Le insidie della preghiera

La preghiera è di solito interpretata come una forma di interazione con la divinità dettata da un scopo preciso, che può essere un’invocazione, un lamento, una domanda, un’intercessione, un ringraziamento, un sacrificio. Particolare attenzione suscita abitualmente la preghiera cosiddetta “di petizione”, mirante, cioè, a ottenere qualcosa dalla divinità, riguardi essa la salute, la ricchezza, il successo in campo sentimentale. È probabile che il motore principale della preghiera sia una richiesta di esaudimento di un desiderio: gli esseri umani vogliono dai loro enti supremi qualcosa che non sono in grado di procurarsi con le proprie sole forze.

Da un punto di vista non religioso, tuttavia, se non esplicitamente ateo, la preghiera può essere vista come una forma di monologo attraverso cui il credente inganna se stesso, illudendosi di comunicare con un “altro” che non esiste. Attraverso questo monologo, il fedele esprime le sue preoccupazioni e i suoi desideri; preoccupazioni e desideri che forse non sarebbe in grado di rivelare nemmeno a se stesso, ma che emergono dall’illusorio contatto con la divinità.

Da questa prospettiva, la preghiera, anche se non genera alcuna reale comunicazione, visto che uno degli interlocutori è assente, consente una sorta di catarsi emotiva e forse un rafforzamento della propria volontà. Agire e comunicare “come se” dall’altra parte ci fosse qualcuno può sortire i medesimi effetti di un’azione e una comunicazione reali, come la psicologia insegna da tempo.

La preghiera, allora, è una delle modalità culturalmente riconosciute e legittimate di parlare con se stessi. Sebbene le comunicazioni autodirette siano mal viste nella nostra società e additate immediatamente a sintomo di malattia psichica, la preghiera è una delle poche forme comunicative che consente di dialogare con il proprio io senza ricevere alcuno stigma morale o medico.

Stranamente, però, se un credente rivelasse ad altri di aver ricevuto una risposta dal proprio dio, coloro che lo circondano potrebbero alzare più di un sopracciglio pensoso. Come afferma una vecchia battuta in lingua inglese: “If you talk to God this is prayer, but if he talks back it is schizophrenia”, “Se parli con dio, si chiama preghiera; se lui ti risponde, si chiama schizofrenia”.

L’accusa di malattia mentale è, dunque, sempre dietro l’angolo. Anche in circostanze culturalmente accreditate, uscire dallo spazio rituale che la cultura ritaglia per noi può suscitare accuse di cattiva salute mentale con inevitabili conseguenze in termini di stigmatizzazione sociale.

È per questo motivo che ci è permesso di parlare con dio, ma non di avviare un “vero” dialogo con lui/lei. L’altro assente può sentirci, ma non replicare apertamente.

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