Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero, infatti, si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Luca, 6, 43-45).
L’idea che dal male non possa venire che male e dal bene non possa venire che bene è talmente radicata nella nostra mente da apparire ovvia. A fructu arborem cognosco riassumeva l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536) nei suoi Adagia (1503) e, ancora prima Dante Alighieri (1265-1321), nella Divina Commedia, sentenziava: «Ogn’erba si conosce per lo seme» (Purgatorio, canto XVI).
È dalla tradizione cristiana che ereditiamo la distinzione netta tra bene e male, il principio secondo cui le cose che non sono di Dio non possono che essere del Diavolo. «Chi non è con me è contro di me» afferma Gesù in Matteo 12, 30. Questa distinzione, trasposta nella vita sociale, ci induce a vedere il bene e il male, gli onesti e i ladri, i cittadini perbene e gli assassini come categorie esclusive: chi fa parte di una non fa parte dell’altra.
È in virtù di questo luogo comune che troviamo irresistibile dedurre la personalità e il valore degli individui dalle azioni che essi compiono: un’azione buona non può che essere opera di una persona buona; un’azione cattiva non può che discendere da un animo cattivo. È un principio semplice e lineare a cui agevolmente ci affidiamo per districarci nella complessità della vita quotidiana. Un principio così saldo che l’intera psicologia può essere definita come un enorme edificio fondato su di esso.
Anche la criminologia – scientifica e dell’uomo comune – ha adottato questo principio, che va sotto il nome di pestilence fallacy. La pestilence fallacy è «l’idea che all’origine di un male non possano esservi che altri mali e dunque che le principali cause della criminalità siano l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali» (Barbagli, Colombo e Savona, 2003, p. 43).
Questo modo di pensare, tuttavia, come già suggerisce il termine fallacy, è ingannevole. Lo riconosce lo stesso sapere comune, quando afferma che “Non tutto il male viene per nuocere” e che “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. In altre parole, in determinate situazioni, dal male possono scaturire conseguenze positive e, viceversa, da un animo buono e bene intenzionato possono derivare condotte o conseguenze dannose.
Riguardo a quest’ultimo caso, pensiamo a chi, in nome di Dio, che dovrebbe rappresentare il sommo bene, commette atti abominevoli per promuovere la propria idea di religione, come i fanatici che ancora oggi compiono stragi in ogni parte del mondo, o, andando più indietro nel tempo, pensiamo ai massacri di eretici compiuti dalla Chiesa cattolica, alle Crociate, all’Inquisizione, agli scontri tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord e così via. Oppure, pensiamo a un genitore che, per il bene del figlio, esercita con troppo rigore la sua azione educativa innescando in quello, per reazione, un comportamento riottoso e ribelle. Oppure, ancora, consideriamo quelle leggi che, per contrastare determinate condotte, impongono, seppure con le migliori intenzioni di riforma sociale, sanzioni talmente severe ai trasgressori da spingerli in maniera irreversibile verso i margini della società con il risultato di trasformarli in delinquenti irrecuperabili.
Del paradosso per cui dal bene può scaturire il bene e dal bene il male, era consapevole il filosofo greco Eraclito (550 ca–480 ca a.C.), uno dei personaggi più enigmatici e misteriosi del periodo presocratico, il quale designò con il termine “enantiodromia”, il capovolgersi delle cose nel loro contrario. Eraclito era convinto che non si conoscerebbe nemmeno il nome della giustizia se non ci fossero l’offesa, la violenza o la devianza e che «la malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo» (I presocratici, 1986, p. 218). In altre parole, non ci sarebbero il bene, la giustizia e la salute se non esistessero il male, la criminalità e la malattia.
Affine al concetto di enantiodromia è quello di “eterogenesi dei fini”, coniato dal filosofo e psicologo Wilhelm Wundt (1832–1920), fondatore della psicologia sperimentale. Secondo questo principio, le azioni umane possono condurre al conseguimento di scopi diversi da quelli inizialmente prefissati, ovvero «i fini collettivi non sono il risultato di un disegno intenzionale, ma nascono casualmente, in seguito alla combinazione e al contrasto di molte volontà» (Marletti, 2006, p. 74). Corollario di questo principio è il fatto che l’azione sociale può generare degli effetti esattamente opposti a quelli attesi dagli attori sociali.
Ne era convinto il filosofo olandese Bernard Mandeville (1670–1733), autore de La favola delle api ovvero vizi privati, pubbliche virtù (1714), in cui sosteneva che vizi e crimini non solo producono effetti socialmente e politicamente positivi, ma sono necessari alla stessa costituzione delle società civili. Per Mandeville, il crimine contribuisce a stimolare i “buoni” e a rendere dinamica la società, impedendo che ristagni con effetti negativi per tutti. A chi gli obiettava l’immoralità delle sue parole, rispondeva che
La gente comune, di vista corta, di rado riesce a vedere oltre un anello della catena delle cause; ma quelli che sanno allargare la loro visuale, e sono capaci di osservare l’insieme dei fatti concatenati, possono in cento luoghi vedere il bene scaturire e germogliare dal male, nello stesso modo naturale in cui i pulcini escono dalle uova (Mandeville, 2002, p. 59).
Chi portò alle estreme conseguenze questa riflessione fu Karl Marx (1818–1883). In una spesso citata digressione contenuta nel volume Manoscritti del 1861–1863, il filosofo tedesco scrisse:
Il criminale non produce soltanto delitti, ma anche il diritto penale e con ciò anche il professore che tiene lezioni di diritto penale e inoltre l’immancabile compendio nel quale questo stesso professore getta i suoi discorsi come “merce” sul mercato generale. Con ciò interviene un aumento della ricchezza nazionale […]. Il criminale produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, ecc., e tutti questi diversi rami professionali, che costituiscono altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano diverse facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi per soddisfarli. […]. Il criminale produce un’impressione, in parte morale, in parte tragica, a seconda delle circostanze, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali e estetici del pubblico. Egli non produce soltanto compendi sul diritto penale, non soltanto codici penali e per ciò legislatori in materia penale, ma anche arte, buona letteratura, romanzi e perfino tragedie […]. Il criminale spezza la monotonia e la certezza quotidiana della vita borghese. Con ciò la preserva dal ristagno e suscita quella inquieta tensione e quella vivacità senza le quali perfino lo stimolo della concorrenza diverrebbe insensibile. Egli dà così uno sprone alle forze produttive. Mentre il crimine toglie al mercato del lavoro una parte della popolazione eccedente e con ciò diminuisce la concorrenza tra i lavoratori, [quindi] impedisce entro certi limiti la caduta del salario del lavoro al di sotto del minimo, la lotta contro il crimine assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale si afferma così come una di quelle “compensazioni” naturali che producono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di “utili” rami occupazionali (Marx, 1980, pp. 324–325).
Quella che potrebbe sembrare una immorale esaltazione del crimine non è altro che una constatazione sociologica: non è vero che dal male derivi solo altro male. A volte da esso possono derivare conseguenze positive, anche se non previste. Di ciò abbiamo numerose testimonianze.
La corruzione è solitamente vista come una piaga delle società civili, ma in alcuni casi ha contribuito all’integrazione sociale e politica di masse di diseredati e, in alcune circostanze, si è rivelata uno strumento insostituibile per accedere a mercati internazionali che frappongono ostacoli di natura burocratica, politica e finanziaria all’ingresso di capitali stranieri.
La violenza è biasimata come impulso inaccettabile e immorale. Tuttavia, nella storia, molti gruppi sociali hanno subito violenza, fungendo da parafulmine delle tensioni interne, degli odi e dei rancori della società in cui vivevano. Tramite essi, i membri della società hanno sfogato i propri sentimenti di ostilità, consentendo al gruppo di rinsaldare la propria unità, di ritrovare valori comuni e di restaurare la fiducia nella propria bontà. Tra le categorie maggiormente vittimizzate troviamo: zingari, streghe, eretici, albini, ebrei, neri, immigrati clandestini, pazzi, diversi in genere. Identificare un capro espiatorio su cui riversare rabbia e frustrazione è servito sociologicamente per risolvere conflitti interni al gruppo, individuare un obiettivo comune, recuperare un senso di appartenenza. Ancora oggi, i politici a corto di idee sventolano, ad esempio, la bandiera dell’invasione straniera per conquistare voti e consenso. In assenza di programmi concreti, il rimedio del capo espiatorio sembra funzionare oggi come ieri.
La prostituzione è da sempre un’attività vituperata. Eppure, perfino alcuni grandi rappresentati della Chiesa cattolica ne hanno riconosciuto le funzioni positive. Nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino (1224-1226 – 1274), destinato a diventare il più importante teologo del Medioevo, fu autore di una citatissima glossa che, per molti secoli, ha orientato le politiche degli amministratori delle città: «La donna pubblica è nella società ciò che la sentina è in mare, e la cloaca nel palazzo. Togli la cloaca, e l’intero palazzo ne sarà infettato» (Rossiaud, 1986, p. 104). Per Tommaso, il ricorso alla prostituzione permetteva all’uomo di non “insozzare” la santità del focolare domestico con la lordura della lussuria, ma anche di non attentare alla “onestà” di altre donne. Inoltre, essa agiva da deterrente nei confronti di “crimini contro natura” come l’omosessualità, l’incesto, la sodomia e la masturbazione. Qualche secolo più tardi, il senatore Gaetano Pieraccini (1864-1957) presentava in questo modo le funzioni sociali del postribolo:
D’altra parte, il postribolo […] è strumento di difesa sociale generale. Colà si rifugiano donne criminaloidi che, lasciate fuori e non sorvegliate, chissà cosa farebbero, se si pensa che spesso tra degenerati si annusano e si associano nel malfare; quando si tratta di anormali sembra che si riconoscano per un puzzo di immoralità tutto loro particolare e che li aggruppa. Inoltre, il postribolo, come sopra ho detto, nasconde l’esibizionismo pubblico; ed il meretricio postribolare può valere e realmente vale, a diminuire quella che può essere la seduzione, gli atti di violenza carnale, gli stupri, ecc. (Bellassai, 2008, p. 123).
L’usura è un reato ed è vista come un’attività particolarmente odiosa perché prospera sulle difficoltà economiche e sulla disperazione della gente. Eppure, l’usuraio è stato storicamente l’antesignano dell’attuale imprenditore e ha contribuito addirittura alla nascita delle nazioni. Il criminologo Vincenzo Ruggiero afferma, ad esempio, che l’usura ha favorito lo «sviluppo iniziale del paese [l’Italia] nel periodo immediatamente successivo all’unificazione. La formazione di una classe di finanzieri, in Italia, si deve in parte all’esistenza di mercati finanziari paralleli a quelli ufficiali. Coloro che dopo l’Unità acquistarono i beni della Chiesa, ad esempio, si rivolgevano non di rado a questi mercati illeciti del denaro (Ruggiero, 1996, p. 150).
Il gioco d’azzardo è illegale, può favorire dipendenze patologiche e solleva dubbi di moralità, ma è da sempre incentivato dallo Stato perché consente di incrementare in modo agevole le entrate erariali. In età contemporanea, il gioco è stato utilizzato anche per realizzare iniziative di pubblica utilità e opere civili (ospedali, ricoveri, orfanotrofi, strutture per calamità naturali), per reperire fondi per affrontare un disastro naturale, per stimolare il turismo e far circolare il denaro.
Insomma, contrariamente al luogo comune secondo cui l’albero si riconosce dal frutto, frutti bellissimi possono nascere da alberi brutti e, al contrario, alberi stupendi possono generare frutti orrendi. Con buona pace dell’evangelista Luca, di Erasmo da Rotterdam e Dante Alighieri.
Riferimenti
Barbagli, M., Colombo, A., Savona, E., 2003, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna.
Bellassai, S., 2008, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Carocci, Roma.
Capuano, R. G., 2015, Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine, Aracne Editrice, Ariccia (RM).
I presocratici. Testimonianze e frammenti, 1986, v. I, Laterza, Roma–Bari.
Lorenzetto, S., 2019, Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia.
Mandeville, B.,2002, La favola delle api, Laterza, Roma–Bari.
Marletti, C. A., 2006, Razionalità e valori. Introduzione alle teorie dell’azione sociale, Laterza, Roma–Bari 2006.
Marx, K., 1980, Manoscritti del 1861–1863, Editori Riuniti, Roma.
Rossiaud, J., 1986, La prostituzione nel Medioevo, Laterza, Roma–Bari.
Ruggiero, V., 1996, Economie sporche, Boringhieri, Torino.