Sociologia del coronavirus

Trenta anni fa, in un articolo omonimo, il sociologo Philip Strong coniò il termine “psicologia epidemica” (epidemic psychology) per porre l’attenzione sul fatto che le epidemie non sono un fenomeno che interessa esclusivamente la medicina, la fisiologia e l’epidemiologia, ma anche la sociologia e la psicologia e che le conseguenze psico-sociologiche delle epidemie hanno un impatto forte sulle società al cui interno esse circolano, tanto che si può, a buon diritto, parlare di epidemie psicosociali. Per la precisione, secondo Strong, la “psicologia epidemica” genera almeno tre tipi di epidemie psicosociali. La prima è definita “epidemia della paura” (epidemic of fear); la seconda “epidemia delle spiegazioni e delle moralizzazioni” (epidemic of explanation and moralisation); la terza “epidemia dell’azione o dell’azione proposta” (epidemic of action or proposed action).

Come afferma Strong: «Ogni società interessata da una forma vigorosa di psicologia epidemica può, di conseguenza, sperimentare al tempo stesso ondate di panico individuale e collettivo, improvvisi sussulti di interpretazioni relative alla ragione per cui la patologia si è manifestata, raffiche di controversie morali e di strategie di controllo in conflitto tra loro, finalizzate o a contenere la patologia o a controllare le ulteriori epidemie di paura e dissoluzione sociale» (p. 251).

È facile riscontrare queste tre forme di epidemia psicosociale nell’attuale fenomenologia sociologica del coronavirus.

Innanzitutto, a dispetto della relativa pericolosità e mortalità finora provocata dal virus, timori, ossessioni, irrazionalità dilagano con prepotenza, generando condizioni mentali prossime alla paranoia, comportamenti sproporzionati ai pericoli effettivi (come svuotare i supermercati e fare incetta di mascherine FFP3 o FFP2), crisi di nervi collettive. Si spiegano così le aggressioni di cittadini cinesi a Torino, le continue bufale sul virus (che sarebbe nato in laboratorio nell’ambito di un programma segreto di armi batteriologiche, sarebbe stato creato da un istituto di ricerca inglese che produce vaccini o sarebbe stato predetto già nel 2012), i provvedimenti drastici assunti e, per alcuni aspetti, incomprensibili nei confronti di scuole, università e locali pubblici. Un’epidemia di paura – spiega Strong – è anche un’epidemia di sospetti: «Vi è la paura che io possa contrarre la malattia e il sospetto che tu possa già averla e passarla a me» (p. 253). Paura e sospetto si accompagnano spesso a processi di stigmatizzazione e di ricerca del capro espiatorio. Nel caso del coronavirus, lo stigmatizzato per eccellenza è il cinese (il nuovo untore), ma anche chi viene dalla Cina o da altre “zone rosse” o non si adegua alle misure di prevenzione stabilite dall’autorità. Infine, la paura e il panico legittimano quello che Giorgio Agamben definisce “stato di eccezione” «con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni».

Parallelamente a questa epidemia di paura, si è sviluppata una “epidemia delle spiegazioni e delle moralizzazioni” in cui spesso le spiegazioni contengono già forti riferimenti morali: si va dalla condanna delle tradizioni alimentari cinesi considerate inaccettabili e disgustose in Europa al sospetto nei confronti di piani complottistici di volta in volta attribuiti ad americani, israeliani, cinesi, russi ecc., al ruolo della massoneria o di Bill Gates che orchestrerebbero lo spopolamento del mondo. In questa fase, colpisce il vortice di teorie, ipotesi, supposizioni, suggestioni avanzate tanto da esperti quanto da persone comuni, sull’origine del virus, il suo significato medico, morale e religioso (“Dio lo vuole per punirci dei nostri peccati”), le sue conseguenze, i possibili rimedi.

Infine, l’“epidemia dell’azione o dell’azione proposta” fa sì che governi, amministrazioni pubbliche, enti di vario genere, persone comuni si adoperino perché “qualcosa venga fatto”, indipendentemente da ciò che viene fatto. Colpisce, ad esempio, la frenesia e l’attivismo di molti amministratori pubblici comunali e regionali di aree non interessate dal virus che emanano ordinanze, delibere e decreti a ritmo industriale per “fare qualcosa” o forse per non essere poi accusati di inerzia. Si pensi, inoltre, all’uso massiccio di mascherine protettive nonostante la loro utilità parziale nella vita quotidiana: un gesto che forse ha più un significato simbolico e apotropaico che pratico. Si consideri, infine, l’assalto a farmacie, pronto soccorso e ospedali da parte di chi ha il minimo sospetto di aver contratto il virus e il contemporaneo onnipresente invito a stare lontani da negozi e quartiere cinesi.

Secondo Strong, tuttavia, la conseguenza sociale più dirompente della psicologia epidemica è sulle routine quotidiane: queste, infatti, vengono sconvolte dal corso degli eventi che impongono l’abbandono delle vecchie abitudini, l’acquisizione di nuovi comportamenti, l’instaurarsi di nuove forme di relazione, aspettative, stili di vita. In casi estremi, continua Strong, «le epidemie letali sono potenzialmente in grado, almeno in teoria, di creare una versione medica dell’incubo hobbesiano: la guerra di tutti contro tutti. Inoltre, non solo le malattie contagiose intaccano direttamente i microprocessi su cui è edificata la società, ma anche il possesso umano del linguaggio nel senso che la paura di queste malattie può essere rapidamente, se non istantaneamente, trasmessa (come attraverso la televisione) a milioni di persone e da una società all’altra» (p. 258).

«In sintesi», per Strong, «l’origine umana della psicologia epidemica risiede non tanto nelle passioni disordinate quanto nella minaccia che le malattie epidemiche pongono agli assunti su cui è fondata la nostra vita quotidiana, nella potenziale fragilità della struttura sociale e delle interazioni umane e nell’ampia varietà di elaborazioni del pensiero umano, della moralità e della tecnologia, essendo tutti questi elementi basati sulle parole piuttosto che sui geni. La psicologia epidemica, di conseguenza, può essere superata solo se si affermano saldamente nuove routine e nuovi assunti su come far fronte all’epidemia, un processo che richiede un’azione sia individuale sia collettiva» (p. 258).

Virus, patologie sconosciute, terremoti, uragani hanno tutti la capacità di sovvertire il senso di ordine, fiducia e stabilità su cui sono fondate le nostre esistenze. Affinché questi fenomeni non diano luogo a epidemie psicologiche è necessario recuperare un nuovo senso di ordine, fiducia e stabilità, al di là di ogni panico o isteria di massa. Non è facile. Si potrebbe iniziare non dando per scontata la stabilità delle nostre vite e facendo nostra la nozione che virus, terremoti e uragani fanno parte della quotidianità e non rappresentano l’incarnazione dell’apocalisse.

Fonte: Philip Strong, 1990, “Epidemic Psychology: a model”, Sociology of Health & Illness, vol. 12, n. 3, pp. 249-259.

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4 risposte a Sociologia del coronavirus

  1. Nimrod Quispe Fuentes scrive:

    Hola Romolo, buscando datos sobre el cambio de habitudines en el panorama que ahora vivimos me encontré con tu post, me has dado nuevas ideas. Grazie per condividere, 😉

  2. Rafael Cerpa scrive:

    Ciao Romolo, mi è piaciuto molto il post. Mi iscrivo alla vostra pagina. Un abbraccio! Rafael (Lima)

  3. Pingback: CORONAVIRUS E POSSIBILI RIVOLTE SOCIALI: L'USO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE DELLA COMUNICAZIONE STRATEGICA, DEGLI INTERVENTI GOVERNATIVI E DELLO SPIRITO CRITICO. | | Criminologi AICIS

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