Pareidolie della peste

In tempi di apprensioni, timori, incertezze e confusione, quali quelli che caratterizzano la diffusione di un virus o di una pestilenza, non sorprende che siano offerte interpretazioni religiose sul senso degli eventi (una punizione divina? un monito agli infedeli? un invito a convertirsi prima che sia troppo tardi?), che si rafforzino le iniziative di leader religiosi e spirituali (preghiere, invocazioni, appelli alla divinità), che si ricorra a rimedi di dubbia utilità, ma ammantati di un che di esoterico e misterioso, per scongiurare il morbo (medicina ayurvedica, diete improbabili, sostanze buone a ogni uso) o che si tenda ad associare determinati eventi, anche naturali, alla epidemia in atto (il passaggio di una cometa, una determinata configurazione degli astri, la profezia di una sensitiva, come nel caso, ormai celebre, di Sylvia Browne). Questo humus di atteggiamenti, timori, credenze e insicurezze può facilmente indurre nelle persone esperienze pareidoliche (ricordo che la pareidolia è quell’illusione della mente che porta a interpretare macchie amorfe come immagini dotate di senso o rumori come suoni significativi). Lo testimonia un brano poco noto dello scrittore inglese Daniel Defoe (1660-1731), ricavato dal suo Journal of the Plague Year (1722), diario fictional dell’epidemia di peste che investì Londra nel 1665 (fictional perché, nonostante sia narrato in prima persona, Defoe non visse direttamente i fatti che racconta). Tra le tante manifestazioni di credulità, che all’epoca come oggi, caratterizzarono il periodo, una è relativa a una indubbia esperienza pareidolica che lo scrittore inglese riferisce con le seguenti parole:

C’erano i sogni delle vecchie e le interpretazioni che le vecchie davano dei sogni  di questo e di quello. E c’erano persone che udivano voci esortarle a partire, poiché la pestilenza sarebbe stata tale da non dar tempo ai vivi di seppellire i morti; o persone che vedevano apparizioni per il cielo, come per esempio mani che uscivano con spade dalle nuvole e minacciavano la città, o carri funebri e bare in processione verso il cimitero, o mucchi di cadaveri e altre cose del genere tutte dovute all’immaginazione della povera gente spaventata nel modo che il poeta dice:

Cosi la melanconica

Fantasia rappresenti

Eserciti e battaglie

In mezzo ai firmamenti;

Finché occhi sereni

I vapori dissolvano

E tutto in sua sostanza

Di nuvole risolvano.

Si potrebbe riempire un libro solo coi racconti che si facevano intorno a queste apparizioni. Un giorno di marzo, quando la pestilenza (salvo i casi di San Giles) non si era ancora dichiarata, vidi un assembramento per la via, e, avvicinatomi, trovai che tutti tenevan gli occhi rivolti al cielo per cercare di scorgere quello che una donna diceva di distinguere a perfezione, e cioè un angelo vestito di bianco che agitava una spada di fuoco. Essa descriveva l’apparizione punto per punto indicandone gesti e movimenti, e la folla era sempre più presa dal suo fervore, tanto che uno d’un tratto gridò: “Vedo… Vedo la spada!” Un altro vide tutta intera la forma dell’angelo. Un terzo ne vide la faccia, ed esclamò ch’era una faccia di grande splendore. Chi vedeva una cosa e chi ne vedeva un’altra. Io, pur guardando con attenzione, non riuscivo a vedere che una bianca nuvola tutta rilucente da una parte per via del sole che la perforava di dietro, e cosi lo dissi. La donna si sforzò di mostrarmi ciò che lei vedeva, capace di indurmi ad ammettere che lo vedevo anch’io, giacché, per ammettere una cosa simile, avrei dovuto mentire. Voltatasi a un certo punto a guardarmi in faccia essa si immaginò che ridessi, mentre io non ridevo affatto e invece riflettevo sui terrori che la povera gente si procura con l’immaginazione. Si scostò dunque da me scandalizzata, e chiamandomi empio o profano mi disse ch’eravamo in un tempo di collera celeste, si avvicinava un castigo terribile e gli schernitori del mio stampo sarebbero tutti periti.

La gente intorno a lei sembrava non meno scandalizzata di lei, e io mi resi conto dell’impossibilità di persuaderli che non avevo riso. Perciò, come rischiavo di esser fatto a pezzi, mi allontanai; e quella presunta apparizione passò per non meno reale di quella della cometa [di cui aveva parlato in precedenza] (Defoe, D., 1995, La peste di Londra, Bompiani, Milano, pp. 39-41).

Anche oggi, chi tenta di esporre le teorie più balzane sull’origine del coronavirus e sulle sue conseguenze corre il rischio di essere oggetto di attacchi dilanianti, soprattutto a mezzo social, ed è costretto a tacere per non esserne investito. Quando tutto questo sarà terminato, forse rideremo della nostra credulità o, forse, proprio come ai tempi di Defoe, le nostre idee, per quanto folli, passeranno per reali.

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2 risposte a Pareidolie della peste

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