“Come sei diventato grande!”

È un fatto che non finisce mai di stupirci. Incontriamo per caso qualcuno che non vedevamo dalla sua infanzia o poco oltre ed esclamiamo sconcertati: «Come sei cresciuto!» oppure “Come sei diventata grande!”. La sorpresa è autentica, ma il fatto che un bambino si sia trasformato in adolescente o una bambina in giovane adulta non dovrebbe essere la cosa più ovvia del mondo? Sarebbe strano il contrario: una bambina che rimane sempre tale, un bambino che non diventa mai grande. E allora perché ci meravigliamo al punto da restare a bocca aperta?

Lo stesso accade quando ci capita di incontrare un amico/a che non vedevamo da tempo e che ci appare inevitabilmente più vecchio/a. In questo caso, non commentiamo, di solito, il cambiamento per “buona educazione” o, se lo facciamo, adottiamo un tono di scherzo o di rassicurazione (“Non sei cambiato per nulla!”, “Sei sempre la stessa!”). Lo stupore per quel volto trasformato dal tempo, però, rimane. A tal punto che spesso siamo indotti a fugaci, quanto grevi, riflessioni sul trascorrere degli anni. Come si spiega tanto sbalordimento di fronte a un processo così prevedibile? Per quale motivo rimaniamo turbati di fronte a ciò che dovremmo già sapere, ossia che il tempo avanza inesorabilmente per tutti?

È possibile ipotizzare varie spiegazioni.

Una di queste ha a che vedere con la psicologia cognitiva e in particolare con quel fenomeno che va sotto il nome di “euristica dell’ancoraggio” (Kahneman, 2013; Rumiati, Bonini, 2001). Con questo termine, si intende il fatto che le persone tendono ad affidarsi alle prime informazioni acquisite, comprese le prime immagini, che fungono da ancora quando, in seguito, si tratta di prendere una decisione o formulare un giudizio. L’immagine percepita per prima esercita l’effetto di un vincolo mentale e condiziona ogni valutazione successiva. L’ancoraggio è un meccanismo talmente efficace che persino l’introduzione di nuove informazioni rimane arenata alla valutazione originale, definendo un circolo vizioso conservatore in cui qualsiasi revisione riesce ad annullare completamente il giudizio iniziale solo con estrema difficoltà. È una conseguenza della natura conservatrice del pensiero umano. Un esempio classico sono le “prime impressioni” che le persone si fanno degli altri: queste, di solito, sono estremamente coercitive e occorrono molte nuove informazioni per superarle e giungere a un giudizio più aderente alla realtà. È stato dimostrato, fra l’altro, che la consapevolezza del problema dell’ancoraggio non è un antidoto adeguato ai suoi effetti. In alcuni esperimenti, si è notato che i pregiudizi persistono anche dopo che i soggetti del gruppo sperimentale ne sono stati informati e hanno ricevuto l’indicazione di cercare di evitarli o porvi rimedio (Heuer Jr., 1999, pp. 151-152).

Allo stesso modo, l’immagine del bambino o dell’amico che non vediamo da tempo si impone alla nostra mente come un’ancora o un punto di partenza rispetto al quale formuliamo ogni successiva valutazione. La percezione è condizionata dall’immagine precedente “più giovane” sulla quale agisce conflittualmente l’immagine attuale, producendo un momentaneo cortocircuito psicologico, di solito ricomponibile in poco tempo, che suscita sconcerto e confusione.

Un’altra possibile spiegazione, sempre in tema di psicologia cognitiva, chiama in causa la cosiddetta “euristica della disponibilità” (Sutherland, 2010). Anche questa è una scorciatoia mentale che adoperiamo al momento di compiere una decisione o esprimere una valutazione.  Si basa sul presupposto implicito secondo cui ciò che viene facilmente richiamato alla mente tramite il ricordo o l’immaginazione – ed è, dunque, “disponibile” alla coscienza –, viene ritenuto per ciò stesso importante fino a essere assunto come criterio di riferimento e confronto. In sintesi, gli individui tendono a orientare le proprie valutazioni sulle persone e sulle cose in base alle impressioni, informazioni o immagini che si presentano per prime alla mente. Tale disponibilità inganna il cervello inducendolo a credere, in assenza di altre informazioni o immagini, che le cose stiano e saranno sempre così, anche se il cervello sa razionalmente che ciò non può essere vero. In presenza di ulteriori informazioni o immagini, invece, queste vengono soppesate, per così dire, in riferimento alle informazioni o immagini conservate in memoria. L’esito è una sensazione di straniamento che indugerà per qualche secondo fino a che ricordo e percezione attuale non giungeranno a un qualche tipo di compromesso, accompagnato spesso da pensierose considerazioni sul tempo che trascorre velocemente.

Così, il confronto tra l’immagine precedente del bambino, che la nostra mente recupera agevolmente essendo immediatamente disponibile alla coscienza, e quella attuale del giovane adulto genera una sensazione perturbante. Sebbene siamo razionalmente consapevoli che il bambino non poteva non diventare grande, il fatto che non lo abbiamo visto crescere gradualmente induce in noi un senso di sorpresa perché il processo di sviluppo è avvenuto senza che ne siamo stati testimoni. È stata, per così dire, sottratta alla nostra psiche una fetta di vita di quella persona e abbiamo bisogno di un po’ di tempo per colmare la distanza tra il prima e il dopo maturata, nel frattempo, nel nostro cervello. Lo stesso avviene quando incontriamo dopo tanto tempo un amico che appare irrimediabilmente incanutito. L’immagine che si presenta alla nostra mente – l’immagine mentalmente “disponibile” – è quella dell’amico giovane che conserviamo dall’ultima volta che l’abbiamo visto e che, improvvisamente, contrasta con l’immagine attuale, destando inevitabilmente stupore e turbamento.

Agisce poi indubbiamente la cosiddetta “legge psicologica dell’inerzia” (Gilovich, 1993) ovvero la tendenza a restare attaccati alle prime opinioni, rifiutando di cambiare prospettiva rispetto a determinate convinzioni, anche in presenza di forti ragioni contrarie. Questa tendenza, che si basa sul principio dell’economia mentale per cui il cervello umano tende ad evitare, quando possibile, l’elaborazione ex novo delle informazioni ricevute, fa sì che, nella mente umana, esistano degli schemi che rifiutano i dati contrastanti, se non nel momento in cui quegli schemi non sono più possibili, per esempio quando la mole di informazioni è troppo grande o quando le informazioni possedute non reggono al confronto con la realtà. Questa “legge” spiega perché gli esseri umani rimangono spesso attaccati a idee che pure sembrerebbe più logico modificare. Spesso, ad esempio, abbandonare una convinzione politica superata o una credenza superstiziosa è difficile proprio per questa umana tendenza all’inerzia psicologica. È, cioè, più facile rimanere attaccati alle prime opinioni che metterle in gioco e analizzarle criticamente.

Allo stesso modo, posti di fronte all’immagine recente di un individuo che non vedevamo da tempo, abbiamo bisogno di qualche minuto per superare l’inerzia vischiosa prodotta in noi dal ricordo precedente dello stesso individuo. La persistenza dell’immagine di un tempo agisce in maniera così autoritaria che diventa difficile per noi “aggiornarla” immediatamente. È come se, in qualche suo anfratto, la nostra mente non riuscisse a concepire che il tempo trascorre anche per coloro che non incontriamo regolarmente.  E tale inerzia produce meraviglia e perplessità.

Un’ultima possibile spiegazione dello stupore che proviamo quando ci accorgiamo che il bambino che non vedevamo da tempo “è diventato grande” sta forse nel fatto che esso esprime semplicemente il rifiuto di accettare il trascorrere del tempo: non “vogliamo” che il tempo passi per gli altri perché ciò significa che passa anche per noi e che ci avviciniamo inesorabilmente alla vecchiaia e, dunque, alla morte, come sanno bene i genitori che commentano stupiti la crescita dei propri figli che “fino a ieri giocavano ancora con bambole e trenini” e che adesso sono sposati con figli. “Il bambino diventato grande” potrebbe avere, dunque, su di noi lo stesso effetto di un memento mori e attivare una serie di meccanismi di fronteggiamento o evitamento di cui la sensazione di meraviglia che si prova in quei momenti di “riconoscimento” è solo una modalità. Restiamo colpiti dal tempo che passa e compensiamo la malinconia che ne deriva con una sorta di patetico diniego (“No, non è possibile che sia già trascorso tutto questo tempo!”) su cui il buon senso arriva presto ad avere la meglio, lasciandoci leggermente avviliti.

Insomma, dietro una esclamazione così apparentemente banale quale “Come sei diventato grande!” si celano verità psicologiche e istinti filosofici profondi che rimandano al mistero del tempo e della morte. Un mistero che non riusciamo ad accettare serenamente e che suscita paura e angoscia. Oppure, come quando incontriamo bambini diventati adulti e adulti diventati vecchi, sorpresa e sconcerto.

Riferimenti

Gilovich, T., 1993, How We Know What isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, The Free Press, New York.

Heuer Jr., R. J., 1999, Psychology of intelligence analysis, Center for the Study of Intelligence, Central Intelligence Agency.

Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.

Rumiati, R., Bonini, N., 2001, Psicologia della decisione, Il Mulino, Bologna.

Sutherland, S., 2010, Irrazionalità, Lindau, Torino.

 

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Amore della patria e amore della gloria

Moltissime volte anzi la più parte si prende l’amor della gloria per l’amor della patria. P. e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d’Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell’amor della gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità né utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli Spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche presso antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perché il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo (Giacomo Leopardi, 2022, Zibaldone, Mondadori, Milano, p. 58).

E se l’altruismo non fosse altro che una forma travisata di egoismo? Se i sacrifici da noi compiuti per la “famiglia” o per i “figli” non fossero altro che atti al servizio dell’esaltazione del nostro ego sotto mentite spoglie?

È questo quello che sembra chiedersi Giacomo Leopardi nella riflessione posta al principio di questo post. Del resto, il sospetto che molte azioni eseguite nel nome dell’altro abbiano luogo, in realtà, nel nome del sé fa spesso capolino nei nostri pensieri più cinici.

Il servigio reso alla propria amata non ha forse l’obiettivo di conquistare o consolidare il suo amore per noi?

La condotta “disinteressata” del volontario non trova spesso la sua spiegazione nel desiderio di sentirsi bene con sé stessi o sopire un senso di colpa?

Il lavoro che ci chiede di rimanere in ufficio ben oltre le ore previste e che giustifichiamo chiamando in causa il nobile “dovere” non trova, invece, la sua ratio nelle maggiori entrate economiche che ne derivano e/o nell’accrescimento del nostro status sociale (“È un grande lavoratore!”)?

Le lunghe, monotone preghiere e funzioni religiose cui si sottopone il credente fervido non hanno forse la finalità di conquistare un posto nell’alto dei Cieli e salvare la propria anima?

Il terrorista che si fa esplodere nel nome di Allah non ambisce forse a essere accolto in quello speciale paradiso islamico popolato da 72 (ma ci sono dubbi) vergini purissime pronte a dedicare la propria vita ultramondana all’eroe che si è fatto esplodere?

Infine, come osserva Leopardi, l’estremo sacrificio compiuto a favore della patria non potrebbe nascondere un gesto teso a promuovere la nostra gloria e, quindi, celare una motivazione egoistica?

Domande impertinenti, certo. Sicuramente ciniche. Ma forse ha ragione il poeta recanatese quando dice che “il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo”.

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Il comma 22 del rosario

C’è qualcosa nella recita del rosario che espone il credente a un cortocircuito psicologico, una antinomia costitutiva, una impossibilità di fondo. Lo definisco il “comma 22 del rosario” in analogia con la situazione paradossale descritta dallo scrittore Joseph Heller nel romanzo Catch 22 del 1961.

Ricorderete che il comma 22 del romanzo recita: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.

Il comma 22 del rosario, mai esplicitato da nessuno, potrebbe invece recitare: “Per conseguire i benefici del rosario bisogna recitarlo bene, ma è impossibile recitare bene il rosario per cui è impossibile trarne beneficio”.

Perché è impossibile recitare bene il rosario?

Per recitare correttamente il rosario e trarne gli auspicati benefici spirituali, il fedele deve contemporaneamente fare tre cose diverse, dedicando a ognuna la propria fervida e completa attenzione. Deve recitare una serie di orazioni, meditare su alcuni misteri della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo e formulare un’intenzione (ad esempio, chiedere una grazia, imitare una virtù o distruggere un peccato). Ma è umanamente possibile dire una cosa, meditarne un’altra e farne un’altra ancora con la medesima energia mentale?

Per la psicologia, siamo di fronte a un compito di multitasking che richiede che le proprie risorse attentive siano dedicate con la medesima intensità a ogni attività. Il problema è che le risorse attentive sono limitate e le attività sono costrette a entrare in competizione per accaparrarsi quanta più energia possibile. La conseguenza è che, a meno che alcune attività non siano completamente automatizzate, non è possibile svolgerle simultaneamente con la stessa intensità. Sarà necessario, allora, distribuire la propria attenzione in maniera differenziale, privilegiando alcune attività a scapito di altre, così che necessariamente alcune di esse non potranno essere elaborate con il medesimo livello di efficienza.

Se un compito richiede molta attenzione, ne resterà pochissima per un altro. Se due compiti interferiscono tra loro, la loro esecuzione ne risentirà inevitabilmente. L’alternativa è automatizzare un compito per liberare energie per gli altri. Un processo automatizzato è un processo al quale si dedica, in origine, piena attenzione e che poi, con l’esercizio, diventa talmente automatico da essere svolto in maniera quasi inconscia. È il caso della guida dell’automobile o dell’uso di uno strumento musicale. Inizialmente, queste attività richiedono molto impegno ed errori frequenti. Con l’esercizio, la prestazione diventa più fluida e rapida fino a non richiedere quasi più un monitoraggio cosciente.

Applicate alla recita del rosario, queste osservazioni comportano l’impossibilità di svolgere le attività di recitazione, meditazione e formulazione delle intenzioni in maniera simultanea con intensità equivalente. L’alternativa è automatizzare uno o due processi in modo che sul terzo possa convergere quasi tutta l’energia attentiva. Ciò vuol dire, ad esempio, dedicare tutta la propria attenzione alla meditazione dei misteri, recitando in maniera meccanica i Padre nostro e le Ave Maria o formulando in maniera convenzionale le intenzioni.

Ma ciò è esattamente quello che un buon cristiano non dovrebbe fare: fervore e devozione dovrebbero essere distribuite paritariamente tra tutti gli elementi del rosario. Ne deriva un paradosso: la recita ideale del rosario contrasta con le leggi della mente umana ed è dunque, di fatto, impossibile. Essendo impossibile, il credente non può trarne alcun beneficio spirituale o religioso.

Di qui il comma 22 del rosario: “Per conseguire i benefici del rosario bisogna recitarlo bene, ma è impossibile recitare bene il rosario per cui è impossibile trarne beneficio”.

Si tratta di una delle tante antinomie cui la religione espone il credente. È per questo che la celebre frase attribuita a Tertulliano, ma forse spuria, “Credo quia absurdum” (“Credo perché è assurdo”) è tanto rappresentativa della religione: perché questa fa leva sulle sue contraddizioni per continuare a esistere, anzi glorifica le proprie contraddizioni nella credenza che “le vie del Signore sono infinite” e non sempre perscrutabili. Ed è per questo, forse, che i credenti di tutto il mondo continueranno a recitare il rosario: Oro quia absurdum.

Per saperne di più sulle “sottigliezze del rosario”, rimando ovviamente al mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi Editore, 2024).

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“I bambini sono la bocca della verità”

Nel film danese Il sospetto (2012) di Thomas Vinterberg, Lucas è un uomo separato con figlio che presta servizio con soddisfazione in un asilo. I bambini gli sono molto affezionati e tutti ammirano il suo lavoro. Una bambina, in particolare, Klara, figlia del suo migliore amico Theo, sviluppa una cotta infantile per lui e gli fa un regalo che, però, Lucas rifiuta. Per vendicarsi, la bambina confessa alla direttrice della scuola di aver subito attenzioni pedofile da Lucas. Dopo qualche giorno di esitazione, la direttrice lo licenzia e invita i genitori degli altri bambini a cercare segni di abuso nei propri figli. La donna è convinta che i bambini non mentano mai e, quindi, che Klara dica la verità. Lucas viene isolato dagli amici e dalla ex moglie, viene insultato e picchiato, nonostante sia del tutto innocente. Dopo un po’, Klara confessa timidamente ai genitori di essersi inventata tutto, mentre le accuse degli altri genitori si scoprono del tutto infondate. Alla fine del film, sembra che Lucas sia riuscito faticosamente a riguadagnare la stima dei suoi amici e delle persone che lo circondano, ma, proprio nella scena finale, ambientata in un bosco dove si tiene una seduta di caccia, qualcuno, che lo spettatore non vede, tenta di ucciderlo con un colpo di fucile, mancandolo di poco. Il messaggio conclusivo del film sembra essere che, quando si è marchiati da un’accusa infamante come quella di essere un pedofilo, è impossibile riabilitarsi davvero agli occhi della comunità, perché una macchia aleggerà sempre sulla testa del sospetto.

La convinzione che i bambini siano “la bocca della verità” e che la loro innocenza impedisca loro di mentire è molto diffusa nella nostra cultura. Il senso comune vuole che i bambini, essendo tali, non posseggono quella “malizia” che, nei grandi, favorisce la menzogna. Sono candidi e, quindi, sempre veritieri. Questa convinzione risalta ancora di più quando i bambini figurano come testimoni o vittime di abusi sessuali o violenze. «Se un bambino afferma di essere stato abusato da un adulto», si ritiene generalmente, “deve essere per forza vero». Quanta attendibilità c’è in questa opinione? È vero che i bambini “non mentono mai”?

La ricerca psicologica ha da tempo rivelato che la mente di un soggetto in età evolutiva presenta delle caratteristiche che invitano a prendere sempre con molta cautela le sue affermazioni e, che, in occasione di sospetti abusi sessuali o violenze, è necessario adottare tecniche e modalità di intervista specifiche se non si vuole correre il rischio di ottenere testimonianze non attendibili. Ad esempio, la memoria di un bambino, soprattutto se molto piccolo, non è paragonabile a quella di un adulto. Secondo alcuni autori, è impossibile ricordare eventi verificatisi prima della maturazione dell’ippocampo (cioè prima dei due-tre anni) e, in ogni modo, più i bambini sono piccoli meno informazioni forniscono durante le deposizioni circa un fatto cui hanno assistito. Anche se il ricordo libero dei piccoli è accurato quanto quello degli adulti, esso è quasi sempre povero (almeno nei molto piccoli) per cui un bambino tende a ricordare pochi elementi di un episodio che gli è accaduto. Ciò anche perché quello che è saliente per un adulto può non esserlo per un bambino (per un bambino la rilevanza di una minaccia proferita da un malintenzionato a un adulto può passare in secondo piano rispetto a un giocattolo presente in scena). I bambini, inoltre, hanno una capacità di riconoscere i volti e di collocare gli eventi nel tempo e nello spazio inferiore agli adulti. Questo limite è sempre da prendere in considerazione quando si interroga un bambino su tempi e luoghi di un misfatto o quando lo si invita a riconoscere un volto fra tanti (De Cataldo Neuburger, 1988).

Un altro limite è dato dalla tendenza dei bambini a dire di sì, anche quando dovrebbero dire di no, a molte domande poste in maniera diretta. Ciò accade sia perché il bambino può voler “far piacere” all’adulto interrogante nella convinzione che questo è quello che vogliono i grandi; sia perché di fronte, ad esempio, a una domanda come «Hai visto un uomo scendere le scale?», un bambino può rispondere di sì, anche quando non ha visto nessuno scendere le scale, solo perché la domanda è posta in maniera tale da avere una risposta sì/no. La ricerca ha poi messo in evidenza che la memoria che un bambino ha di un avvenimento è migliore se l’evento è stato vissuta in prima persona o se il bambino è personalmente coinvolto nell’episodio anziché essere stato un semplice spettatore (Mazzoni, 2003, p. 105).

Inoltre, i bambini sono più suggestionabili degli adulti: tendono più di questi a farsi fuorviare da informazioni errate o domande tendenziose, soprattutto quando chi pone le domande è percepito come una figura autorevole. In un esperimento condotto dalla psicologa Giuliana Mazzoni, alcuni bambini di sei e nove anni assistevano a una scena.

Il giorno dopo venivano fatte loro delle domande fuorvianti sull’evento a cui avevano assistito. Ad esempio veniva chiesto: «Ti ricordi a che ora è entrato in classe il signore che aveva una cartella rossa sotto il braccio?» mentre invece l’uomo aveva un libro in mano. Nel compito di riconoscimento successivo, che avveniva dopo una settimana, il 60% circa dei bambini di sei anni ha scelto la risposta suggerita nella domanda, mentre la percentuale di bambini di nove anni era un po’ inferiore al 40%. Risultati come questo indicano che è in fondo sufficiente una sola domanda mal fatta perché la maggioranza di un gruppo di bambini di sei anni nel successivo compito di memoria riportino l’informazione suggerita anziché ciò che avevano visto realmente (Mazzoni, 2003, p. 108).

Non è infrequente, infine, che i bambini abbiano falsi ricordi (D’Ambrosio, Supino, 2014). Una letteratura molto cospicua ha ormai acclarato che è molto facile impiantare nelle giovani menti dei più piccoli ricordi che non corrispondono alla realtà. Un celebre esperimento condotto da Elizabeth Loftus e Jacqueline Pickrell (1995) dimostrò come sia relativamente semplice introdurre nella memoria di un quattordicenne il ricordo di essersi perso in un centro commerciale all’età di cinque anni e di essere stato ritrovato in lacrime da un anziano avventore. Basta “suggerirgli” il ricordo e sostenere la menzogna con la complicità dei familiari e l’autorevolezza degli sperimentatori.

Falsi ricordi possono accadere anche a persone stimate molto intelligenti. Il celebre psicologo ginevrino Jean Piaget fu convinto fino all’età di 15 anni di aver subito un tentativo di rapimento quando aveva due anni ed era a spasso con la babysitter. Era talmente convinto, che quando la babysitter confessò alla famiglia che per tredici anni aveva mentito sull’episodio, forse per nascondere una sua disattenzione o una scappatella con il fidanzato del momento, non riusciva proprio a crederci. Ecco come lui stesso racconta l’episodio:

Ero nel passeggino, e stavo andando con la tata verso gli Champs Elysées, quando un uomo tentò di rapirmi. Fui trattenuto dalla cinghia che mi teneva fermo, mentre la tata tentava coraggiosamente di mettersi fra me e il rapitore. Si procurò parecchi graffi. Riesco ancora a vedere vagamente i segni sul suo viso. Intorno a noi si radunò una folla di persone, arrivò un poliziotto con un mantello corto e un manganello bianco e l’uomo scappò. Riesco ancora a vedere l’intera scena, e riesco addirittura a individuare dove e accaduto, vicino alla stazione della metropolitana (cit. in Vannucci, 2008, p. 82).

Sebbene sia veramente difficile non credere a un bambino che continua a ripetere di essere stato vittima di abusi o altre violenze, gli psicologi Cavedon e Calzolari affermano che, al momento di chiedere a un bambino di testimoniare, è necessario tener presenti alcune regole chiave. Innanzitutto, in considerazione del fatto che i bambini ritengono sempre che i grandi sappiano tutto e siano per definizione credibili – credenze che aumentano la suggestionabilità dei piccoli – è importante creare un ambiente distensivo e accogliente dove il bambino si senta a proprio agio e possa giocare e disegnare. Inoltre, bisogna instaurare un rapporto amichevole in cui il bambino si senta trattato alla pari e acquisti fiducia nell’adulto.

Ancora, è necessario interrogare il bambino appena dopo il fatto e, se possibile, solo una volta. Gli interrogatori ripetuti nel tempo sono, infatti, la maggior fonte di distorsione del ricordo e quindi di suggestionabilità nel bambino. Infine, è essenziale ricordare che il pensiero dei bambini spesso segue regole che non sono quelle del pensiero adulto. Prima di interrogare un bambino è necessario appurare il suo sviluppo cognitivo (anche in base al rendimento scolastico), la sua capacità di utilizzare il linguaggio e la sua capacità di collocare gli eventi in una progressione temporale e in una dimensione spaziale corrette (Cavedan, Calzolari, 2001).

Anche se i bambini possono essere “senza malizia”, come vuole il senso comune, ciò non significa che le loro testimonianze siano sempre e indubitabilmente accurate. I limiti evolutivi cui sono soggette le loro piccole menti fanno sì che certi errori siano praticamente inevitabili. Sta all’adulto conversare in maniera appropriata con il bambino perché dalla sua bocca esca la verità. In mancanza di competenze specifiche in materia, il rischio di avere un bambino che mente, magari con conseguenze nefaste per gli adulti che gli sono vicini, potrebbe essere immenso. 

Riferimenti

Cavedan A., Calzolari M.G., 2001, Come si esamina un testimone, Giuffrè, Milano.

D’Ambrosio A., Supino P., 2014, La sindrome dei falsi ricordi, Franco Angeli, Milano.

De Cataldo Neuburger L., 1988, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Giuffrè, Milano.

Loftus, E. F., Pickrell, J. E., 1995, “The formation of false memories”, Psychiatric Annals, vol. 25, n. 12, pp. 720-725.

Mazzoni G., 2003, Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna.

Vannucci, M., 2008, Quando la memoria ci inganna, Carocci, Roma.

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Il gruppo di riferimento come prospettiva in Tamotsu Shibutani

Un tempo la nozione di “gruppo di riferimento” in sociologia era talmente popolare che divenne quasi una “parola magica” tramite cui spiegare qualsiasi cosa avesse a che fare con i rapporti tra gruppi sociali. Il concetto di “gruppo di riferimento” veniva adoperato per spiegare perché le persone sceglievano determinati stili di vita, aspiravano a particolari status, occupavano alcuni ruoli a scapito di altri, si confrontavano con altri individui per decidere quale automobile acquistare, quali abiti, quali case.

Il gruppo di riferimento spiegava il coinvolgimento in attività delinquenziali, ma anche l’adozione di comportamenti estremamente conformisti; consentiva di comprendere perché determinati individui avvertivano il desiderio di combattere per la propria patria, mentre altri si guardavano bene dal farlo; illuminava i processi apparentemente impenetrabili attraverso cui alcuni adolescenti si ribellavano ai propri genitori e alla società degli adulti in generale, mentre altri aspiravano a ricalcare le orme genitoriali, a divenire professori universitari o venditori di frutta e verdura.

I gruppi di riferimento potevano svolgere un ruolo importante nella decisione di adottare tecnologie agricole innovative o perseguire carriere lavorative prestigiose. Ma anche nella decisione di votare per un candidato piuttosto che per un altro o di aderire a un gruppo religioso e avversarne un altro.

La nozione di “gruppo di riferimento” veniva adoperata da pubblicitari ed esperti di marketing per promuovere questa o quella merce presso questo o quel segmento di pubblico, da propagandisti senza scrupoli per orientare i cittadini verso questo o quel movimento politico.

Insomma, il gruppo di riferimento come concetto buono-a-tutto, grimaldello universale per entrare in ogni piega del sociale e svelarne i misteri insoluti, chiave di volta dell’edificio delle scienze sociali, ma anche strumento di marketing e propaganda. Non a caso ad occuparsene sono stati nomi tutelari della psicologia sociale e della sociologia americane, come Herbert H. Hyman, Theodore Newcomb, Muzafer Sherif, Ralph Herbert Turner, Robert K. Merton, Shmuel Noah Eisenstadt, Garry Runciman, per citarne solo alcuni.

Oggi, il concetto rappresenta qualcosa con cui ogni sociologo o aspirante tale non può non fare i conti, anche se, come osserva Robert Merton, esso è nato prima nell’ambito della psicologia sociale per poi essere fatto proprio dalla sociologia, come accade talvolta ai concetti che oscillano tra una disciplina e l’altra. Al riguardo, si può citare la nozione di “profezia che si autoavvera”, che ha seguito un percorso inverso, essendo nata in ambito sociologico per poi essere assorbita, quasi per intero, dalla psicologia.

Tanta frequenza d’uso non poteva non generare un proliferare di significati che, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, hanno vivacemente animato il confronto sul termine, ma anche generato ambiguità e fraintendimenti non sempre ricomposti. Si può affermare, senza timore di esagerare, che il numero delle sue accezioni sia quasi pari al numero di quanti lo hanno utilizzato o ne hanno promosso l’utilizzo nelle proprie ricerche.

In questo articolo (puoi leggerlo anche qui), passo in rassegna alcuni dei molteplici significati attribuiti al termine in sociologia, per poi passare a illustrare la peculiare interpretazione che un altro grande sociologo, Tamotsu Shibutani, ha fornito del concetto, in un articolo seminale, “Reference Groups as Perspectives” (1955), da me tradotto nello stesso articolo.

Buona lettura.

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È patriarcale dire “Lei è la mia donna?”

Ogni tanto mi capita di imbattermi in programmi televisivi o radiofonici, conversazioni quotidiane, riflessioni in cui sono espresse considerazioni sui rapporti tra lingua e sessismo. La lingua, si dice, è intrinsecamente sessista e “patriarcale” (qualunque cosa si intenda con questo termine) e lo dimostrerebbe, fra l’altro, l’uso di espressioni come “Lei è la mia donna”, “Lei è la mia ragazza”, “Lei è la mia fidanzata” in cui l’aggettivo possessivo “mia” esprimerebbe, appunto, possesso e denoterebbe, quindi, una condizione di dominio di un partner (il maschio, ovviamente) sull’altro. Queste espressioni sarebbero da evitare e da sostituire con altre più “corrette” come “Io e lei stiamo insieme”, “Lei è la persona con cui (con)vivo” ecc.

Sono convinto che, almeno in questo caso, l’accusa di sessismo sia fuori luogo.

È vero che, generalmente, gli aggettivi possessivi indicano possesso. Se dico: “Questo è il mio libro” intendo “Questo è il libro che possiedo/il libro di cui io sono il proprietario”.  Se dico “Quella è la mia casa” intendo che la casa appartiene a me e a nessun altro.

Ma gli aggettivi possessivi, a dispetto del loro nome, non significano esclusivamente possesso. Talvolta, indicano rapporti sentimentali, di parentela, di amicizia, di affetto, di lavoro, di conoscenza, di vicinanza. Se, ad esempio, dico “Lei è mia suocera” non intendo dire che la suocera mi appartiene o che sono in un rapporto di dominio/subalternità con lei. Intendo dire che la donna che indico è con me in un rapporto di parentela per cui io sono per lei suo genero, lei è per me mia suocera. Non c’è possessività.  Allo stesso modo, se dico “Carlo è mio amico” non voglio dire che “sono il proprietario di Carlo”, ma che io e lui siamo in rapporto di amicizia. “Giulia è una mia collega” non vuol dire che Giulia mi appartiene come un oggetto, ma che siamo impegnati in una comune relazione lavorativa.

Che le cose stiano così lo dimostra anche il fatto che le relazioni descritte sono reciprocabili. Posso dire “Giulia è una mia collega” così come, facendo finta che il mio nome sia Carlo, Giulia può dire “Carlo è un mio collega”. “Sara è mia cugina” può essere reciprocato in “Carlo è mio cugino”. “Sonia è mia cognata” ha il suo complementare in “Carlo è mio cognato”.

Lo stesso può dirsi per i rapporti sentimentali. Se dico “Lei è la mia ragazza”, lei può dire “Lui è il mio ragazzo”. “Maria è la mia fidanzata” trova il suo corrispettivo in “Carlo è il mio fidanzato” e così via. Se il rapporto espresso dall’aggettivo possessivo rimandasse esclusivamente a una relazione di subordinazione, tale reciprocità non potrebbe avere luogo. Ad esempio, posso dire “Questo è il mio libro”, ma il libro non può dire “Questo è il mio umano”.

In sostanza, gli aggettivi possessivi possono indicare appartenenza e possesso, ma anche la relazione che una persona ha con un’altra. Ovviamente, in alcuni casi, è possibile che l’aggettivo che designa una relazione connoti per il parlante un possesso, ma questo è un altro discorso. La lingua può spesso essere piegata a usi personali o collettivi “devianti”. Un uomo che dice: “Questa è mia moglie” può forse intendere “Questa donna è mia proprietà”. Ma ciò non significa che questo uso sia generalizzabile a tutti coloro che si esprimono in questo modo. Né che connoti automaticamente una relazione di tipo “patriarcale” (qualunque cosa si intenda con questo termine). Il rischio è di vedere del marcio anche lì dove non c’è; oppure dominio e potere lì dove c’è un rapporto di tipo paritario. Come se le relazioni umane non potessero essere altro che asimmetriche.

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“Non si agiti tanto!” ovvero la subdola arte del tone policing

“Ma perché si agita tanto?”. “La vedo un po’ su di giri stasera. È in difficoltà?”. “Non si scaldi tanto!”. “Si dia una calmata!”. “Non facciamoci prendere dalla foga!”. “Ma che le prende oggi?”.

Quante volte abbiamo sentito frasi del genere durante dibattiti pubblici accesi in cui un interlocutore espone con calore le sue tesi, mentre l’altro, con un sopracciglio alzato e un fare sussiegoso, lo invita alla calma? Sembrerebbero frasi innocue, quasi di buon senso. Del resto, che c’è di strano nel chiedere alla persona con cui si è impegnati in una conversazione di moderare i toni? Una richiesta del genere non rientra forse tra le buone maniere del vivere civile? Non rappresenta un luogo comune del galateo delle persone degne di rispetto?

Eppure, a un occhio più attento non sfuggirà il fatto che simili inviti hanno spesso un sottile quanto insospettato scopo ulteriore: uno scopo mai dichiarato, anzi ineffabile, che, tuttavia, in ambito retorico, rimanda a un fenomeno con un termine preciso, di cui si comincia a parlare con una certa frequenza: tone policing.

Con il termine tone policing (anche tone argument, tone trolling o tone fallacy; in italiano “controllo/sorveglianza/vigilanza del tono”) si intende una strategia retorica attraverso cui si mira a screditare l’avversario in una contesa dialettica, criticando, sminuendo o ridicolizzando il tono di voce o le modalità paraverbali e non verbali con cui espone la sua tesi, ed evitando, così, di entrare nel merito della discussione.

Si tratta di una variante dell’argumentum ad hominem, celebre argomento retorico consistente nel deviare il nucleo della contesa dialettica dall’affermazione dell’interlocutore (ciò che dice) all’interlocutore stesso (chi lo dice), soprattutto quando non si hanno argomenti da far valere contro l’avversario (Facciolo, 2025, pp. 166-170).

Il tone policing è, di solito, adoperato da chi è in posizione di potere o privilegio e non intende o non è in grado di ribattere a quanto sostenuto dall’interlocutore. Trova applicazione tipicamente contro persone che rappresentano gruppi minoritari, emarginati o discriminati o attivisti sociali che rivendicano e promuovono idee o punti di vista contrari a quelli dominanti. Dal momento che tali persone non hanno spesso l’occasione di argomentare le proprie tesi in pubblico confrontandosi con interlocutori che occupano posizioni sociali elevate e sono abituati a dominare la scena verbale, accade talvolta che alzino i toni della contesa e si infervorino, difendendo le proprie tesi con vigore e frenesia.  

In questi casi, chi occupa ruoli di potere o comando può provare a delegittimare le tesi dell’avversario, aggredendo i suoi toni e la sua emotività, come se, ad esempio, la rabbia con cui si espone un argomento ne invalidasse per ciò stesso il valore di verità. Naturalmente, il fatto che un individuo sostenga la sua posizione con passione, si esprima con veemenza o “diventi rosso in viso” nel parlare non dice nulla sulla veridicità o no delle proposizioni formulate. L’emotività con cui viene presentato un argomento non è direttamente correlata al suo grado di aderenza alla realtà.

Tuttavia, aggredire le emozioni degli altri è una strategia che sembra funzionare, a giudicare dalla frequenza d’uso della stessa nelle dispute pubbliche. Ciò accade perché le persone tendono a pensare che toni concitati siano automaticamente rivelatori di posizioni fallaci, in quanto emotive e poco razionali. In effetti, provocare l’altro chiedendogli di moderare i toni permette a chi pratica il tone policing di apparire come una persona seria e razionale, a differenza dell’esagitato avversario. Inoltre, il tone policing funziona come arma di screditamento dell’avversario, perché procura irritazione in chi è già calorosamente assorto nel proprio discorso; irritazione che viene strumentalizzata dall’interlocutore a riprova della irrazionalità e inaffidabilità della posizione del suo contendente, secondo un circolo vizioso a tutto vantaggio di chi chiede di “moderare i toni” (“Ma lei si scalda sempre così facilmente?”).

Molta della forza retorica di questa strategia discende dal fatto che la maggior parte degli individui non è consapevole di che cosa sia e quali conseguenze essa produca. Semplicemente, la subisce senza porsi alcun problema. Si tratta, invece, di una potente arma verbale di cui tutti dovrebbero prendere coscienza. Se non altro per evitarne le sgradevoli conseguenze.

In alcuni casi, poi, il tone policing si accompagna a una ulteriore, subdola strategia che ha l’effetto di infliggere il colpo di grazia all’avversario: moderati i toni, spenti gli ardori passionari, ricondotto il confronto a una parvenza di dialogo civile, l’interlocutore in posizione dominante può cogliere di sorpresa il suo oppositore, inveendo, a sua volta, contro di lui, rivolgendogli improperi di ogni tipo, attaccandolo furiosamente. La subitanea quanto inaspettata inversione di ruoli avrà l’effetto di sconvolgere l’interlocutore in posizione subalterna, ammutolendolo definitivamente. Certo, occorre un vero maestro di retorica per capovolgere la situazione in questo modo, ma, quando ciò si verifica, l’effetto è dirompente, se non addirittura traumatico.

Detto questo, è anche vero che alzare la voce, esprimersi con energia, rivolgersi con trasporto al proprio pubblico, adoperando magari turpiloquio e parole volgari, sono tattiche che, negli ultimi decenni, sembrano caratterizzare la comunicazione politica e procurare consenso a chi le mette in pratica perché permettono di far percepire il comunicatore come “uno di noi” e, dunque, avvicinare i politici ai propri elettori (Capuano, 2007).

Queste strategie godono della facoltà di interrompere il gioco delle maschere, aiutando a ripristinare l’immediatezza e la trasparenza delle forme di comunicazione. Esse sembrano conferire autenticità, tono, impeto e stile pungente alle parole. Marcano una sintassi della vicinanza che scatena empatia e identificazione con chi non ha bisogno di paroloni per affermare il suo punto di vista. Mirano all’essenza, non alla farragine delle cose. O almeno così pare. Di qui l’apprezzamento diffuso del politico che impreca, dell’amministratore che “parla come mangia”, del candidato che dice pane al pane e vino al vino. Il gioco della verità condotto dal turpiloquio, ad esempio, è talmente trascinante da indurre a pensare che ciò che è espresso con il ricorso alla “parolaccia” o alla bestemmia sia immediatamente credibile. Beninteso, si tratta di comportamenti censurati pubblicamente (si pensi al demagogo dal linguaggio rozzo che è ripreso da tutta la stampa “seria”) ma che, nondimeno, provocano sensazioni di autenticità, franchezza, spontaneità. E per questo sono apprezzati.

Tali forme comunicative, però, sono agite, di solito, in occasione di comizi elettorali o altri eventi pubblici in cui l’oratore si rivolge a una molteplicità di individui – modalità uno-a-molti – e non teme il contradditorio, anzi sa già che chi lo ascolta condivide le sue idee e apprezza i suoi modi diretti e grossolani. Inoltre, in queste circostanze, chi parla si trova in una posizione asimmetrica di dominio e ha quindi il controllo della ribalta comunicativa. Tutt’altra situazione, dunque, rispetto a quella in cui si verifica il ricorso al tone policing.

In conclusione, la prossima volta che qualcuno, nel corso di una discussione, vi chiederà di “abbassare i toni” o di “non agitarvi troppo” mentre esponete il vostro punto di vista, sappiate che, se occupa una posizione sociale superiore alla vostra, probabilmente non lo fa perché ha a cuore il vostro stato d’animo o la vostra serenità, ma perché vuole ridimensionare quello che dite.

Riferimenti:

Capuano, R. G., 2007, Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia, Costa & Nolan, Milano.

Facciolo, P., 2025, Fallacie logiche, HarperCollins, Milano.

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Leopardi e la retorica del naturale

Il turismo può essere definito come un processo di assimilazione della realtà ai propri desideri e immagini mentali. Il turista viaggia per scoprire nel mondo ciò che già sa. In un certo senso, il turista compie un’opera di certificazione che, al termine del viaggio, sarà esibita come la convalida di ciò che l’immaginario ha già suggerito. L’immaginario, tuttavia, non si alimenta da sé. Guide turistiche, agenzie turistiche, opuscoli, fotografie, programmi televisivi, documentari, testimonianze letterarie o di altro genere, confidenze di amici e conoscenti ecc. contribuiscono a forgiare l’orizzonte delle nostre attese turistiche, costruendo un mondo nebuloso, astratto dalla realtà, che si sorregge su una retorica ad hoc in cui termini come “iconico”, “autentico”, “incontaminato”, “selvaggio”, “primitivo”, “tradizionale” la fanno da padrone, orientando lo sguardo del turista verso luoghi e persone rifratti come in un prisma.

Lo sapeva già 200 anni fa Giacomo Leopardi, il quale, in una delle sue celebri Operette moraliL’elogio degli uccelli – afferma:

Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme, è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura (Elogio degli uccelli, in Leopardi, G., 1992, Operette morali, Garzanti, Milano p. 229).

Nel mondo non esistono ormai più luoghi “selvaggi”, “incontaminati”, “naturali”. Tutto è antropizzato. Su tutto è intervenuto l’uomo. Di selvaggio e incontaminato non esiste più nulla. Eppure, le persone amano pensare di visitare luoghi in cui nessuno è andato, che nessuno ha scoperto: un’illusione alimentata da tour operator e agenzie turistiche che spacciano per “incorrotto” ciò che essi stessi corrompono da tempo con i loro pacchetti “all inclusive” e il loro sapiente marketing mix. Eppure, il turista sembra non accorgersi della contraddizione insita in un “incontaminato organizzato” o forse preferisce semplicemente cullarsi nell’abbaglio favolistico che esistano paradisi esotici dove tutti gli abitanti fanno a gara a servirlo spontaneamente e a rendere il suo soggiorno quanto più conforme all’allucinazione turistica possibile.

È probabile, invece che la smania di partire per le vacanze sia «l’indice della nostra insoddisfazione. Testimonia la nostra rassegnazione a vivere il noioso, l’insulso, il carente, l’invivibile» (Christin, 2021, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera, Milano, p. 80). Solo un essere alienato può credere davvero che i luoghi che visita siano ontologicamente diversi da quelli che abita: luoghi in cui non esiste politica, non esiste economia, non esistono conflitti, ma solo culto del turista (occidentale, ovviamente) e divertimento.

Ma è su questa insoddisfazione che si regge il mondo turbocapitalistico in cui viviamo, che non si cura del nostro benessere, ma solo di distrarci dalla nostra cronica insoddisfazione con offerte last minute e panorami mozzafiato da contemplare in dieci minuti prima del trasferimento nell’hotel iperattrezzato.

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Il paradosso del rosario

Nell’immaginario collettivo dominante, il rosario è percepito come una pratica polverosa, obsoleta, per ottuagenari, destinata probabilmente a estinguersi, un patetico cascame religioso di un tempo che fu. Eppure, esso sembra emergere imperiosamente nella contemporaneità come testimoniato da una serie di fatti, su cui provo a formulare alcuni interrogativi:

  • perché milioni di persone in tutto il mondo hanno pregato il rosario per papa Francesco, sia in occasione della sua degenza in ospedale sia dopo la sua morte? È come se al rosario fossero attribuite doti particolari che esplicano i propri effetti anche sul pontefice. E perché proprio il rosario?

  • perché a Lourdes, a Fatima, a Medjugorje, fra gli altri, le apparizioni mariane raccomandano insistentemente, pervicacemente, quasi con molestia, di pregare il rosario, come se fosse dotato di proprietà soprannaturali? E perché proprio il rosario?

  • perché il rosario viene spesso pregato in occasione di catastrofi e guerre, come se in esso fosse contenuto un qualche potere misterioso in grado di porre rimedio alle catastrofi e termine agli eventi bellici? E perché proprio il rosario?

  • perché il rosario viene pregato a favore di persone malate, come se fosse dotato di capacità taumaturgiche uniche in grado di debellare ogni patologia? E perché proprio il rosario?

  • perché al rosario viene attribuita la capacità di decidere delle sorti di un conflitto, come è accaduto in occasione della celebre battaglia di Lepanto (1571), vinta dalla Lega santa dopo che, secondo la tradizione cattolica, i combattenti cristiani ebbero recitato il rosario poco prima dell’inizio del combattimento? E perché proprio il rosario?

  • perché politici come Matteo Salvini esibiscono il rosario durante i loro comizi politici o in campagna elettorale? E perché proprio il rosario?

  • perché il rosario è presente in tante celebri raffigurazioni pittoriche come strumento elettivo che la Madre di Gesù elargisce agli esseri umani come arma di difesa contro i nemici della cristianità? E perché proprio il rosario?

Insomma, come si concilia la rappresentazione dimessa, umile, passatista che il rosario ha nell’immaginario collettivo della nostra epoca con la presenza, quasi ingombrante, che esso continua ad avere nella nostra epoca e nella nostra cultura?

Provo a rispondere a queste e ad altre domande oggi pomeriggio, alle 17.30, a Caserta, presso il Teatro comunale di Via Mazzini, in occasione della presentazione del mio libro La sacra corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario (Meltemi, 2024).

Accorrete numerosi!

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“Dal frutto riconosco l’albero”

Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero, infatti, si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Luca, 6, 43-45).

L’idea che dal male non possa venire che male e dal bene non possa venire che bene è talmente radicata nella nostra mente da apparire ovvia. A fructu arborem cognosco riassumeva l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536) nei suoi Adagia (1503) e, ancora prima Dante Alighieri (1265-1321), nella Divina Commedia, sentenziava: «Ogn’erba si conosce per lo seme» (Purgatorio, canto XVI).

È dalla tradizione cristiana che ereditiamo la distinzione netta tra bene e male, il principio secondo cui le cose che non sono di Dio non possono che essere del Diavolo. «Chi non è con me è contro di me» afferma Gesù in Matteo 12, 30. Questa distinzione, trasposta nella vita sociale, ci induce a vedere il bene e il male, gli onesti e i ladri, i cittadini perbene e gli assassini come categorie esclusive: chi fa parte di una non fa parte dell’altra.

È in virtù di questo luogo comune che troviamo irresistibile dedurre la personalità e il valore degli individui dalle azioni che essi compiono: un’azione buona non può che essere opera di una persona buona; un’azione cattiva non può che discendere da un animo cattivo. È un principio semplice e lineare a cui agevolmente ci affidiamo per districarci nella complessità della vita quotidiana. Un principio così saldo che l’intera psicologia può essere definita come un enorme edificio fondato su di esso.

Anche la criminologia – scientifica e dell’uomo comune – ha adottato questo principio, che va sotto il nome di pestilence fallacy. La pestilence fallacy è «l’idea che all’origine di un male non possano esservi che altri mali e dunque che le principali cause della criminalità siano l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali» (Barbagli, Colombo e Savona, 2003, p. 43).

Questo modo di pensare, tuttavia, come già suggerisce il termine fallacy, è ingannevole. Lo riconosce lo stesso sapere comune, quando afferma che “Non tutto il male viene per nuocere” e che “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. In altre parole, in determinate situazioni, dal male possono scaturire conseguenze positive e, viceversa, da un animo buono e bene intenzionato possono derivare condotte o conseguenze dannose.

Riguardo a quest’ultimo caso, pensiamo a chi, in nome di Dio, che dovrebbe rappresentare il sommo bene, commette atti abominevoli per promuovere la propria idea di religione, come i fanatici che ancora oggi compiono stragi in ogni parte del mondo, o, andando più indietro nel tempo, pensiamo ai massacri di eretici compiuti dalla Chiesa cattolica, alle Crociate, all’Inquisizione, agli scontri tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord e così via. Oppure, pensiamo a un genitore che, per il bene del figlio, esercita con troppo rigore la sua azione educativa innescando in quello, per reazione, un comportamento riottoso e ribelle. Oppure, ancora, consideriamo quelle leggi che, per contrastare determinate condotte, impongono, seppure con le migliori intenzioni di riforma sociale, sanzioni talmente severe ai trasgressori da spingerli in maniera irreversibile verso i margini della società con il risultato di trasformarli in delinquenti irrecuperabili.

Del paradosso per cui dal bene può scaturire il bene e dal bene il male, era consapevole il filosofo greco Eraclito (550 ca–480 ca a.C.), uno dei personaggi più enigmatici e misteriosi del periodo presocratico, il quale designò con il termine “enantiodromia”, il capovolgersi delle cose nel loro contrario. Eraclito era convinto che non si conoscerebbe nemmeno il nome della giustizia se non ci fossero l’offesa, la violenza o la devianza e che «la malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo» (I presocratici, 1986, p. 218). In altre parole, non ci sarebbero il bene, la giustizia e la salute se non esistessero il male, la criminalità e la malattia.

Affine al concetto di enantiodromia è quello di “eterogenesi dei fini”, coniato dal filosofo e psicologo Wilhelm Wundt (1832–1920), fondatore della psicologia sperimentale. Secondo questo principio, le azioni umane possono condurre al conseguimento di scopi diversi da quelli inizialmente prefissati, ovvero «i fini collettivi non sono il risultato di un disegno intenzionale, ma nascono casualmente, in seguito alla combinazione e al contrasto di molte volontà» (Marletti, 2006, p. 74). Corollario di questo principio è il fatto che l’azione sociale può generare degli effetti esattamente opposti a quelli attesi dagli attori sociali.

Ne era convinto il filosofo olandese Bernard Mandeville (1670–1733), autore de La favola delle api ovvero vizi privati, pubbliche virtù (1714), in cui sosteneva che vizi e crimini non solo producono effetti socialmente e politicamente positivi, ma sono necessari alla stessa costituzione delle società civili. Per Mandeville, il crimine contribuisce a stimolare i “buoni” e a rendere dinamica la società, impedendo che ristagni con effetti negativi per tutti. A chi gli obiettava l’immoralità delle sue parole, rispondeva che

La gente comune, di vista corta, di rado riesce a vedere oltre un anello della catena delle cause; ma quelli che sanno allargare la loro visuale, e sono capaci di osservare l’insieme dei fatti concatenati, possono in cento luoghi vedere il bene scaturire e germogliare dal male, nello stesso modo naturale in cui i pulcini escono dalle uova (Mandeville, 2002, p. 59).

Chi portò alle estreme conseguenze questa riflessione fu Karl Marx (1818–1883). In una spesso citata digressione contenuta nel volume Manoscritti del 1861–1863, il filosofo tedesco scrisse:

Il criminale non produce soltanto delitti, ma anche il diritto penale e con ciò anche il professore che tiene lezioni di diritto penale e inoltre l’immancabile compendio nel quale questo stesso professore getta i suoi discorsi come “merce” sul mercato generale. Con ciò interviene un aumento della ricchezza nazionale […]. Il criminale produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, ecc., e tutti questi diversi rami professionali, che costituiscono altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano diverse facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi per soddisfarli. […]. Il criminale produce un’impressione, in parte morale, in parte tragica, a seconda delle circostanze, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali e estetici del pubblico. Egli non produce soltanto compendi sul diritto penale, non soltanto codici penali e per ciò legislatori in materia penale, ma anche arte, buona letteratura, romanzi e perfino tragedie […]. Il criminale spezza la monotonia e la certezza quotidiana della vita borghese. Con ciò la preserva dal ristagno e suscita quella inquieta tensione e quella vivacità senza le quali perfino lo stimolo della concorrenza diverrebbe insensibile. Egli dà così uno sprone alle forze produttive. Mentre il crimine toglie al mercato del lavoro una parte della popolazione eccedente e con ciò diminuisce la concorrenza tra i lavoratori, [quindi] impedisce entro certi limiti la caduta del salario del lavoro al di sotto del minimo, la lotta contro il crimine assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale si afferma così come una di quelle “compensazioni” naturali che producono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di “utili” rami occupazionali (Marx, 1980, pp. 324–325).

Quella che potrebbe sembrare una immorale esaltazione del crimine non è altro che una constatazione sociologica: non è vero che dal male derivi solo altro male. A volte da esso possono derivare conseguenze positive, anche se non previste. Di ciò abbiamo numerose testimonianze.

La corruzione è solitamente vista come una piaga delle società civili, ma in alcuni casi ha contribuito all’integrazione sociale e politica di masse di diseredati e, in alcune circostanze, si è rivelata uno strumento insostituibile per accedere a mercati internazionali che frappongono ostacoli di natura burocratica, politica e finanziaria all’ingresso di capitali stranieri.

La violenza è biasimata come impulso inaccettabile e immorale. Tuttavia, nella storia, molti gruppi sociali hanno subito violenza, fungendo da parafulmine delle tensioni interne, degli odi e dei rancori della società in cui vivevano. Tramite essi, i membri della società hanno sfogato i propri sentimenti di ostilità, consentendo al gruppo di rinsaldare la propria unità, di ritrovare valori comuni e di restaurare la fiducia nella propria bontà. Tra le categorie maggiormente vittimizzate troviamo: zingari, streghe, eretici, albini, ebrei, neri, immigrati clandestini, pazzi, diversi in genere. Identificare un capro espiatorio su cui riversare rabbia e frustrazione è servito sociologicamente per risolvere conflitti interni al gruppo, individuare un obiettivo comune, recuperare un senso di appartenenza. Ancora oggi, i politici a corto di idee sventolano, ad esempio, la bandiera dell’invasione straniera per conquistare voti e consenso. In assenza di programmi concreti, il rimedio del capo espiatorio sembra funzionare oggi come ieri.

La prostituzione è da sempre un’attività vituperata. Eppure, perfino alcuni grandi rappresentati della Chiesa cattolica ne hanno riconosciuto le funzioni positive. Nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino (1224-1226 – 1274), destinato a diventare il più importante teologo del Medioevo, fu autore di una citatissima glossa che, per molti secoli, ha orientato le politiche degli amministratori delle città: «La donna pubblica è nella società ciò che la sentina è in mare, e la cloaca nel palazzo. Togli la cloaca, e l’intero palazzo ne sarà infettato» (Rossiaud, 1986, p. 104). Per Tommaso, il ricorso alla prostituzione permetteva all’uomo di non “insozzare” la santità del focolare domestico con la lordura della lussuria, ma anche di non attentare alla “onestà” di altre donne. Inoltre, essa agiva da deterrente nei confronti di “crimini contro natura” come l’omosessualità, l’incesto, la sodomia e la masturbazione. Qualche secolo più tardi, il senatore Gaetano Pieraccini (1864-1957) presentava in questo modo le funzioni sociali del postribolo:

D’altra parte, il postribolo […] è strumento di difesa sociale generale. Colà si rifugiano donne criminaloidi che, lasciate fuori e non sorvegliate, chissà cosa farebbero, se si pensa che spesso tra degenerati si annusano e si associano nel malfare; quando si tratta di anormali sembra che si riconoscano per un puzzo di immoralità tutto loro particolare e che li aggruppa. Inoltre, il postribolo, come sopra ho detto, nasconde l’esibizionismo pubblico; ed il meretricio postribolare può valere e realmente vale, a diminuire quella che può essere la seduzione, gli atti di violenza carnale, gli stupri, ecc. (Bellassai, 2008, p. 123).

L’usura è un reato ed è vista come un’attività particolarmente odiosa perché prospera sulle difficoltà economiche e sulla disperazione della gente. Eppure, l’usuraio è stato storicamente l’antesignano dell’attuale imprenditore e ha contribuito addirittura alla nascita delle nazioni. Il criminologo Vincenzo Ruggiero afferma, ad esempio, che l’usura ha favorito lo «sviluppo iniziale del paese [l’Italia] nel periodo immediatamente successivo all’unificazione. La formazione di una classe di finanzieri, in Italia, si deve in parte all’esistenza di mercati finanziari paralleli a quelli ufficiali. Coloro che dopo l’Unità acquistarono i beni della Chiesa, ad esempio, si rivolgevano non di rado a questi mercati illeciti del denaro (Ruggiero, 1996, p. 150).

Il gioco d’azzardo è illegale, può favorire dipendenze patologiche e solleva dubbi di moralità, ma è da sempre incentivato dallo Stato perché consente di incrementare in modo agevole le entrate erariali. In età contemporanea, il gioco è stato utilizzato anche per realizzare iniziative di pubblica utilità e opere civili (ospedali, ricoveri, orfanotrofi, strutture per calamità naturali), per reperire fondi per affrontare un disastro naturale, per stimolare il turismo e far circolare il denaro.

Insomma, contrariamente al luogo comune secondo cui l’albero si riconosce dal frutto, frutti bellissimi possono nascere da alberi brutti e, al contrario, alberi stupendi possono generare frutti orrendi. Con buona pace dell’evangelista Luca, di Erasmo da Rotterdam e Dante Alighieri.

Riferimenti

Barbagli, M., Colombo, A., Savona, E., 2003, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna.

Bellassai, S., 2008, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Carocci, Roma.

Capuano, R. G., 2015, Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine, Aracne Editrice, Ariccia (RM).

I presocratici. Testimonianze e frammenti, 1986, v. I, Laterza, Roma–Bari.

Lorenzetto, S., 2019, Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia.

Mandeville, B.,2002, La favola delle api, Laterza, Roma–Bari.

Marletti, C. A., 2006, Razionalità e valori. Introduzione alle teorie dell’azione sociale, Laterza, Roma–Bari 2006.

Marx, K., 1980, Manoscritti del 1861–1863, Editori Riuniti, Roma.

Rossiaud, J., 1986, La prostituzione nel Medioevo, Laterza, Roma–Bari.

Ruggiero, V., 1996, Economie sporche, Boringhieri, Torino.

 

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