Gli “scienziati visibili” oggi e ieri

In una società capillarmente dominata dai media di massa come la nostra, era inevitabile che anche la crisi provocata dall’irrompere del virus nelle maglie delle nostre esistenze subisse un intenso processo di mediatizzazione; processo che ha coinvolto irresistibilmente anche quanti – virologi, epidemiologi, medici, scienziati – sono ritenuti “esperti” in materia e come tali consultati. Sono gli esperti, infatti, a illustrarci i meccanismi di diffusione del virus, le strategie per contenerlo, le terapie per curarlo, gli strumenti per diagnosticare l’infezione o l’avvenuta guarigione, i progressi nella ricerca del vaccino.

In realtà, i media includono la classe medica nei propri format da tempo. La voce del medico è consultata periodicamente al sopraggiungere della stagione calda affinché elargisca consigli su come abbronzarci senza danneggiare la pelle o su quale dieta adottare per dimagrire; nella stagione fredda per discutere di come prevenire influenze e raffreddori; in primavera per affrontare il problema ricorrente delle allergie ecc. Gli esperti occupano un posto fisso nelle varie rubriche dedicate alla medicina e sono regolarmente invitati ad aggiornare il pubblico sulle ultime conquiste delle loro discipline. Di solito, ruoli e competenze circoscrivono ambiti di intervento precisi che lettori e spettatori sanno riconoscere immediatamente e che gli stessi esperti tendono a non travalicare.

Durante la pandemia, invece, si è assistito a un fenomeno nuovo e sconcertante che ha assunto due importanti aspetti: da un lato, gli esperti hanno occupato spazi e tempi sempre più ampi, riversando i loro discorsi in palinsesti inusitati, finendo con l’imporre la loro presenza ben oltre i confini un tempo riconosciuti alla loro categoria; dall’altro, virologi, epidemiologi e medici hanno generato forme piuttosto estese di “sconfinamento epistemico”, per dirla con Nathan Ballantyne, ossia hanno espresso (e sono stati invitati a esprimere) giudizi anche in relazione a campi in cui non vantano competenze precise. Questi “giudizi” sono “ricercati” dai media perché l’opinione degli esperti è percepita, in virtù del noto effetto alone, come saliente in tempi di crisi sanitaria.

Questo processo di sconfinamento ha esposto medici e scienziati a una visibilità senza precedenti, su cui già più di 40 anni fa la sociologa Rae Goodell richiamava l’attenzione, coniando l’espressione “visible scientists” [“scienziati visibili”, ma  ricordiamo che l’inglese scientist ha un’accezione più ampia di “scienziato” in quanto, come ricorda Licia Corbolante, “descrive sia chi fa parte di una comunità scientifica (scienziati, esperti, ricercatori, laboratoristi ecc.) sia chi ha fatto o sta facendo studi scientifici”].

Gli anni precedenti ai Settanta del XX secolo (e questo è ancora più vero negli ultimi venti anni), fa notare Goodel, sono stati caratterizzati da profondi cambiamenti sia della scienza in generale sia del mondo della comunicazione. Tali cambiamenti hanno indotto profonde trasformazioni sia nella comunicazione della scienza sia nella figura dello scienziato che comunica. Al pari di politici, attori e calciatori, gli scienziati acquistano oggi visibilità non tanto o non solo per le loro scoperte, per la loro attività di divulgatori o per il ruolo che occupano nella comunità scientifica, ma per le attività che svolgono nel concitato mondo della politica e delle polemiche (controversy). Utilizzando in maniera aggressiva i nuovi mezzi di comunicazione, essi tentano di influenzare le persone e le politiche su una serie di questioni collegate alla scienza come la sovrappopolazione, le droghe, l’ingegneria genetica, il potere nucleare, l’inquinamento, la genetica, le carestie, il controllo delle armi (e dei virus, potremmo aggiungere).

La comunità scientifica si trova talvolta a disagio di fronte a questa democratizzazione della comunicazione della scienza, un po’ come succede a tutti noi di fronte ad alcuni effetti dell’uso delle nuove tecnologie. Gli scienziati visibili sono percepiti da alcuni loro colleghi quasi come una contaminazione della comunità scientifica: una contaminazione irritante e potenzialmente pericolosa. Al tempo stesso, i visible scientists sono di solito ben inseriti nelle comunità di appartenenza, hanno spesso un incarico di ruolo e sono ben remunerati; fattori, questi, che tutelano le loro figure da possibili attacchi da parte dei colleghi. Inoltre, secondo gli stessi colleghi, la loro produzione scientifica tende a diminuire quantitativamente, ma non qualitativamente.

La caratteristica principale degli scienziati visibili è che essi usano i giornalisti per i loro scopi così come i secondi li utilizzano per i propri. Anzi, essi “vogliono” essere usati. Gli scienziati visibili vogliono pubblicità per le loro idee e per le questioni che essi pongono. Inoltre, tramite i mezzi di comunicazione, hanno la possibilità di esprimere concetti e opinioni che, in sede scientifica, non potrebbero esprimere se non con un eccesso di caveat. I media, dal loro canto, hanno bisogno degli scienziati per catturare il più ampio numero di spettatori possibili, anche a costo di banalizzare o sensazionalizzare i loro messaggi. Il rapporto tra scienziati e giornalisti è, quindi, di reciproco sfruttamento: i primi accettano di essere usati per potersi garantire visibilità, i secondi si fanno usare dai primi per ottenere in cambio opportunità notiziabili

Uno degli esempi paradigmatici di visible scientist proposto da Goodel è l’antropologa americana Margaret Mead, la quale comprendeva e usava la logica della televisione talmente bene da dire una volta: «Se ti vedono in televisione, leggono i tuoi libri o vengono alle tue conferenze: percorrono cinquanta miglia per sedere dietro a tutti, in compagnia di duemila persone, perché ti hanno visto in televisione».

Sebbene sia passato del tempo dall’articolo di Goodel, alcune caratteristiche dei visible scientists rimangono identiche. La presenza permanente degli esperti della salute nel discorso mediatico contemporaneo sul virus consente a questi di promuovere o accelerare carriere anche in ambiti non necessariamente medici, accreditare ulteriormente le proprie competenze, acquisire prestigio e denaro, vedersi facilmente pubblicati i propri libri, divenire famosi. Si tratta di conseguenze della visibilità che probabilmente nessuno di loro ammetterebbe mai pubblicamente, ma che pure sono evidenti a chiunque non sia sprovveduto.

È noto che i giornalisti non interpellano i loro esperti solo sulla base delle competenze scientifiche, ma anche in virtù delle capacità comunicative e di creare polemiche e della disponibilità. Spesso viene a crearsi una sorta di “compagnia di giro” per cui sono convocati sempre i medesimi nomi che funzionano sui media e che non sono necessariamente i più qualificati. La frequenza con cui sono interpellati nei contesti mediatici più disparati fa sì che essi inevitabilmente siano chiamati a rispondere a ogni sorta di quesito, per quanto lontano dai loro campi di interesse. Di qui, la tentazione della tuttologia che spesso viene loro rimproverata, ma che è funzione delle esigenze del circuito mediatico in cui sono inseriti. Con il tempo, è probabile che gli esperti finiscano con l’affinare le abilità comunicative e argomentative a scapito di quelle divulgative e professionali, finendo coinvolti nel turbinio dei meccanismi mediatici che ne condizionano azioni e discorsi.

In ultima analisi, il rischio è che la visibilità abbia la meglio sulla scienza e il visible scientist venga trasformato in uno dei tanti characters della scena mediatica, utile a conquistare ascolti e garantire audience, più che a informare.

Le vicissitudini di tanti virologi, epidemiologi e medici televisivi contemporanei, trasformati in oracoli quotidiani di scenari imprevedibili, riflettono molte delle caratteristiche dei visible scientists individuate da Goodel, con la differenza che tali caratteristiche sono oggi accentuate, se non esasperate, dal ruolo sempre più aggressivo e diffuso che i media e i social hanno nella nostra società.

Rae Goodell, 1977, “The Visible Scientists”, The Sciences, vol. 17, n. 1, pp. 6-9. PDF in inglese.

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