“Dal frutto riconosco l’albero”

Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero, infatti, si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Luca, 6, 43-45).

L’idea che dal male non possa venire che male e dal bene non possa venire che bene è talmente radicata nella nostra mente da apparire ovvia. A fructu arborem cognosco riassumeva l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536) nei suoi Adagia (1503) e, ancora prima Dante Alighieri (1265-1321), nella Divina Commedia, sentenziava: «Ogn’erba si conosce per lo seme» (Purgatorio, canto XVI).

È dalla tradizione cristiana che ereditiamo la distinzione netta tra bene e male, il principio secondo cui le cose che non sono di Dio non possono che essere del Diavolo. «Chi non è con me è contro di me» afferma Gesù in Matteo 12, 30. Questa distinzione, trasposta nella vita sociale, ci induce a vedere il bene e il male, gli onesti e i ladri, i cittadini perbene e gli assassini come categorie esclusive: chi fa parte di una non fa parte dell’altra.

È in virtù di questo luogo comune che troviamo irresistibile dedurre la personalità e il valore degli individui dalle azioni che essi compiono: un’azione buona non può che essere opera di una persona buona; un’azione cattiva non può che discendere da un animo cattivo. È un principio semplice e lineare a cui agevolmente ci affidiamo per districarci nella complessità della vita quotidiana. Un principio così saldo che l’intera psicologia può essere definita come un enorme edificio fondato su di esso.

Anche la criminologia – scientifica e dell’uomo comune – ha adottato questo principio, che va sotto il nome di pestilence fallacy. La pestilence fallacy è «l’idea che all’origine di un male non possano esservi che altri mali e dunque che le principali cause della criminalità siano l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali» (Barbagli, Colombo e Savona, 2003, p. 43).

Questo modo di pensare, tuttavia, come già suggerisce il termine fallacy, è ingannevole. Lo riconosce lo stesso sapere comune, quando afferma che “Non tutto il male viene per nuocere” e che “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. In altre parole, in determinate situazioni, dal male possono scaturire conseguenze positive e, viceversa, da un animo buono e bene intenzionato possono derivare condotte o conseguenze dannose.

Riguardo a quest’ultimo caso, pensiamo a chi, in nome di Dio, che dovrebbe rappresentare il sommo bene, commette atti abominevoli per promuovere la propria idea di religione, come i fanatici che ancora oggi compiono stragi in ogni parte del mondo, o, andando più indietro nel tempo, pensiamo ai massacri di eretici compiuti dalla Chiesa cattolica, alle Crociate, all’Inquisizione, agli scontri tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord e così via. Oppure, pensiamo a un genitore che, per il bene del figlio, esercita con troppo rigore la sua azione educativa innescando in quello, per reazione, un comportamento riottoso e ribelle. Oppure, ancora, consideriamo quelle leggi che, per contrastare determinate condotte, impongono, seppure con le migliori intenzioni di riforma sociale, sanzioni talmente severe ai trasgressori da spingerli in maniera irreversibile verso i margini della società con il risultato di trasformarli in delinquenti irrecuperabili.

Del paradosso per cui dal bene può scaturire il bene e dal bene il male, era consapevole il filosofo greco Eraclito (550 ca–480 ca a.C.), uno dei personaggi più enigmatici e misteriosi del periodo presocratico, il quale designò con il termine “enantiodromia”, il capovolgersi delle cose nel loro contrario. Eraclito era convinto che non si conoscerebbe nemmeno il nome della giustizia se non ci fossero l’offesa, la violenza o la devianza e che «la malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo» (I presocratici, 1986, p. 218). In altre parole, non ci sarebbero il bene, la giustizia e la salute se non esistessero il male, la criminalità e la malattia.

Affine al concetto di enantiodromia è quello di “eterogenesi dei fini”, coniato dal filosofo e psicologo Wilhelm Wundt (1832–1920), fondatore della psicologia sperimentale. Secondo questo principio, le azioni umane possono condurre al conseguimento di scopi diversi da quelli inizialmente prefissati, ovvero «i fini collettivi non sono il risultato di un disegno intenzionale, ma nascono casualmente, in seguito alla combinazione e al contrasto di molte volontà» (Marletti, 2006, p. 74). Corollario di questo principio è il fatto che l’azione sociale può generare degli effetti esattamente opposti a quelli attesi dagli attori sociali.

Ne era convinto il filosofo olandese Bernard Mandeville (1670–1733), autore de La favola delle api ovvero vizi privati, pubbliche virtù (1714), in cui sosteneva che vizi e crimini non solo producono effetti socialmente e politicamente positivi, ma sono necessari alla stessa costituzione delle società civili. Per Mandeville, il crimine contribuisce a stimolare i “buoni” e a rendere dinamica la società, impedendo che ristagni con effetti negativi per tutti. A chi gli obiettava l’immoralità delle sue parole, rispondeva che

La gente comune, di vista corta, di rado riesce a vedere oltre un anello della catena delle cause; ma quelli che sanno allargare la loro visuale, e sono capaci di osservare l’insieme dei fatti concatenati, possono in cento luoghi vedere il bene scaturire e germogliare dal male, nello stesso modo naturale in cui i pulcini escono dalle uova (Mandeville, 2002, p. 59).

Chi portò alle estreme conseguenze questa riflessione fu Karl Marx (1818–1883). In una spesso citata digressione contenuta nel volume Manoscritti del 1861–1863, il filosofo tedesco scrisse:

Il criminale non produce soltanto delitti, ma anche il diritto penale e con ciò anche il professore che tiene lezioni di diritto penale e inoltre l’immancabile compendio nel quale questo stesso professore getta i suoi discorsi come “merce” sul mercato generale. Con ciò interviene un aumento della ricchezza nazionale […]. Il criminale produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, ecc., e tutti questi diversi rami professionali, che costituiscono altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano diverse facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi per soddisfarli. […]. Il criminale produce un’impressione, in parte morale, in parte tragica, a seconda delle circostanze, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali e estetici del pubblico. Egli non produce soltanto compendi sul diritto penale, non soltanto codici penali e per ciò legislatori in materia penale, ma anche arte, buona letteratura, romanzi e perfino tragedie […]. Il criminale spezza la monotonia e la certezza quotidiana della vita borghese. Con ciò la preserva dal ristagno e suscita quella inquieta tensione e quella vivacità senza le quali perfino lo stimolo della concorrenza diverrebbe insensibile. Egli dà così uno sprone alle forze produttive. Mentre il crimine toglie al mercato del lavoro una parte della popolazione eccedente e con ciò diminuisce la concorrenza tra i lavoratori, [quindi] impedisce entro certi limiti la caduta del salario del lavoro al di sotto del minimo, la lotta contro il crimine assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale si afferma così come una di quelle “compensazioni” naturali che producono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di “utili” rami occupazionali (Marx, 1980, pp. 324–325).

Quella che potrebbe sembrare una immorale esaltazione del crimine non è altro che una constatazione sociologica: non è vero che dal male derivi solo altro male. A volte da esso possono derivare conseguenze positive, anche se non previste. Di ciò abbiamo numerose testimonianze.

La corruzione è solitamente vista come una piaga delle società civili, ma in alcuni casi ha contribuito all’integrazione sociale e politica di masse di diseredati e, in alcune circostanze, si è rivelata uno strumento insostituibile per accedere a mercati internazionali che frappongono ostacoli di natura burocratica, politica e finanziaria all’ingresso di capitali stranieri.

La violenza è biasimata come impulso inaccettabile e immorale. Tuttavia, nella storia, molti gruppi sociali hanno subito violenza, fungendo da parafulmine delle tensioni interne, degli odi e dei rancori della società in cui vivevano. Tramite essi, i membri della società hanno sfogato i propri sentimenti di ostilità, consentendo al gruppo di rinsaldare la propria unità, di ritrovare valori comuni e di restaurare la fiducia nella propria bontà. Tra le categorie maggiormente vittimizzate troviamo: zingari, streghe, eretici, albini, ebrei, neri, immigrati clandestini, pazzi, diversi in genere. Identificare un capro espiatorio su cui riversare rabbia e frustrazione è servito sociologicamente per risolvere conflitti interni al gruppo, individuare un obiettivo comune, recuperare un senso di appartenenza. Ancora oggi, i politici a corto di idee sventolano, ad esempio, la bandiera dell’invasione straniera per conquistare voti e consenso. In assenza di programmi concreti, il rimedio del capo espiatorio sembra funzionare oggi come ieri.

La prostituzione è da sempre un’attività vituperata. Eppure, perfino alcuni grandi rappresentati della Chiesa cattolica ne hanno riconosciuto le funzioni positive. Nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino (1224-1226 – 1274), destinato a diventare il più importante teologo del Medioevo, fu autore di una citatissima glossa che, per molti secoli, ha orientato le politiche degli amministratori delle città: «La donna pubblica è nella società ciò che la sentina è in mare, e la cloaca nel palazzo. Togli la cloaca, e l’intero palazzo ne sarà infettato» (Rossiaud, 1986, p. 104). Per Tommaso, il ricorso alla prostituzione permetteva all’uomo di non “insozzare” la santità del focolare domestico con la lordura della lussuria, ma anche di non attentare alla “onestà” di altre donne. Inoltre, essa agiva da deterrente nei confronti di “crimini contro natura” come l’omosessualità, l’incesto, la sodomia e la masturbazione. Qualche secolo più tardi, il senatore Gaetano Pieraccini (1864-1957) presentava in questo modo le funzioni sociali del postribolo:

D’altra parte, il postribolo […] è strumento di difesa sociale generale. Colà si rifugiano donne criminaloidi che, lasciate fuori e non sorvegliate, chissà cosa farebbero, se si pensa che spesso tra degenerati si annusano e si associano nel malfare; quando si tratta di anormali sembra che si riconoscano per un puzzo di immoralità tutto loro particolare e che li aggruppa. Inoltre, il postribolo, come sopra ho detto, nasconde l’esibizionismo pubblico; ed il meretricio postribolare può valere e realmente vale, a diminuire quella che può essere la seduzione, gli atti di violenza carnale, gli stupri, ecc. (Bellassai, 2008, p. 123).

L’usura è un reato ed è vista come un’attività particolarmente odiosa perché prospera sulle difficoltà economiche e sulla disperazione della gente. Eppure, l’usuraio è stato storicamente l’antesignano dell’attuale imprenditore e ha contribuito addirittura alla nascita delle nazioni. Il criminologo Vincenzo Ruggiero afferma, ad esempio, che l’usura ha favorito lo «sviluppo iniziale del paese [l’Italia] nel periodo immediatamente successivo all’unificazione. La formazione di una classe di finanzieri, in Italia, si deve in parte all’esistenza di mercati finanziari paralleli a quelli ufficiali. Coloro che dopo l’Unità acquistarono i beni della Chiesa, ad esempio, si rivolgevano non di rado a questi mercati illeciti del denaro (Ruggiero, 1996, p. 150).

Il gioco d’azzardo è illegale, può favorire dipendenze patologiche e solleva dubbi di moralità, ma è da sempre incentivato dallo Stato perché consente di incrementare in modo agevole le entrate erariali. In età contemporanea, il gioco è stato utilizzato anche per realizzare iniziative di pubblica utilità e opere civili (ospedali, ricoveri, orfanotrofi, strutture per calamità naturali), per reperire fondi per affrontare un disastro naturale, per stimolare il turismo e far circolare il denaro.

Insomma, contrariamente al luogo comune secondo cui l’albero si riconosce dal frutto, frutti bellissimi possono nascere da alberi brutti e, al contrario, alberi stupendi possono generare frutti orrendi. Con buona pace dell’evangelista Luca, di Erasmo da Rotterdam e Dante Alighieri.

Riferimenti

Barbagli, M., Colombo, A., Savona, E., 2003, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna.

Bellassai, S., 2008, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Carocci, Roma.

Capuano, R. G., 2015, Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine, Aracne Editrice, Ariccia (RM).

I presocratici. Testimonianze e frammenti, 1986, v. I, Laterza, Roma–Bari.

Lorenzetto, S., 2019, Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia.

Mandeville, B.,2002, La favola delle api, Laterza, Roma–Bari.

Marletti, C. A., 2006, Razionalità e valori. Introduzione alle teorie dell’azione sociale, Laterza, Roma–Bari 2006.

Marx, K., 1980, Manoscritti del 1861–1863, Editori Riuniti, Roma.

Rossiaud, J., 1986, La prostituzione nel Medioevo, Laterza, Roma–Bari.

Ruggiero, V., 1996, Economie sporche, Boringhieri, Torino.

 

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Retoriche del Rosario

Ogni argomentazione ha bisogno di essere sostenuta e legittimata, se aspira a essere convincente e a trovare consenso presso il proprio pubblico di riferimento. Una fonte di legittimazione particolarmente rilevante è l’autorità. È sufficiente che una determinata idea, pratica, modo di pensare trovi fondamento in un’autorità riconosciuta che, immediatamente, essa acquisisce prestigio e credibilità. Così, un prodotto commerciale acquisterà valore agli occhi del compratore perché pubblicizzato da un attore famoso. Un politico importante conferirà virtù a una proposta che avanzata da altri parrebbe ridicola. Il pensiero di un celebre scienziato renderà prezioso un suggerimento in ambito medico. Il giornalista che appare spesso in televisione sarà percepito come una fonte autorevole di informazioni.

In campo culturale e intellettuale, le idee di uno scrittore o filosofo “canonizzato” dalla tradizione saranno ascoltate con un’attenzione diversa da quelle di un perfetto sconosciuto.

Storicamente, l’ipse dixit ha sempre costituito una straordinaria fonte di legittimazione. Basti pensare che, un tempo, affermare: “Lo ha detto Aristotele” era sufficiente a dirimere una discussione in ambito filosofico. E naturalmente la Bibbia, il libro sacro per eccellenza, libro che i cristiani ritengono ispirato da Dio, è da sempre citata per dare sostegno a questa o quella posizione. La Bibbia non è un testo conchiuso e unitario, scritto da un unico autore in un unico tempo e in un unico luogo, bensì una raccolta di testi composti da autori diversi, in tempi e luoghi diversi e con finalità diverse. Ciò significa che, in essa, come in un immenso deposito culturale, è possibile trovare i più disparati argomenti a favore o contro un’idea, un tipo di condotta, un atteggiamento, una pratica ecc. Tutti, come detto, ritenuti ispirati da Dio.

Ad esempio, si possono trovare giudizi, massime, sentenze a favore del rispetto per i vecchi (Levitico 19, 32: «Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio. Io sono il Signore») e per i disabili (Levitico 19, 14: «Non disprezzerai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore»), della generosità (Deuteronomio 15, 11: «Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comandamento e ti dico: apri generosamente la tua mano al fratello povero e bisognoso che è nel tuo paese») e dell’autorità costituita (Matteo 22, 21: «Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»). Ma anche a favore di idee o comportamenti ritenuti sconvenienti, immorali, pericolosi, indegni, bizzarri.

È possibile, così, imbattersi in chiare condanne dell’omosessualità (Levitico 20, 13: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro»). Oppure, in argomenti per sostenere l’idea dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo (1 Corinzi 11, 3: «Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio» e 1 Timoteo 2, 12: «Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo»). Oppure, ancora, in disapprovazioni della disabilità (Levitico 21, 18-20: «perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né il cieco, né lo zoppo, né chi abbia il viso deforme per difetto o per eccesso, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo, né un nano, né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o sia eunuco»).

Inoltre, è possibile rinvenire passi che giustificano il maltrattamento dei bambini a scopo educativo (Proverbi, 23, 13-14: «Non risparmiare la correzione al fanciullo, perché anche se lo batti con le verghe, non morirà, anzi, battendolo con la verga, salverai la sua anima dallo Sceòl»), la proibizione dei tatuaggi (Levitico 19, 28: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore»), il nutrirsi di locuste e cavallette (Levitico 11, 22: «Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e ogni specie di grillo») o l’astenersi da certe carni per noi usuali (Deuteronomio 14, 7-8: «Ma non mangerete quelli che ruminano soltanto o che hanno soltanto l’unghia bipartita, divisa da una fessura e cioè il cammello, la lepre, l’ìrace, che ruminano ma non hanno l’unghia bipartita; considerateli immondi; anche il porco, che ha l’unghia bipartita ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri»).

Addirittura, è possibile rinvenire brani che, con qualche torsione, sono fatti passare per favorevoli alla pedofilia e all’aborto, come, rispettivamente, il celebre “Lasciate che i bambini vengano a me” pronunciata da Gesù in Marco 10:13-16 e Luca 18:15-17, ed Ecclesiaste 6, 3-6: «Se uno avesse cento figli e vivesse molti anni e molti fossero i suoi giorni, se egli non gode dei suoi beni e non ha neppure una tomba, allora io dico: meglio di lui l’aborto, perché questi viene invano e se ne va nella tenebra e il suo nome è coperto dalla tenebra. Non vide neppure il sole: non conobbe niente; eppure il suo riposo è maggiore di quello dell’altro. Se quello vivesse anche due volte mille anni, senza godere dei suoi beni, forse non dovranno andare tutt’e due nel medesimo luogo?».

Non sorprenderà, dunque, apprendere che i fautori e gli avversari del Rosario abbiano scovato nella Bibbia passi a favore delle loro rispettive posizioni.

I fautori, ad esempio, amano citare i seguenti due brani:

Luca 18, 1-8: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: «C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»».

1 Tessalonicesi 5,16-18: «Siate sempre gioiosi; non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi».

Pregare senza stancarsi, pregare incessantemente sono azioni interpretate come adeguate a legittimare il Rosario come preghiera voluta da Dio. Non a caso il Rosario si caratterizza per il suo ritmo incessante, ripetitivo, monotono, cantilenante, che sembra non avere mai fine. E non a caso l’interpretazione di 1 Tessalonicesi 5,16-18 è alla base delle avventure del protagonista de I racconti di un pellegrino russo, il quale, pungolato dal suo starec (monaco anziano scelto per essere guida spirituale), arriva a ripetere la cosiddetta “preghiera del cuore” («Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore») fino a 12.000 volte al giorno. Il Rosario, dunque, come pratica annunciata e voluta da Dio nel Nuovo Testamento, orazione santificata dalla tradizione millenaria della Bibbia.

Dall’altra parte, i detrattori del Rosario chiamano in causa due passi, presi, il primo, dall’Antico Testamento, il secondo dal Nuovo, a sostegno delle loro convinzioni.

Il passo veterotestamentario è il seguente:

Ecclesiaste 5, 1-2: «Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò, le tue parole siano parche, poiché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto».

Il brano del Nuovo Testamento è invece il seguente:

Matteo 6,7-8: «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate».

In questi due brani, il Rosario è assimilato a un chiacchiericcio affrettato, a uno spreco di parole a scopo esibizionistico, a un inutile profluvio di vuote formule, a un biascichio esteriore, un ruminare senza cuore e senza fede, una verbosità stagnante che poco ha a che fare con la vera preghiera, che dovrebbe essere spontanea, sentita e provenire dal cuore. Fu su queste basi che Lutero attaccò il Rosario. Il monaco tedesco era convinto che esso fosse una “frode bella e buona”, uno squallido rituale, assimilabile a un’opera, per conseguire la salvezza con un artificio contabile, oltre che ignobilmente associata alle indulgenze che introducevano una forma di compravendita in faccende che avrebbero dovuto essere meramente spirituali.

Come è evidente, perfino il Rosario può trovare legittimazione o delegittimazione nella Bibbia, così come, in effetti, ogni pratica, condotta o tesi religiosa o no. Basta saper individuare il brano giusto, torcerlo un poco se necessario, e ciò che si desidera acquista valore o demerito. È un vecchio stratagemma adoperato da tempo e basato sul principio di autorità. Uno stratagemma che dimostra tuttora la sua efficacia.

Sebbene in un’epoca secolarizzata come la nostra la Bibbia abbia perso molta della sua autorità, non è raro imbattersi in chi si dice contrario, ad esempio, all’omosessualità o ai tatuaggi perché “lo dice la Bibbia”. Il libro sacro del cristianesimo conserva tuttora un suo prestigio autoriale. Contestato, ma niente affatto sminuito.

Sul tema del Rosario, come sempre, vi invito a leggere il mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore, Milano, 2024).

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Menzogna e religione cattolica

Che rapporto ha il cristianesimo con la verità? La risposta sembra essere semplice. Il cristianesimo coincide con la verità e «la verità vi farà liberi» (Giovanni 8, 32).

Ma se, per trionfare, il cristianesimo avesse bisogno della menzogna? Se, cioè, la menzogna fosse necessaria per l’affermazione della verità suprema di Dio? In altre parole, se, machiavellicamente, il fine della verità di Dio giustificasse il mezzo, pur di per sé disprezzabile, della menzogna?

Si tratta di speculazioni niente affatto peregrine, avvalorate almeno da un passo del nuovo Testamento, più precisamente della Lettera ai Romani, l’epistola più lunga delle tredici composte da Paolo di Tarso.  In essa, infatti, leggiamo:

«Ma se per la mia menzogna la verità di Dio sovrabbonda a sua gloria, perché sono ancora giudicato come peccatore? Perché non «facciamo il male affinché ne venga il bene», come da taluni siamo calunniosamente accusati di dire? La condanna di costoro è giusta» (Romani 3, 7-8).

In questo brano, appare evidente la consapevolezza del “servizio” che la menzogna può rendere alla verità; consapevolezza condivisa da altri protagonisti della storia del cristianesimo, come, fra gli altri, Eusebio di Cesarea (260-339), il quale in una sua opera, la Preparatio Evangelica (12, 32) ammette candidamente: «Può essere lecito e opportuno utilizzare la falsità come medicina, per il beneficio di coloro che vogliono essere ingannati». La falsità, dunque, come una sorta di placebo per compiacere chi proprio vuole essere ingannato per essere traghettato verso la verità.

Contrariamente all’idea manichea secondo cui verità e menzogna si escludono a vicenda e sono destinate a non incontrarsi mai, perfino una religione come il cristianesimo sembra assumere sulla questione una posizione meno tetragona e più pragmatica. Se serve alla causa di Dio, è utile mentire perché l’importante è che trionfi la verità superiore della divinità. La menzogna può essere dunque convertita in vassallo della verità, suo servitore e facilitatore. Una “verità” dura da digerire, ma più terricola del dogma secondo cui il dualismo tra vero e falso può concepirsi solo ed esclusivamente in forma monadica.

Sì, forse Machiavelli ha avuto in Paolo di Tarso il suo precursore e maestro.

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Sul non conoscere la propria età

Scrive Leopardi

È pure un tristo frutto della società e dell’incivilimento umano anche quell’essere precisamente informato dell’età propria e de’ nostri cari, e quel sapere con previsione che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro giovinezza ec. ec. invecchierò necessariam. o invecchieranno, morrò senza fallo o morranno, perché la vita umana non potendosi estendere più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un’idea dell’ignoranza della propria età precisa ch’è naturale, e si trova ancora comunemente nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza sicura che determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati del quando dovranno finire indubitamente questi e quei vantaggi della tale e tale età di cui godo ec. Tolta la quale l’idea confusa del nostro inevitabile decadimento e fine, non ha tanta forza di attristarci, né di dileguare le illusioni che d’età in età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p. e. d’80. anni, quel sapere determinatam. che dentro 10. anni al più egli sarà sicuram. estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella di un condannato, e toglie infinitam. a quel gran benefiz. della natura d’averci nascosto l’ora precisa della nostra morte che veduta con precisione basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 75).

A che cosa serve conoscere l’età? Potrebbe sembrare una domanda strana, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui ogni aspetto dell’esistenza è contabilizzato e ridotto in cifre. Non a caso, imparare ad associare un numero allo scorrere del tempo è considerato uno dei più importanti requisiti di un sano processo evolutivo. “Quanti anni hai?” non è solo una delle prime “innocenti” domande che ci vengono rivolte da piccoli (insieme a “Come ti chiami?”), ma anche un test di adeguatezza cognitiva e il non saper rispondere può suscitare più di una preoccupazione genitoriale.

Il fatto è che il passare del tempo non è un fatto neutro: sin da piccoli impariamo che a ogni età corrispondono facoltà e passaggi di status, diritti e doveri, aspettative e vincoli. Così, diventiamo maturi a 18 anni, età in cui possiamo anche votare; possiamo essere eletti deputati a 25 anni e al Senato a 40 (almeno in Italia); andiamo in pensione a 67 anni ecc.

All’età sono associati anche passaggi simbolici. Ad esempio, fino a quale età possiamo essere considerati giovani? E quando diventiamo vecchi? Determinati comportamenti sono più adatti ai bambini, altri alle persone mature, altri ancora ai vecchi.

Insomma, l’età non è cosa da poco. Eppure – sembra suggerire Leopardi – non conoscere la nostra età ci rende, per certi versi, “immortali” nel senso che, privandoci di tutte quelle aspettative legate agli anni che trascorrono, permette di cullarci nell’illusione che il tempo non scorra, che non ci sarà mai una vecchiaia certificata dal raggiungimento di una determinata soglia temporale, che non ci saranno mali geriatrici, che rimarremo innocenti fino al termine della nostra vita.

Non conoscere l’età ci emancipa dall’idea di un inevitabile decadimento e dalla tristezza malinconica a quello associata. Ci libera dalla prigione della consapevolezza della morte, continuamente pungolata dall’avvicendarsi dei compleanni. Ci esonera dalle afflizioni che inevitabilmente scaturiscono dall’ostinato desiderio di conoscere l’ora della nostra fine. Ci affranca dallo scoramento causato dalla coscienza dell’approssimarsi dell’ultima ora.

E allora guardiamo con simpatia ai contadini di un tempo, ormai molto distante, che non sapevano dire la loro età. La loro ignoranza, prima oggetto di biasimo e ridicolo, diventa improvvisamente oggetto di desiderio. Solo così, infatti, possiamo alimentare l’illusione suprema: l’illusione di essere immortali.

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I salmi biblici come sospiri di creature oppresse

Tra i libri poetici del Vecchio Testamento, quello dei Salmi, o Salterio, raduna 150 carmi sacri o salmi, appunto, destinati a essere cantati, composti da autori ignoti (anche se i più sono attribuiti a Davide) in epoche diverse, e tuttora adoperati nella liturgia cristiana.  

I salmi sono diversi per forma e contenuto. Sebbene alcuni si somiglino o addirittura mutuino le parole di altri, esprimono una varietà notevole di funzioni e significati, alcuni dei quali certamente sorprendenti. Sommariamente, sono condensabili nelle seguenti categorie: salmi che parlano della legge di Dio e del suo insegnamento; salmi che parlano della supremazia di Dio; salmi con cui si invoca Dio nell’afflizione; salmi di maledizione o di imprecazione (!); salmi di contrizione e umiliazione; salmi con cui si invoca l’intervento di Dio a favore di chi è fedele; salmi in cui si magnifica la gloria del Creatore e si beatifica chi teme la divinità, salmi di riconoscenza; salmi di fiducia e di speranza; salmi liturgici; salmi di lode.

Tramite i salmi, il credente, dunque, colloquia con il suo Dio; lo loda e lo glorifica; invoca il suo aiuto nei momenti di difficoltà; avanza richieste personali e di intercessione; esprime pentimento e contrizione per i peccati commessi; invita la divinità a perdonarlo e assicurargli un futuro prospero; esprime ringraziamento per le cose buone che gli sono capitate; manifesta la propria speranza in un futuro migliore; ripercorre eventi importanti della sua storia; testimonia venerazione e sacrificio; offre meditazioni; descrive ritualità; ricorda i contenuti essenziali della legge divina; ma anche esorta Dio ad agire (salmo 35: “O Signore, sino a quando starai a guardare?) e ad assecondare i desideri di chi prega; formula lamentazioni individuali e collettive.

Alcuni salmi, sorprendentemente, esprimono maledizioni e imprecazioni contro i nemici di Dio, contro i propri avversari, contro coloro che prosperano nonostante l’empietà e invitano la divinità a vendicare la sorte del credente (salmi 5, 10, 14, 28, 31, 35, 41, 49, 52, 53, 58, 59, 64, 69, 79, 83, 94, 109, 129, 137, 140). Tali maledizioni sono formulate con un linguaggio crudo, apparentemente dissonante rispetto a quanto ci attenderemmo da un testo inserito nella Bibbia. Si pensi, per fare solo qualche esempio, che il salmo 52 afferma: “Dio ti distruggerà per sempre, ti svellerà e strapperà dalla tua tenda, ti sradicherà dalla terra dei viventi”, il salmo 58 minaccia: “O Dio, spezza loro nella bocca i denti”, mentre il salmo 137 proclama: “Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la pietra”.

Alcuni salmi sono stati interpretati come messianici e annuncianti la futura venuta di Gesù Cristo. Tra questi i salmi: 2, 22, 45, 89, 110, 118 (salmo 110: “Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”).

In alcuni sono presenti espressioni che è dato ritrovare nel Nuovo Testamento. L’esempio più famoso è probabilmente quel “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato” (salmo 22) che leggiamo in Matteo 27, 46 e in Marco 15, 34 e che tanto ha fatto discutere gli esegeti biblici.

Altri salmi sono stati adoperati in appoggio a teorie, come quella del peccato originale (salmo 51: “Ecco, nella colpa io sono nato, perché nel peccato mi concepì mia madre”).

Alcuni salmi, detti regali, esaltano la regalità di Dio (ad esempio, i salmi 24, 46, 47, 48, 76, 84, 87, 93, 96, 97, 98, 99, 122, 137).

Si potrebbe continuare.

Che cosa sono i salmi se non preghiere? Passandoli in rassegna è possibile esaurire praticamente tutte le possibili funzioni delle preghiere, a dispetto della falsa nozione secondo cui queste sarebbero formule verbali prive di complessità. Soprattutto le preghiere rivelano bisogni e necessità degli esseri umani in vari contesti storici. Nel caso dei salmi, attraverso di esse è possibile ricostruire la mappa delle vicende di un popolo – il popolo di Israele – e delle calamità che hanno caratterizzato la sua storia. È così che trova spiegazione la presenza, altrimenti sorprendente, dei cosiddetti salmi di maledizione. Con questi il popolo di Israele esprimeva frustrazione per le proprie miserie e si augurava di superarle grazie all’intervento divino.

Sì, in definitiva Marx aveva ragione: la religione è il sospiro della creatura oppressa. E il sospiro più grande è quello della preghiera.

Per altre riflessioni sulle funzioni sociali delle preghiere, rimando al mio La sacra corona. Storia, sociologie e psicologia del rosario (Meltemi Editore, 2024).

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Effetto soglia

È capitato a tutti. Corriamo al piano di sopra per prendere la giacca, ma, una volta arrivati, ci dimentichiamo perché abbiamo fatto tutte quelle scale. Apriamo la porta del frigorifero e ci rendiamo conto di non ricordare perché l’abbiamo aperta. Siamo interrotti mentre dicevamo qualcosa a un amico e poi fatichiamo a ricordare dove eravamo rimasti.

La tentazione, in questi casi, è di chiamare in causa una distrazione, una memoria vacillante, una momentanea défaillance della mente, se non una qualche strisciante patologia. La psicologia ci dice che la responsabilità di questo strano fenomeno non va addebitata al nostro cervello, ma a un cambiamento di luogo, fisico o mentale.

Non a caso, gli scienziati della mente parlano di “effetto soglia”, in inglese location updating effect o doorway effect. In pratica, quando si varca la soglia di una porta e ci si sposta da una stanza all’altra, è possibile fare esperienza di una improvvisa, quanto momentanea, perdita della memoria a breve termine. Questo perché, quando passiamo da una stanza all’altra, non cambiamo solo ambiente fisico, ma anche ambiente mentale, perché la nostra memoria è condizionata dal contesto: cambiando contesto, i ricordi possono risentirne.

L’effetto soglia si verifica sia se la soglia in questione è una soglia fisica (come quando ci si sposta da una stanza all’altra) sia se la soglia è metaforica o virtuale (come quando si passa da un sito all’altro mentre si naviga in Internet).

Il luogo in cui si verificano gli eventi che ci accadono condiziona in maniera significativa il modo in cui i ricordi vengono immagazzinati dalla mente. Un ambiente noto e familiare ci permette di recuperare i ricordi in maniera più agevole rispetto a un ambiente con cui abbiamo poca dimestichezza. Ogni cambiamento spaziale, fisico o virtuale, può agire da marcatore di confine che divide e segmenta il nostro flusso di ricordi, organizzandolo in sezioni distinte.

Come affermano Gabriel Radvansky e David Copeland (2006), due psicologi che hanno indagato sperimentalmente il fenomeno, i processi cognitivi sono messi a soqquadro dai cambiamenti spaziali. Questo accade perché essi impongono agli individui di “aggiornare” la loro comprensione della situazione e modificare il loro “modello situazionale dell’ambiente”.

Gli stessi Radvansky e Copeland avanzano altre possibili interpretazioni dell’effetto soglia. È però suggestivo pensare che la nostra attività cognitiva non dipenda esclusivamente dal nostro cervello, come pure tendiamo a credere, ma dall’ambiente in cui essa ha luogo. È l’interazione tra mente e cervello, in altre parole, a decidere che cosa e come ricorderemo ciò che ricorderemo. Il contesto in cui viviamo è molto più importante di quello che pensiamo. Basta chiedere alla propria memoria.

Fonte: Radvansky, G. A., Copeland, D. E., 2006, “Walking through doorways causes forgetting: Situation models and experienced space”, Memory & Cognition, vol. 34, pp. 1150–1156.

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Sull’illusione degli anniversari

È pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivam. o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p. e. mutato affatto da quel ch’era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell’anno rispondente a quello dov’io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza benché illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 53).

È vero, come dice Leopardi, che gli anniversari allontanano il pensiero della morte e della distruzione, illudendoci che ciò che è avvenuto in passato, avvenga di nuovo, ciclicamente ed eternamente. Gli anniversari segnano il ritorno del ricordo, la consacrazione di un avvenimento, la sua eternazione, per così dire, attraverso la riproposta rituale dello stesso avvenimento che, così, scongiura il rischio dell’oblio e si instaura usque in aeternum nella nostra mente.  

Gli anniversari, come i rituali religiosi, consentono di attribuire un significato speciale a un evento, per quanto piccolo esso sia. Se ciò appare evidente negli anniversari che interessano intere collettività – l’anniversario dell’Unità d’Italia, della Liberazione, delle Torri gemelle ecc. – è altrettanto vero degli anniversari privati, personali: l’anniversario del matrimonio, della nascita (compleanno), della morte di mio padre, del mio lavoro ecc.

Si tratta di circostanze in cui abbiamo l’illusione di provare di nuovo sentimenti, emozioni, gioie e dolori che hanno segnato la nostra esistenza e le hanno dato la configurazione che conosciamo. Siamo quello che siamo (anche) in virtù degli anniversari che contraddistinguono la nostra vita. Per questo è importante celebrarli, come ricorda Leopardi, anche se a volte ci appaiono retorici e patetici.

Gli anniversari sono le pietre miliari che scandiscono e ripropongono le fasi della nostra vita. E che le conferiscono un significato eterno.

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“Se ne vanno sempre i migliori”

In occasione dei funerali è quasi d’obbligo. Dopo le rituali “sincere e sentite” condoglianze, bisbigliare o declamare a voce alta che “sono sempre i migliori che se ne vanno” è una di quelle frasi che trova immediata condivisione tra i presenti, i quali annuiranno convinti alla forza indubbia di questo atavico luogo comune. Anche perché, in un momento in cui non si sa che cosa dire e ogni parola sembra vana di fronte al “mistero” della morte, il “ricordo dei migliori” serve a riempire il vuoto e sollevare sé stessi e gli altri dall’imbarazzo, magari ricordando le “gesta memorabili” del defunto o gli aspetti maggiormente positivi della sua esistenza.

Certo, la sensazione di ipocrisia in questi momenti è forte. Il latino condolēre, da cui deriva il termine “condoglianze”, è composto da cŭm (“con”) e dolēre (“provare dolore”) e significa propriamente “provare dolore con”, “partecipare al dolore di”. Ma è dubbio che un estraneo che porga le sue condoglianze provi il medesimo dolore del marito, della moglie, del figlio o del genitore del defunto. La sua partecipazione alla sofferenza è puramente convenzionale. Si tratta, tuttavia, di un’ipocrisia ritualizzata, legittimata dalla tradizione, spesso apprezzata: un dispositivo convenzionale per rendere più tollerabile l’agonia del lutto.

Una buona dose di ipocrisia è presente anche quando si afferma che “se ne vanno sempre i migliori”. Basta pensarci. Se ad andarsene sono sempre i migliori, che ne è dei peggiori? Non muoiono mai? O si convertono anche loro in migliori al momento del trapasso? O forse l’appellativo di “migliori” serve una banale funzione consolatoria nei confronti dei sopravvissuti?

Curiosamente, il luogo comune “se ne vanno sempre i migliori” trova un forte alleato in un altro popolare modo di dire “L’erba cattiva non muore mai”, che lascia intendere che, per qualche motivo, chi vive a lungo è cattivo. Il premio per la bontà sarebbe dunque una vita breve, mentre ai cattivi sarebbe concesso continuare a comportarsi male a lungo. Del resto, come affermava il commediografo Greco Menandro (42 a.C. circa – 291 a.C. circa), “muore giovane chi è caro agli dei”. O, per dirla con il Leopardi (1798-1837) del canto Amore e morte: «Muor giovane colui ch’al cielo è caro». Ma, se le cose stanno in questi termini, ci si potrebbe domandare a che serve comportarsi bene e onestamente per tutta la vita, se poi non si possono godere a lungo le bellezze e i piaceri dell’esistenza. Un interrogativo inquietante che meriterebbe una risposta tratta da un manuale di filosofia etica.

Ma ritorniamo al luogo comune del “se ne vanno sempre i migliori”. La frequenza d’uso di questa massima fa sorgere il dubbio che dietro di essa si celi più di quanto non appaia a prima vista. L’apoftegma sembra nascondere atteggiamenti atavici nei confronti della morte, in cui si mescolano timore e speranza, angoscia e sollievo. Un’ambivalenza apparentemente incomprensibile, ma che è stata approfonditamente indagata dall’antropologia e dalla psicologia.

Secondo un’interpretazione classica (Frazer, 1985), gli uomini hanno un atteggiamento duplice nei confronti dei cari deceduti: da un lato, soffrono per la loro scomparsa, dall’altro temono che il contatto con essi possa avvicinarli incautamente alla morte. Di conseguenza, assumono una serie di precauzioni che prendono spesso la forma di riti di evitamento per liberarsi dei pericolosi spiriti dei trapassati. Tra queste forme di evitamento compare anche la tendenza a idealizzare i defunti e a trasformarli in modelli di virtù. Lodare i defunti risponde, dunque, a una funzione psico-antropologica di cui vi è traccia in tantissime popolazioni di tutte le epoche e latitudini.

Questa tesi di ordine antropologico è esemplificata dalla celebre massima latina, attribuita al legislatore Chilone di Sparta (620 a.C. circa – 520 a.C. circa), De mortuis nihil nisi bonum (“Non si parla male dei morti”), che richiama, appunto, il dovere di parlare bene dei defunti. Ma anche dalla locuzione meno nota, ma affine in spirito, Parce sepulto di Virgilio, rinvenibile in Eneide, III, 41 (traduzione: “Abbi rispetto per il sepolto” e, quindi, per il defunto). La frase è pronunciata dallo spirito di Polidoro, trasformato in una fronda che Enea afferra da terra per coprire l’altare del sacrificio eretto per Giove. Dal ramo il defunto così si rivolge a Enea: «Perché strazi, Enea, l’infelice? Parce sepulto. Risparmia deh! un sepolto, risparmia di bruttar le pure mani» (Virgilio, 1963, p. 46).

Il senso superficiale di entrambe le espressioni è che ai defunti è opportuno tributare il massimo rispetto e astenersi dal parlarne male. In realtà, tuttavia, dietro il richiamo al rispetto, si celano motivazioni più profonde, spesso inconsce.

Su tali motivazioni, ha scritto parole illuminanti Sigmund Freud (1856-1939). L’inventore della psicoanalisi riteneva che, nel nostro inconscio, ognuno di noi sia convinto della propria immortalità e che le persone si comportano in un modo molto singolare nei confronti del morto:

Ci asteniamo dal criticarlo, gli perdoniamo i suoi eventuali torti, sentenziamo: de mortuis nihil nisi bene e troviamo giusto che, nell’orazione funebre e nell’epitaffio non si celebrino che le sue lodi. Il rispetto per i morti, di cui pure i morti non hanno più alcun bisogno, è per noi più importante del rispetto per la verità, e, per la maggior parte di noi, anche del rispetto per i vivi» (Freud, 1915, p. 138).

Questo atteggiamento rimonta alla notte dei tempi e al particolare atteggiamento dell’uomo primitivo. Questi, secondo Freud, è piuttosto propenso a uccidere i propri nemici. Al tempo stesso, «il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. Ma gli spiriti dei nemici abbattuti altri non sono che l’espressione della sua coscienza per il sangue versato» (Freud, 1915, p. 143). Di qui una fondamentale ambivalenza che trova soluzione nel considerare i deceduti come persone migliori di quello che sono state. Questo atteggiamento, per Freud, è proprio anche dell’uomo civilizzato, anche lui parecchio incline ad augurare la morte ai suoi nemici, come rivelano espressioni come “Che la morte lo colga” che a tutti noi capita di concepire in alcuni momenti della nostra vita.

Così anche noi, considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini. È una bella fortuna che tutti questi desideri non posseggano l’efficacia che gli uomini preistorici attribuivano loro, giacché altrimenti sotto il fuoco incrociato delle maledizioni reciproche l’intera umanità, compresi gli uomini più buoni e saggi e le donne più dolci e belle, sarebbe già da gran tempo andata distrutta (Freud, 1915, p. 145).

Sull’ambivalenza dell’atteggiamento nei confronti dei defunti ha scritto anche l’antropologo Louis-Vincent Thomas (1922-1994), il quale, però, pone l’accento su un tipo diverso di duplicità:

La morte di una persona cara, a maggior ragione se si tratta dell’essere amato, comporta atteggiamenti molto ambivalenti, testimonianza dello smarrimento provato e della sua profondità. Tenuto sospeso a lungo tra la speranza e la disperazione, vivendo di illusioni, il parente non può sopportare questo stato: all’ignoranza preferisce infine la certezza, fosse anche quella del decesso. Giunge anche a immaginarsi il male, a spiare i più piccoli segni, tutto questo in un clima di fatale impotenza. Pian piano si augura che la morte venga presto per sollevare il morente e anche se stesso; ma qualche istante dopo desidera ritardare il più possibile l’ultimo respiro. Non si perdona al moribondo di tenerci legati a lui, di condizionare la nostra vita; e subito dopo lo si rimprovera di lasciarci. Ci si lascia affascinare da ricordi della vita in comune; poi ci si sorprende a immaginare lucidamente quella che sarà l’esistenza senza di lui… Forse ciò che tormenta di più chi assiste il malato è il fatto di dovergli costantemente nascondere la verità, fingere davanti a lui (Thomas, 1976, pp. 321-322).

Thomas fa qui riferimento alla ambivalenza del caregiver che, da un lato, vorrebbe che la persona cara vivesse ancora a lungo, dall’altro, stremato e afflitto dal pesante lavoro di cura, desidera, non sempre inconsapevolmente, che la morte venga presto a porre fine alle sue afflizioni. In particolare, chi assiste è straziato dal continuo oscillare tra verità e menzogna, tra il fingere di non sapere che la fine della persona amata è vicina e il rimorso per non aver rivelato al sofferente le sue reali condizioni.

Anche questa particolare forma di duplicità favorisce un atteggiamento benevolo nei confronti del defunto. Considerarlo uno dei “migliori che se ne vanno” serve, in questo caso, ad attenuare il rimorso per aver desiderato, seppure ambiguamente, la sua morte e a rendere più accettabile il sollievo derivante dal fatto di essere consapevole che il supplizio della cura ha avuto ormai termine.

Se, dopo la morte, dunque, tutti appaiono più buoni è perché questo giudizio consente di soffocare la profonda ambivalenza che avvertiamo nei confronti del defunto, che deriva sia da un freudiano quanto ancestrale timore della vendetta degli spiriti sia dal senso di colpa per aver desiderato la morte della persona amata in fin di vita.

Questo atteggiamento provoca una forma apotropaica di memoria selettiva per cui si ricordano solo i lati positivi della vita e della personalità del defunto, mentre tutti gli aspetti più negativi passano in secondo piano o sono del tutto dimenticati. Ciò contribuisce a mitigare il dolore del lutto e a mantenere un equilibrio psichico che rischierebbe di essere compromesso da rimorsi, sensi di colpa e timori ancestrali. 

I “migliori che se ne vanno” sono, dunque, tali non perché lo siano necessariamente, ma affinché siamo in pace con la nostra coscienza e ci liberiamo della paura del contagio della morte che, ancora oggi, affligge l’umanità contemporanea che, pure, fa di tutto per rimuoverla dal proprio orizzonte di vita.

Riferimenti

Frazer, J. G., 1985, La paura dei morti nelle religioni primitive, Mondadori, Milano.

Freud, S., 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte in Idem, 1989, Opere. 8 Introduzione alla psicanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati-Boringhieri, Torino.

Lorenzetto, S., 2019, Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia.

Thomas, L.-V., 1976, Antropologia della morte, Garzanti, Milano.

Virgilio, 1963, L’Eneide.

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Linguistiche del caso Cerciello Rega

Talvolta, i casi giudiziari sono interessanti non solo per i loro aspetti penali o criminali, ma anche per i loro aspetti linguistici.

Prendiamo il caso Cerciello Rega, che ha avuto una forte risonanza mediatica.

Come è noto, il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega fu ucciso a Roma con undici coltellate la notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 per mano del giovane americano Lee Finnegan Elder. Insieme a questi un altro americano, Gabriel Christian Natale Hjorth, non responsabile direttamente dell’omicidio in quanto impegnato in una colluttazione con il compagno di pattuglia di Cerciello, Andrea Varriale.

La vicenda è complessa e, ancora oggi, non tutti i suoi aspetti sono stati chiariti. Mi limiterò a offrire tre osservazioni linguistiche di un certo interesse.

La prima è già stata fatta da me in un post di qualche anno fa, che qui ripeto quasi con le medesime parole.

I due americani sostennero di aver aggredito il carabiniere perché convinti che fosse uno spacciatore con cattive intenzioni nei loro confronti. Gli investigatori ribatterono che i due statunitensi conoscevano perfettamente l’identità dell’ucciso e chiamarono in causa il contenuto di diverse intercettazioni relative ad alcune conversazioni degli stessi.

Al riguardo, i difensori di Lee Finnegan Elder denunciarono errori e omissioni nelle traduzioni delle intercettazioni. In particolare, in una conversazione in cui Elder riferisce di un dialogo con la madre, l’americano afferma: «When I called mom and told her… police station and they’re saying I killed a cop». Questa frase può essere tradotta: «Quando ho chiamato mamma e le ho detto… stazione di polizia e dicono che ho ucciso un poliziotto». Il perito addetto alla traduzione rese, però, la frase in questo modo: «Ho chiamato casa dicendo di aver fatto la decisione sbagliata colpendo un poliziotto». Insomma, una sorta di confessione, dalle conseguenze disastrose per l’americano. Un esempio di come tradurre male una espressione nel corso di un’inchiesta giudiziaria può significare la condanna o l’assoluzione di una persona, come ho abbondantemente osservato nel mio libro 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo.

Altra osservazione linguistica.

Uno degli aspetti più dibattuti del caso è stata l’effettiva comprensione del termine “carabiniere” da parte dei due americani. Secondo la difesa, infatti, Lee Finnegan Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth non conoscevano sufficientemente l’italiano per comprendere il significato del termine “carabiniere”, titolo con il quale Cerciello Rega e Varriale si erano presentati a loro dopo aver ricevuto la segnalazione di un reato compiuto dagli stessi.

Il fatto interessante è che, mentre la Corte di Assise di Appello aveva ritenuto si trattasse di parola «ampiamente conosciuta anche all’estero», la Cassazione ha obiettato che tale assunto fosse una mera ipotesi congetturale, «non essendo in alcun modo sviluppato, né correlato a ragionevoli termini esperienziali, logici, oppure a dati obiettivi».

Su tale ipotesi, secondo la Corte di legittimità, «non può fondarsi il convincimento circa la esatta percezione e comprensione della qualifica in discussione da parte dell’imputato Elder, del quale la stessa Corte di merito ha messo in rilievo, a più riprese, l’ignoranza della lingua italiana».

La Corte di Cassazione ha, dunque, riconosciuto che non è legittimo presupporre che, all’estero, tutti sappiano chi siano i carabinieri e che non bisogna dare per scontato che un concetto sia noto agli altri solo perché noto a noi. Un duro colpo all’etnocentrismo linguistico che è talvolta causa di profonde incomprensioni tra individui di paesi diversi.

Una terza osservazione è stata proposta dalla linguista Licia Corbolante, in un post risalente all’epoca dell’omicidio. Corbolante faceva notare che la notizia dell’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega era stata riportata in maniera errata da alcuni media di lingua inglese.

In particolare, con riferimento al grado del carabiniere italiano, questo era stato tradotto, tramite un palese calco, con Vice-brigadier. Il problema è che, mentre il brigadiere italiano è un sottufficiale, «negli ordinamenti militari di alcuni paesi di lingua inglese la parola brigadier indica un grado elevato nella gerarchia militare» tanto che «nell’esercito del Regno Unito si chiama brigadier l’ufficiale di grado superiore a colonel e inferiore a major general. Nell’esercito, nella marina e nell’aviazione degli Stati Uniti lo stesso grado prende invece il nome di brigadier general». 

L’errore non è di poco conto al punto che la stessa Corbolante osserva: «Forse qualche lettore anglofono con competenze militari si sarà domandato perché mai in Italia un alto ufficiale stesse pattugliando le strade di Roma per recuperare uno zainetto rubato (a un lettore italiano farebbe probabilmente lo stesso effetto leggere di un “vicegenerale” coinvolto in quella che doveva essere un’operazione di routine)».

Le tre osservazioni da me proposte sono univoche quanto alle conseguenze pratiche e concrete degli errori di traduzione e delle incomprensioni linguistiche. Quelli che possono sembrare banali fraintendimenti, insignificanti travisamenti, piccole sviste possono dar luogo a drammi reali che possono decidere della vita e della morte di una persona, della sua condanna o della sua innocenza, della rappresentazione della vicenda in un modo o in un altro.

Si tratta di situazioni la cui importanza tendiamo a sottovalutare o sminuire ma che, come dimostra la storia, si verificano con una certa frequenza e meritano tutta l’attenzione di chi ritiene che la corretta traduzione o interpretazione di una parola non sia un orpello di cui si può fare tranquillamente a meno.

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Pubblicato “I profeti dell’inganno” di Leo Löwenthal e Norbert Guterman

Questi stranieri nemici dell’America sono come il parassita che depone le uova dentro il bozzolo della farfalla, divora la larva e, quando il bozzolo si schiude, l’insetto nocivo, il parassita ha preso il posto della farfalla

Un demagogo

Mi fa molto piacere annunciare la pubblicazione, da parte della PM Edizioni di I profeti dell’inganno (titolo originale: Prophets of Deceit) di Leo Löwenthal e Norbert Guterman con mia traduzione e introduzione.

Uscito nel 1949, Prophets of Deceit: A Study of the Techniques of the American Agitator di Leo Löwenthal (1900-1993) e Norbert Guterman (1900–1984) è uno dei cinque importanti volumi degli Studies in Prejudice (tra cui il celeberrimo La personalità autoritaria di Theodor W. Adorno, Else Frenkel-Brunswik, Daniel Levinson e Nevitt Sanford) che, sotto la direzione generale di Max Horkheimer, l’Istituto di ricerche sociali, intorno a cui gravitava l’attività della cosiddetta Scuola di Francoforte, pubblicò insieme all’American Jewish Committee. Tali studi dimostrarono che l’antisemitismo e il pregiudizio sono espressione di un atteggiamento legato a una struttura autoritaria del carattere che predispone gli individui a essere più vulnerabili alle idee totalitarie e antidemocratiche. Nell’ambito degli StudiesProphets of Deceit pone al centro dell’indagine le tecniche e i trucchi che gli agitatori americani – antesignani degli odierni populisti e gentisti – utilizzavano negli anni Trenta-Cinquanta del XX secolo per conquistare il consenso del proprio uditorio ed era stato concepito da Theodor Adorno come il primo di una serie di testi per immunizzare il pubblico da queste tecniche.

Lo studio di Löwenthal e Guterman si basa sull’analisi degli scritti e dei discorsi di una dozzina di agitatori dell’epoca e rappresenta un unicum negli studi sul populismo sia per il taglio interpretativo adottato – che combina criticamente sociologia e psicoanalisi – sia per la solida base empirica su cui si fonda. Insomma, un raro esempio di buona teoria e originale ricerca empirica.

Gli autori enucleano 21 temi prediletti dagli agitatori, categorizzandoli ed esponendoli nella loro contraddittorietà interna fino a rivelare la loro pochezza contenutistica, abilmente dissimulata dietro una coltre di formule verbali preconfezionate e ripetute all’infinito. L’esito di tanto certosino lavoro è una disamina minuziosa delle tecniche e delle strategie abitualmente adoperate dai demagoghi del tempo per conseguire gli effetti desiderati; una disamina che conserva inalterata tutta la sua importanza anche nella nostra epoca.

L’estrema attualità del testo di Löwenthal e Guterman sta nel fatto che la figura dell’agitatore – imbellettata e aggiornata – è ancora profondamente e inquietantemente presente nel mondo odierno in forme nemmeno troppo distanti da quelle di cui discutevano i due autori oltre settanta anni fa. I temi dell’agitatore dei tempi di Löwenthal e Guterman sono ancora, mutatis mutandis, i temi del populista di oggi: l’idea che forze oscure complottino per decidere le sorti del mondo; l’immigrato come capro espiatorio; l’odio nei confronti di stranieri, banchieri e internazionalisti; il ricorso alla provocazione come causa scatenante della guerra; l’apofasi (nominare senza nominare) che permette di attaccare il nemico di turno, senza fare nomi, ma alludendo e insinuando. Tutto un repertorio retorico e strategico ancora straordinariamente attuale e del quale l’elettore di oggi, come quello di ieri, deve prendere consapevolezza se non vuole correre il rischio di rimanere impaniato nelle trappole verbali di populisti e demagoghi.

Un libro immancabile per il lettore che vuole capirne di più in un’epoca di neo- e webpopulismi come quella in cui viviamo.

Questa è la pagina del mio sito dedicato all’opera, dove spero di inserire gradualmente contenuti riguardanti il populismo e le tecniche di persuasione.

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