Sociologia della dislessia

Uno dei fondamenti della sociologia della salute e della medicina è che le patologie non sono entità sovrastoriche che trascendono la società, il tempo e lo spazio. Al contrario, sono spesso le società a “crearle”, definendone sintomi, decorso e terapie. Il problema è che tali “creazioni” acquistano a un certo punto una vita propria per cui ci sembrano degli oggetti senza tempo, qualcosa che esiste da sempre e che per sempre rimarrà con noi. Si prenda il caso della dislessia.

La dislessia è nota come un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che interessa essenzialmente i processi di lettura. Il dislessico ha come difficoltà principale quella di svolgere le operazioni mentali necessarie per leggere (riconoscere le lettere, le sillabe, le parole, e associarle con i suoni corrispondenti) in modo fluido e senza fatica. Il dislessico è chi non raggiunge, nella lettura, quei parametri di accuratezza e di rapidità che rappresentano la “normale” capacità di leggere. E qui iniziano i problemi. A quale concetto di normalità bisogna, infatti, far riferimento per decidere dell’anormalità del dislessico?

Maria Luisa Lorusso, autrice di Che cos’è la dislessia? (Carocci Editore, Roma) è molto esplicita al riguardo: «Il riferimento alla normalità deve essere inteso in senso strettamente statistico, e proprio in questo riferimento si ritrovano molte delle peculiarità dei disturbi della lettura, o dislessia, rispetto ad altre problematiche dello sviluppo. Normale è, in questo senso, la condizione più frequente nella popolazione» (p. 7).

Se si adotta questa concezione statistica della normalità, prosegue Lorusso,

bisogna entrare nell’ottica per cui la dislessia, pur essendo definita un disturbo, non ha le caratteristiche delle malattie o delle patologie in senso generale, non è rilevabile attraverso esami chimico-fisici e neanche attraverso tecniche neuroradiologiche che evidenzino specifiche anomalie. […]. La dislessia […] andrebbe pertanto definita come una caratteristica di alcuni individui, al pari  di altre caratteristiche basate su differenze neurobiologiche: avere  scarso o buon senso dell’orientamento, orecchio musicale, buono o scarso equilibrio ecc. Il motivo per cui la dislessia viene chiamata “disturbo” non risiede dunque tanto nelle sue caratteristiche intrinseche o nell’entità delle differenze neuronali, bensì nell’impatto che le sue dirette conseguenze esercitano sulla vita quotidiana dell’individuo inserito in una realtà in cui la lettura è un’abilità cruciale. L’individuo dislessico è insomma “disturbato” nel suo funzionamento quotidiano non a causa del suo particolare assetto neurobiologico, bensì a causa della sua incapacità di leggere bene come richiesto dall’attuale organizzazione della società (pp. 8-9).

Sono parole importanti perché troppo spesso, nei discorsi pubblici ed esperti, si tratta la dislessia come un problema esclusivamente individuale che non ha nulla a che fare con la società. Invece, ricorda Lorusso,  «in una civiltà pre-alfabetica in cui tutto passa attraverso la comunicazione orale, la dislessia, letteralmente, non esisterebbe. Questa sua caratteristica garantisce al disturbo della lettura un posto del tutto particolare tra i disturbi evolutivi: la dislessia infatti non è tanto nel soggetto quanto nella funzione, cioè nella lettura stessa: se la funzione non viene espressa perché non appresa, il disturbo stesso non si manifesta e non sussiste» (p. 81).

Questa prospettiva sociologica ci permette di comprendere anche perché la dislessia appaia piuttosto frequente in alcuni gruppi come i carcerati. Non è che la dislessia causi la delinquenza, ma può costituire un fattore di rischio che può dar vita a condotte delinquenziali e antisociali. «In particolare i bambini dislessici che non vengono riconosciuti tempestivamente, accumulando così continui insuccessi senza darsene una ragione», afferma Lorusso, «possono sviluppare vissuti di forte disagio psicologico che col tempo si manifesta anche con comportamenti problematici, da eccessiva inibizione ad aggressività, azioni di disturbo nei confronti dei compagni e, non raramente, depressione, ansia e idee suicidarie» (p. 60).

Insomma, la “diagnosi” di dislessia può agire da profezia che si autoavvera innescando un meccanismo vizioso dalle conseguenze nefaste per il dislessico.

Bisogna tener conto di queste considerazioni quando si parla di dislessia per non cadere nell’errore di giudicare che il dislessico abbia, in sé, qualcosa di sbagliato. Ciò è fuorviante, anche se costituisce una grossa tentazione perché permette di addossare all’individuo tutta la responsabilità della propria condizione. La sociologia, però, ci dice che le cose sono molto più complesse e vanno colte nella loro globalità, piuttosto che dalla visuale ristretta della medicina e della patologia.

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