevamo da tempo e che ci appare inevitabilmente più vecchio/a. In questo caso, non commentiamo, di solito, il cambiamento per “buona educazione” o, se lo facciamo, adottiamo un tono di scherzo o di rassicurazione (“Non sei cambiato per nulla!”, “Sei sempre la stessa!”). Lo stupore per quel volto trasformato dal tempo, però, rimane. A tal punto che spesso siamo indotti a fugaci, quanto grevi, riflessioni sul trascorrere degli anni. Come si spiega tanto sbalordimento di fronte a un processo così prevedibile? Per quale motivo rimaniamo turbati di fronte a ciò che dovremmo già sapere, ossia che il tempo avanza inesorabilmente per tutti?

È possibile ipotizzare varie spiegazioni.

Una di queste ha a che vedere con la psicologia cognitiva e in particolare con quel fenomeno che va sotto il nome di “euristica dell’ancoraggio” (Kahneman, 2013; Rumiati, Bonini, 2001). Con questo termine, si intende il fatto che le persone tendono ad affidarsi alle prime informazioni acquisite, comprese le prime immagini, che fungono da ancora quando, in seguito, si tratta di prendere una decisione o formulare un giudizio. L’immagine percepita per prima esercita l’effetto di un vincolo mentale e condiziona ogni valutazione successiva. L’ancoraggio è un meccanismo talmente efficace che persino l’introduzione di nuove informazioni rimane arenata alla valutazione originale, definendo un circolo vizioso conservatore in cui qualsiasi revisione riesce ad annullare completamente il giudizio iniziale solo con estrema difficoltà. È una conseguenza della natura conservatrice del pensiero umano. Un esempio classico sono le “prime impressioni” che le persone si fanno degli altri: queste, di solito, sono estremamente coercitive e occorrono molte nuove informazioni per superarle e giungere a un giudizio più aderente alla realtà. È stato dimostrato, fra l’altro, che la consapevolezza del problema dell’ancoraggio non è un antidoto adeguato ai suoi effetti. In alcuni esperimenti, si è notato che i pregiudizi persistono anche dopo che i soggetti del gruppo sperimentale ne sono stati informati e hanno ricevuto l’indicazione di cercare di evitarli o porvi rimedio (Heuer Jr., 1999, pp. 151-152).

Allo stesso modo, l’immagine del bambino o dell’amico che non vediamo da tempo si impone alla nostra mente come un’ancora o un punto di partenza rispetto al quale formuliamo ogni successiva valutazione. La percezione è condizionata dall’immagine precedente “più giovane” sulla quale agisce conflittualmente l’immagine attuale, producendo un momentaneo cortocircuito psicologico, di solito ricomponibile in poco tempo, che suscita sconcerto e confusione.

Un’altra possibile spiegazione, sempre in tema di psicologia cognitiva, chiama in causa la cosiddetta “euristica della disponibilità” (Sutherland, 2010). Anche questa è una scorciatoia mentale che adoperiamo al momento di compiere una decisione o esprimere una valutazione.  Si basa sul presupposto implicito secondo cui ciò che viene facilmente richiamato alla mente tramite il ricordo o l’immaginazione – ed è, dunque, “disponibile” alla coscienza –, viene ritenuto per ciò stesso importante fino a essere assunto come criterio di riferimento e confronto. In sintesi, gli individui tendono a orientare le proprie valutazioni sulle persone e sulle cose in base alle impressioni, informazioni o immagini che si presentano per prime alla mente. Tale disponibilità inganna il cervello inducendolo a credere, in assenza di altre informazioni o immagini, che le cose stiano e saranno sempre così, anche se il cervello sa razionalmente che ciò non può essere vero. In presenza di ulteriori informazioni o immagini, invece, queste vengono soppesate, per così dire, in riferimento alle informazioni o immagini conservate in memoria. L’esito è una sensazione di straniamento che indugerà per qualche secondo fino a che ricordo e percezione attuale non giungeranno a un qualche tipo di compromesso, accompagnato spesso da pensierose considerazioni sul tempo che trascorre velocemente.

Così, il confronto tra l’immagine precedente del bambino, che la nostra mente recupera agevolmente essendo immediatamente disponibile alla coscienza, e quella attuale del giovane adulto genera una sensazione perturbante. Sebbene siamo razionalmente consapevoli che il bambino non poteva non diventare grande, il fatto che non lo abbiamo visto crescere gradualmente induce in noi un senso di sorpresa perché il processo di sviluppo è avvenuto senza che ne siamo stati testimoni. È stata, per così dire, sottratta alla nostra psiche una fetta di vita di quella persona e abbiamo bisogno di un po’ di tempo per colmare la distanza tra il prima e il dopo maturata, nel frattempo, nel nostro cervello. Lo stesso avviene quando incontriamo dopo tanto tempo un amico che appare irrimediabilmente incanutito. L’immagine che si presenta alla nostra mente – l’immagine mentalmente “disponibile” – è quella dell’amico giovane che conserviamo dall’ultima volta che l’abbiamo visto e che, improvvisamente, contrasta con l’immagine attuale, destando inevitabilmente stupore e turbamento.

Agisce poi indubbiamente la cosiddetta “legge psicologica dell’inerzia” (Gilovich, 1993) ovvero la tendenza a restare attaccati alle prime opinioni, rifiutando di cambiare prospettiva rispetto a determinate convinzioni, anche in presenza di forti ragioni contrarie. Questa tendenza, che si basa sul principio dell’economia mentale per cui il cervello umano tende ad evitare, quando possibile, l’elaborazione ex novo delle informazioni ricevute, fa sì che, nella mente umana, esistano degli schemi che rifiutano i dati contrastanti, se non nel momento in cui quegli schemi non sono più possibili, per esempio quando la mole di informazioni è troppo grande o quando le informazioni possedute non reggono al confronto con la realtà. Questa “legge” spiega perché gli esseri umani rimangono spesso attaccati a idee che pure sembrerebbe più logico modificare. Spesso, ad esempio, abbandonare una convinzione politica superata o una credenza superstiziosa è difficile proprio per questa umana tendenza all’inerzia psicologica. È, cioè, più facile rimanere attaccati alle prime opinioni che metterle in gioco e analizzarle criticamente.

Allo stesso modo, posti di fronte all’immagine recente di un individuo che non vedevamo da tempo, abbiamo bisogno di qualche minuto per superare l’inerzia vischiosa prodotta in noi dal ricordo precedente dello stesso individuo. La persistenza dell’immagine di un tempo agisce in maniera così autoritaria che diventa difficile per noi “aggiornarla” immediatamente. È come se, in qualche suo anfratto, la nostra mente non riuscisse a concepire che il tempo trascorre anche per coloro che non incontriamo regolarmente.  E tale inerzia produce meraviglia e perplessità.

Un’ultima possibile spiegazione dello stupore che proviamo quando ci accorgiamo che il bambino che non vedevamo da tempo “è diventato grande” sta forse nel fatto che esso esprime semplicemente il rifiuto di accettare il trascorrere del tempo: non “vogliamo” che il tempo passi per gli altri perché ciò significa che passa anche per noi e che ci avviciniamo inesorabilmente alla vecchiaia e, dunque, alla morte, come sanno bene i genitori che commentano stupiti la crescita dei propri figli che “fino a ieri giocavano ancora con bambole e trenini” e che adesso sono sposati con figli. “Il bambino diventato grande” potrebbe avere, dunque, su di noi lo stesso effetto di un memento mori e attivare una serie di meccanismi di fronteggiamento o evitamento di cui la sensazione di meraviglia che si prova in quei momenti di “riconoscimento” è solo una modalità. Restiamo colpiti dal tempo che passa e compensiamo la malinconia che ne deriva con una sorta di patetico diniego (“No, non è possibile che sia già trascorso tutto questo tempo!”) su cui il buon senso arriva presto ad avere la meglio, lasciandoci leggermente avviliti.

Insomma, dietro una esclamazione così apparentemente banale quale “Come sei diventato grande!” si celano verità psicologiche e istinti filosofici profondi che rimandano al mistero del tempo e della morte. Un mistero che non riusciamo ad accettare serenamente e che suscita paura e angoscia. Oppure, come quando incontriamo bambini diventati adulti e adulti diventati vecchi, sorpresa e sconcerto.

Riferimenti

Gilovich, T., 1993, How We Know What isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, The Free Press, New York.

Heuer Jr., R. J., 1999, Psychology of intelligence analysis, Center for the Study of Intelligence, Central Intelligence Agency.

Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.

Rumiati, R., Bonini, N., 2001, Psicologia della decisione, Il Mulino, Bologna.

Sutherland, S., 2010, Irrazionalità, Lindau, Torino.

 

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Amore della patria e amore della gloria

Moltissime volte anzi la più parte si prende l’amor della gloria per l’amor della patria. P. e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d’Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell’amor della gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità né utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli Spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche presso antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perché il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 58).

E se l’altruismo non fosse altro che una forma travisata di egoismo? Se i sacrifici da noi compiuti per la “famiglia” o per i “figli” non fossero altro che atti al servizio dell’esaltazione del nostro ego sotto mentite spoglie?

È questo quello che sembra chiedersi Giacomo Leopardi nella riflessione posta al principio di questo post. Del resto, il sospetto che molte azioni eseguite nel nome dell’altro abbiano luogo, in realtà, nel nome del sé fa spesso capolino nei nostri pensieri più cinici.

Il servigio reso alla propria amata non ha forse l’obiettivo di conquistare o consolidare il suo amore per noi?

La condotta “disinteressata” del volontario non trova spesso la sua spiegazione nel desiderio di sentirsi bene con sé stessi o sopire un senso di colpa?

Il lavoro che ci chiede di rimanere in ufficio ben oltre le ore previste e che giustifichiamo chiamando in causa il nobile “dovere” non trova, invece, la sua ratio nelle maggiori entrate economiche che ne derivano e/o nell’accrescimento del nostro status sociale (“È un grande lavoratore!”)?

Le lunghe, monotone preghiere e funzioni religiose cui si sottopone il credente fervido non hanno forse la finalità di conquistare un posto nell’alto dei Cieli e salvare la propria anima?

Il terrorista che si fa esplodere nel nome di Allah non ambisce forse a essere accolto in quello speciale paradiso islamico popolato da 72 (ma ci sono dubbi) vergini purissime pronte a dedicare la propria vita ultramondana all’eroe che si è fatto esplodere?

Infine, come osserva Leopardi, l’estremo sacrificio compiuto a favore della patria non potrebbe nascondere un gesto teso a promuovere la nostra gloria e, quindi, celare una motivazione egoistica?

Domande impertinenti, certo. Sicuramente ciniche. Ma forse ha ragione il poeta recanatese quando dice che “il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo”.

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Il comma 22 del rosario

C’è qualcosa nella recita del rosario che espone il credente a un cortocircuito psicologico, una antinomia costitutiva, una impossibilità di fondo. Lo definisco il “comma 22 del rosario” in analogia con la situazione paradossale descritta dallo scrittore Joseph Heller nel romanzo Catch 22 del 1961.

Ricorderete che il comma 22 del romanzo recita: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.

Il comma 22 del rosario, mai esplicitato da nessuno, potrebbe invece recitare: “Per conseguire i benefici del rosario bisogna recitarlo bene, ma è impossibile recitare bene il rosario per cui è impossibile trarne beneficio”.

Perché è impossibile recitare bene il rosario?

Per recitare correttamente il rosario e trarne gli auspicati benefici spirituali, il fedele deve contemporaneamente fare tre cose diverse, dedicando a ognuna la propria fervida e completa attenzione. Deve recitare una serie di orazioni, meditare su alcuni misteri della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo e formulare un’intenzione (ad esempio, chiedere una grazia, imitare una virtù o distruggere un peccato). Ma è umanamente possibile dire una cosa, meditarne un’altra e farne un’altra ancora con la medesima energia mentale?

Per la psicologia, siamo di fronte a un compito di multitasking che richiede che le proprie risorse attentive siano dedicate con la medesima intensità a ogni attività. Il problema è che le risorse attentive sono limitate e le attività sono costrette a entrare in competizione per accaparrarsi quanta più energia possibile. La conseguenza è che, a meno che alcune attività non siano completamente automatizzate, non è possibile svolgerle simultaneamente con la stessa intensità. Sarà necessario, allora, distribuire la propria attenzione in maniera differenziale, privilegiando alcune attività a scapito di altre, così che necessariamente alcune di esse non potranno essere elaborate con il medesimo livello di efficienza.

Se un compito richiede molta attenzione, ne resterà pochissima per un altro. Se due compiti interferiscono tra loro, la loro esecuzione ne risentirà inevitabilmente. L’alternativa è automatizzare un compito per liberare energie per gli altri. Un processo automatizzato è un processo al quale si dedica, in origine, piena attenzione e che poi, con l’esercizio, diventa talmente automatico da essere svolto in maniera quasi inconscia. È il caso della guida dell’automobile o dell’uso di uno strumento musicale. Inizialmente, queste attività richiedono molto impegno ed errori frequenti. Con l’esercizio, la prestazione diventa più fluida e rapida fino a non richiedere quasi più un monitoraggio cosciente.

Applicate alla recita del rosario, queste osservazioni comportano l’impossibilità di svolgere le attività di recitazione, meditazione e formulazione delle intenzioni in maniera simultanea con intensità equivalente. L’alternativa è automatizzare uno o due processi in modo che sul terzo possa convergere quasi tutta l’energia attentiva. Ciò vuol dire, ad esempio, dedicare tutta la propria attenzione alla meditazione dei misteri, recitando in maniera meccanica i Padre nostro e le Ave Maria o formulando in maniera convenzionale le intenzioni.

Ma ciò è esattamente quello che un buon cristiano non dovrebbe fare: fervore e devozione dovrebbero essere distribuite paritariamente tra tutti gli elementi del rosario. Ne deriva un paradosso: la recita ideale del rosario contrasta con le leggi della mente umana ed è dunque, di fatto, impossibile. Essendo impossibile, il credente non può trarne alcun beneficio spirituale o religioso.

Di qui il comma 22 del rosario: “Per conseguire i benefici del rosario bisogna recitarlo bene, ma è impossibile recitare bene il rosario per cui è impossibile trarne beneficio”.

Si tratta di una delle tante antinomie cui la religione espone il credente. È per questo che la celebre frase attribuita a Tertulliano, ma forse spuria, “Credo quia absurdum” (“Credo perché è assurdo”) è tanto rappresentativa della religione: perché questa fa leva sulle sue contraddizioni per continuare a esistere, anzi glorifica le proprie contraddizioni nella credenza che “le vie del Signore sono infinite” e non sempre perscrutabili. Ed è per questo, forse, che i credenti di tutto il mondo continueranno a recitare il rosario: Oro quia absurdum.

Per saperne di più sulle “sottigliezze del rosario”, rimando ovviamente al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore, 2024).

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“I bambini sono la bocca della verità”

Nel film danese Il sospetto (2012) di Thomas Vinterberg, Lucas è un uomo separato con figlio che presta servizio con soddisfazione in un asilo. I bambini gli sono molto affezionati e tutti ammirano il suo lavoro. Una bambina, in particolare, Klara, figlia del suo migliore amico Theo, sviluppa una cotta infantile per lui e gli fa un regalo che, però, Lucas rifiuta. Per vendicarsi, la bambina confessa alla direttrice della scuola di aver subito attenzioni pedofile da Lucas. Dopo qualche giorno di esitazione, la direttrice lo licenzia e invita i genitori degli altri bambini a cercare segni di abuso nei propri figli. La donna è convinta che i bambini non mentano mai e, quindi, che Klara dica la verità. Lucas viene isolato dagli amici e dalla ex moglie, viene insultato e picchiato, nonostante sia del tutto innocente. Dopo un po’, Klara confessa timidamente ai genitori di essersi inventata tutto, mentre le accuse degli altri genitori si scoprono del tutto infondate. Alla fine del film, sembra che Lucas sia riuscito faticosamente a riguadagnare la stima dei suoi amici e delle persone che lo circondano, ma, proprio nella scena finale, ambientata in un bosco dove si tiene una seduta di caccia, qualcuno, che lo spettatore non vede, tenta di ucciderlo con un colpo di fucile, mancandolo di poco. Il messaggio conclusivo del film sembra essere che, quando si è marchiati da un’accusa infamante come quella di essere un pedofilo, è impossibile riabilitarsi davvero agli occhi della comunità, perché una macchia aleggerà sempre sulla testa del sospetto.

La convinzione che i bambini siano “la bocca della verità” e che la loro innocenza impedisca loro di mentire è molto diffusa nella nostra cultura. Il senso comune vuole che i bambini, essendo tali, non posseggono quella “malizia” che, nei grandi, favorisce la menzogna. Sono candidi e, quindi, sempre veritieri. Questa convinzione risalta ancora di più quando i bambini figurano come testimoni o vittime di abusi sessuali o violenze. «Se un bambino afferma di essere stato abusato da un adulto», si ritiene generalmente, “deve essere per forza vero». Quanta attendibilità c’è in questa opinione? È vero che i bambini “non mentono mai”?

La ricerca psicologica ha da tempo rivelato che la mente di un soggetto in età evolutiva presenta delle caratteristiche che invitano a prendere sempre con molta cautela le sue affermazioni e, che, in occasione di sospetti abusi sessuali o violenze, è necessario adottare tecniche e modalità di intervista specifiche se non si vuole correre il rischio di ottenere testimonianze non attendibili. Ad esempio, la memoria di un bambino, soprattutto se molto piccolo, non è paragonabile a quella di un adulto. Secondo alcuni autori, è impossibile ricordare eventi verificatisi prima della maturazione dell’ippocampo (cioè prima dei due-tre anni) e, in ogni modo, più i bambini sono piccoli meno informazioni forniscono durante le deposizioni circa un fatto cui hanno assistito. Anche se il ricordo libero dei piccoli è accurato quanto quello degli adulti, esso è quasi sempre povero (almeno nei molto piccoli) per cui un bambino tende a ricordare pochi elementi di un episodio che gli è accaduto. Ciò anche perché quello che è saliente per un adulto può non esserlo per un bambino (per un bambino la rilevanza di una minaccia proferita da un malintenzionato a un adulto può passare in secondo piano rispetto a un giocattolo presente in scena). I bambini, inoltre, hanno una capacità di riconoscere i volti e di collocare gli eventi nel tempo e nello spazio inferiore agli adulti. Questo limite è sempre da prendere in considerazione quando si interroga un bambino su tempi e luoghi di un misfatto o quando lo si invita a riconoscere un volto fra tanti (De Cataldo Neuburger, 1988).

Un altro limite è dato dalla tendenza dei bambini a dire di sì, anche quando dovrebbero dire di no, a molte domande poste in maniera diretta. Ciò accade sia perché il bambino può voler “far piacere” all’adulto interrogante nella convinzione che questo è quello che vogliono i grandi; sia perché di fronte, ad esempio, a una domanda come «Hai visto un uomo scendere le scale?», un bambino può rispondere di sì, anche quando non ha visto nessuno scendere le scale, solo perché la domanda è posta in maniera tale da avere una risposta sì/no. La ricerca ha poi messo in evidenza che la memoria che un bambino ha di un avvenimento è migliore se l’evento è stato vissuta in prima persona o se il bambino è personalmente coinvolto nell’episodio anziché essere stato un semplice spettatore (Mazzoni, 2003, p. 105).

Inoltre, i bambini sono più suggestionabili degli adulti: tendono più di questi a farsi fuorviare da informazioni errate o domande tendenziose, soprattutto quando chi pone le domande è percepito come una figura autorevole. In un esperimento condotto dalla psicologa Giuliana Mazzoni, alcuni bambini di sei e nove anni assistevano a una scena.

Il giorno dopo venivano fatte loro delle domande fuorvianti sull’evento a cui avevano assistito. Ad esempio veniva chiesto: «Ti ricordi a che ora è entrato in classe il signore che aveva una cartella rossa sotto il braccio?» mentre invece l’uomo aveva un libro in mano. Nel compito di riconoscimento successivo, che avveniva dopo una settimana, il 60% circa dei bambini di sei anni ha scelto la risposta suggerita nella domanda, mentre la percentuale di bambini di nove anni era un po’ inferiore al 40%. Risultati come questo indicano che è in fondo sufficiente una sola domanda mal fatta perché la maggioranza di un gruppo di bambini di sei anni nel successivo compito di memoria riportino l’informazione suggerita anziché ciò che avevano visto realmente (Mazzoni, 2003, p. 108).

Non è infrequente, infine, che i bambini abbiano falsi ricordi (D’Ambrosio, Supino, 2014). Una letteratura molto cospicua ha ormai acclarato che è molto facile impiantare nelle giovani menti dei più piccoli ricordi che non corrispondono alla realtà. Un celebre esperimento condotto da Elizabeth Loftus e Jacqueline Pickrell (1995) dimostrò come sia relativamente semplice introdurre nella memoria di un quattordicenne il ricordo di essersi perso in un centro commerciale all’età di cinque anni e di essere stato ritrovato in lacrime da un anziano avventore. Basta “suggerirgli” il ricordo e sostenere la menzogna con la complicità dei familiari e l’autorevolezza degli sperimentatori.

Falsi ricordi possono accadere anche a persone stimate molto intelligenti. Il celebre psicologo ginevrino Jean Piaget fu convinto fino all’età di 15 anni di aver subito un tentativo di rapimento quando aveva due anni ed era a spasso con la babysitter. Era talmente convinto, che quando la babysitter confessò alla famiglia che per tredici anni aveva mentito sull’episodio, forse per nascondere una sua disattenzione o una scappatella con il fidanzato del momento, non riusciva proprio a crederci. Ecco come lui stesso racconta l’episodio:

Ero nel passeggino, e stavo andando con la tata verso gli Champs Elysées, quando un uomo tentò di rapirmi. Fui trattenuto dalla cinghia che mi teneva fermo, mentre la tata tentava coraggiosamente di mettersi fra me e il rapitore. Si procurò parecchi graffi. Riesco ancora a vedere vagamente i segni sul suo viso. Intorno a noi si radunò una folla di persone, arrivò un poliziotto con un mantello corto e un manganello bianco e l’uomo scappò. Riesco ancora a vedere l’intera scena, e riesco addirittura a individuare dove e accaduto, vicino alla stazione della metropolitana (cit. in Vannucci, 2008, p. 82).

Sebbene sia veramente difficile non credere a un bambino che continua a ripetere di essere stato vittima di abusi o altre violenze, gli psicologi Cavedon e Calzolari affermano che, al momento di chiedere a un bambino di testimoniare, è necessario tener presenti alcune regole chiave. Innanzitutto, in considerazione del fatto che i bambini ritengono sempre che i grandi sappiano tutto e siano per definizione credibili – credenze che aumentano la suggestionabilità dei piccoli – è importante creare un ambiente distensivo e accogliente dove il bambino si senta a proprio agio e possa giocare e disegnare. Inoltre, bisogna instaurare un rapporto amichevole in cui il bambino si senta trattato alla pari e acquisti fiducia nell’adulto.

Ancora, è necessario interrogare il bambino appena dopo il fatto e, se possibile, solo una volta. Gli interrogatori ripetuti nel tempo sono, infatti, la maggior fonte di distorsione del ricordo e quindi di suggestionabilità nel bambino. Infine, è essenziale ricordare che il pensiero dei bambini spesso segue regole che non sono quelle del pensiero adulto. Prima di interrogare un bambino è necessario appurare il suo sviluppo cognitivo (anche in base al rendimento scolastico), la sua capacità di utilizzare il linguaggio e la sua capacità di collocare gli eventi in una progressione temporale e in una dimensione spaziale corrette (Cavedan, Calzolari, 2001).

Anche se i bambini possono essere “senza malizia”, come vuole il senso comune, ciò non significa che le loro testimonianze siano sempre e indubitabilmente accurate. I limiti evolutivi cui sono soggette le loro piccole menti fanno sì che certi errori siano praticamente inevitabili. Sta all’adulto conversare in maniera appropriata con il bambino perché dalla sua bocca esca la verità. In mancanza di competenze specifiche in materia, il rischio di avere un bambino che mente, magari con conseguenze nefaste per gli adulti che gli sono vicini, potrebbe essere immenso. 

Riferimenti

Cavedan A., Calzolari M.G., 2001, Come si esamina un testimone, Giuffrè, Milano.

D’Ambrosio A., Supino P., 2014, La sindrome dei falsi ricordi, Franco Angeli, Milano.

De Cataldo Neuburger L., 1988, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Giuffrè, Milano.

Loftus, E. F., Pickrell, J. E., 1995, “The formation of false memories”, Psychiatric Annals, vol. 25, n. 12, pp. 720-725.

Mazzoni G., 2003, Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna.

Vannucci, M., 2008, Quando la memoria ci inganna, Carocci, Roma.

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