Gli asintomatici di Defoe

Sappiamo tutti che i virus sono temibili perché invisibili. Doppiamente invisibili. In primo luogo perché non sono distinguibili da occhio umano. In secondo luogo, perché la minaccia principale di contrarre il virus non è data da quanti sono palesemente malati, esibiscono i sintomi canonici e/o sono ricoverati in terapia intensiva, ma dai cosiddetti asintomatici, coloro che, pur avendo contratto il virus, non esibiscono sintomi. O, per dirla da un’altra prospettiva, i cui sintomi sono invisibili. L’infezione di costoro, infatti, non essendo evidente, risulta particolarmente nociva in quanto, ingannate dall’aspetto apparentemente salubre, le persone tendono, in buona fede, a entrare in contatto con loro, toccarli, parlare a distanza ravvicinata, nella presupposizione inconscia che nessun male potrà mai derivarne. L’equazione ingenua “contagio = sintomi evidenti” è profondamente radicata nella nostra psiche, come l’equazione contraria “salute = assenza di sintomi”, e la fiducia irriflessa in entrambe causa la rovina di molti.

Di ciò era consapevole già Daniel Defoe che scrisse della peste che investì Londra nel 1665. Leggiamo le sue parole:

In verità, l’infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano conosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevan preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. Queste persone recavan la morte in ogni luogo col loro respiro, e la davano ad ogni persona che incontravano, la lascia- vano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano.

[…]

Questo fatto dimostra come in tempo di peste non ci si possa fidare delle apparenze, e come la gente possa effettivamente aver l’infezione senza saperlo; per cui non serve isolare i malati e chiuder le case in cui qualcuno si è ammalato, se non si rinchiudono del pari tutte le persone che il malato stesso ha avuto occasione di avvicinare prima di accorgersi della propria malattia.

Cosi è che nessuno può mai sapere quando o dove o come o da chi ha preso l’infezione. Ed è per questo che molti parlano di aria infetta, e ritengono inutile usar precauzioni con la gente. Ho visto alcuni ch’erano stupefatti di aver preso il contagio. “Non ho avvicinato nessuna persona malata,” diceva un tale. “Non ho parlato che con persone sane, eppure ecco la peste!”

“Sono sicuro di essere stato colpito dal cielo,” diceva un altro.

E il primo continuava: “Sono sicuro che è nell’aria. La morte entra in noi col respiro, ed è la mano di Dio. Non vi è alcun rimedio” (Defoe, D., 1995, La peste di Londra, Bompiani, Milano, pp. 169-170).

L’invisibilità incomprensibile di virus e batteri è causa, allora come oggi, di un rapporto superstizioso con la malattia, che autorizza un pensiero fatalistico, tutto teso a trovare nella religione, nella magia e nelle fonti più disparate l’origine e il rimedio del morbo. Si spiegano così oggi le speculazioni sulla capacità del coronavirus di sopravvivere su varie superfici per giorni e giorni e le congetture sui mille rimedi improbabili per combatterlo (candeggina, aglio, bevande calde, vitamina D, yoga, argento colloidale ecc.). Un nemico invisibile assume mille forme e nessuna e si presta a mille interpretazioni e nessuna.

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