Sociologia dell’eroe nell’epoca del coronavirus

A loro ha riservato una copertina il settimanale americano «Time» ad aprile. L’artista britannico Bansky li ha omaggiati con una delle sue opere. Bono degli U2 ha dedicato loro una canzone dal titolo Let your love be known. Medici, infermieri, paramedici sono gli eroi acclamati dell’epoca del coronavirus; i “guerrieri” della lotta al nemico invisibile e insidioso che si annida nelle nostre vie aeree; sempre in prima linea, instancabili, sempre disponibili a debellare quella che il 2020 ha decretato come la principale minaccia al genere umano (almeno stando alle retoriche diffuse e amplificate da politici e mass media).

Eppure, nonostante celebrazioni, trionfi e osanna, sono loro stessi i primi a schernirsi, a rifiutare l’etichetta di “eroi”, a obiettare che fanno semplicemente il proprio lavoro. Anzi, spesso approfittano delle ribalte per ricordare che, in quanto lavoratori, sono sottopagati, costretti a turni massacranti e, talvolta, accusati perfino di spargere il virus a causa dei contatti quotidiani con chi ne è affetto. Insomma, un po’ eroi, un po’ lavoratori ordinari, un po’ capri espiatori. Del resto, lo status di eroe non è immune da ambiguità e incomprensioni. Se è vero che “nessuno è profeta in patria”, come recitano i Vangeli, è altrettanto vero che nessun eroe è immune da sospetti, denigrazioni, chiacchiere e dicerie, spesso fomentate da invidia, ignoranza, gelosia, che mirano a ridurne la statura a dimensioni ordinarie.

Al di là di queste ambiguità, la domanda che viene spontaneo porsi è: perché professioni fino a poco fa considerate in maniera indifferente, se non anodina, come quelle di medici e infermieri sono assurte improvvisamente a uno status eroico? Chi è o che cos’è un eroe? Perché alcune azioni consentono di attribuire l’etichetta di eroe e altre, pur molto simili, no? Un eroe, per essere tale, deve necessariamente possedere doti straordinarie o può esibire anche capacità del tutto ordinarie e quotidiane?

A compulsare le definizioni correnti del termine “eroe”, è evidente che esse fanno primariamente riferimento a individui dotati di capacità eccezionali o in grado di sostenere imprese singolari. L’edizione online del vocabolario Treccani, ad esempio, propone la seguente definizione:

1. Nella mitologia di vari popoli primitivi, essere semidivino al quale si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali; presso gli antichi, gli eroi erano in genere o dèi decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre divinità, o uomini ascesi a divinità in virtù di particolarissimi meriti. 2. estens. a. Nel linguaggio com., chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie.

Sulla stessa falsariga, lo Zingarelli:

1 In molte mitologie, essere intermedio fra gli dei e gli uomini che interviene nel mondo con imprese eccezionali | nella mitologia greco-romana, figlio nato dall’unione di un dio o di una dea con un essere umano e dotato di virtù eccezionali

2 (est.) chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità, fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti.

Per l’estensore della voce “Eroe” di Wikipedia:

L’eroe, nell’era moderna, è colui che, di propria iniziativa e libero da qualsiasi vincolo, compie uno straordinario e generoso atto di coraggio, che comporti o possa comportare il consapevole sacrificio di sé stesso, allo scopo di proteggere il bene altrui o comune.

Per Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo scozzese, autore di una celebre monografia dedicata agli eroi (1841),

la storia universale, la storia di tutto ciò che l’uomo ha compiuto nel mondo […] in fondo è la storia dei grandi uomini che hanno lavorato quaggiù. Essi sono stati i condottieri degli uomini, questi grandi uomini; i modellatori i patroni, e in un senso più largo i creatori di tutto ciò che la massa generale degli uomini ha potuto sforzarsi di fare o di raggiungere; tutte le cose che vediamo compiute nel mondo sono precisamente il risultato materiale esteriore, la realizzazione pratica e l’incarnazione delle idee che sorsero nei grandi uomini inviati nel mondo: l’anima della storia del mondo intero si può giustamente ammettere che sia la loro storia (Carlyle, 1981, pp. 5-6).

Questi grandi uomini sono appunto gli eroi e a loro, secondo Carlyle, dobbiamo il mondo come lo conosciamo.

Da tutte queste definizioni emerge solo ed esclusivamente una lettura “eccezionalista” dell’eroe: una lettura che privilegia le grandi doti, le straordinarie imprese, le singolari sfide. Che ne è allora degli eroi uomini comuni? Come si spiega, per ritornare all’interrogativo precedente, che medici e infermieri siano oggi acclamati come eroi nonostante, come essi stessi riconoscono, non facciano altro che il loro ordinario, quotidiano, banale lavoro? La stessa sorte – si ricorderà – è toccata ai pompieri americani nel 2001, all’epoca dell’assalto alle Torri Gemelle, o ai tanti poliziotti, magistrati e giornalisti uccisi dalla criminalità organizzata in Italia. Tutti individui che facevano solo il proprio lavoro.

Come può, dunque, l’ordinario diventare eroico? Una spiegazione ci viene dalle scienze sociali.

Il sociologo americano Orrin Edgar Klapp (1915-1997) ha dedicato vari articoli alla interpretazione sociologica dell’eroe (1948; 1949; 1954) che ci consentono di comprendere questa figura da una prospettiva sensibilmente diversa da quella adottata dalla maggior parte delle fonti in argomento, a partire da quelle definitorie. Per semplicità, faremo riferimento a un solo articolo di Klapp (1948), qui da me tradotto per la prima volta in italiano, il cui titolo è “The Creation of Popular Heroes”.

Per Klapp, l’eroe popolare è soprattutto un tipo sociale a cui viene attribuito spontaneamente un ruolo da parte della società in un determinato luogo e tempo. Comprendere questo tipo sociale significa comprendere un elemento simbolico essenziale della psicologia collettiva a cui le persone reagiscono sollecitamente. Gli eroi popolari emergono e prosperano in epoche di instabilità e sorgono essenzialmente in quattro modi: «per riconoscimento e ossequio popolari spontanei; per selezione formale, come nel caso delle canonizzazioni e delle onorificenze militari; per lo sviluppo graduale di leggende popolari; e come creazione poetica di drammaturghi, cantastorie e scrittori».

Gli eroi emergono in ambiti della vita che suscitano interesse da parte del pubblico. Per Klapp, non è necessario che tali ambiti siano legati a importanti eventi storici, come quelli che vengono celebrati nei libri, ma essi presuppongono sempre l’esistenza di situazioni che suscitano emozione, tensione e coinvolgimento, come nello sport, in un dramma, in una battaglia, in una crisi politica o, potremmo aggiungere, durante un’epidemia. In questo senso, «quasi ogni problema sociale o crisi politica, sportiva o quotidiana può essere l’occasione perché emerga un eroe».

Ai fini della “nascita” dell’eroe, non è necessario che il “candidato” possegga particolari caratteristiche personali. Sono i ruoli che creano l’eroe e i ruoli sono ascritti dal pubblico collettivamente. Klapp afferma che «in assenza di uno sforzo deliberato per crearli; l’evoluzione di un eroe è, in gran parte, un processo collettivo involontario». Contrariamente al sentire comune, dunque, le caratteristiche personali non sono in grado, di per sé, di creare l’eroe. Esse sono sempre subordinate al ruolo.

Per Klapp, è possibile descrivere sei possibili ruoli eroici: (1) l’eroe conquistatore, (2) la cenerentola, (3) l’eroe astuto, (4) l’eroe liberatore e vendicatore, (5) il benefattore, (6) il martire. È possibile anche descrivere degli elementi o ruoli che minano la credibilità dell’eroe e sono potenzialmente in grado di distruggerne l’immagine (“ruoli antieroici”). Si tratta di: (1) la défaillance, (2) la slealtà, (3) la persecuzione e (4) il personaggio del buffone o dello sciocco.

In conclusione, per Klapp:

Lo studio degli eroi popolari indica che eroi, cattivi e sciocchi incarnano simboli sociali essenziali. La mente degli individui è strutturata in base a categorie con cui definire persone e situazioni. Quando una persona viene definita un eroe, diventa potenzialmente un leader molto attraente e potente. Questi ruoli essenziali con cui definiamo gli individui rappresentano immagini primitive che, pur non essendo archetipi ereditari, come credeva Jung, ed essendo probabilmente basati su esperienze umane universali, forniscono una chiave d’accesso alla psicologia collettiva. Le masse reagiscono in base a determinate definizioni tipo che tutti possono comprendere. In questo modo, un gran numero di persone possono essere rapidamente spinte a provare determinate emozioni collettive, che possono confluire nel culto dell’eroe o in condotte generose, umoristiche, vendicative o ostili.

Mettendo insieme, le riflessioni di Klapp, possiamo cominciare a capire perché alcuni individui, pur non possedendo doti straordinarie, riescano ad assurgere a ruoli eroici. L’eroe non deve essere dotato necessariamente di caratteristiche personali di eccezione. Il ruolo di eroe viene attribuito dalla collettività a determinati tipi sociali in ragione del fatto che la loro attività suscita improvvisamente interesse, emozione, coinvolgimento. Ciò è dovuto di solito al verificarsi di una situazione di crisi, di tensione, di dramma che proietta, per così dire, nuova luce su condotte fino a quel momento poco considerate o date per scontate o che rende improvvisamente importanti, se non vitali, quelle condotte. Qualsiasi occupazione, comportamento o azione può, dunque, vedersi attribuita una qualifica eroica, se la situazione lo consente. L’eroe è il precipitato sociale di attribuzioni, situazioni e significati sociali. In un certo senso, la sociologia capovolge l’assunto di senso comune sull’eroe: l’eroe non è tale perché possiede doti straordinarie intrinseche, ma è tale perché gli/le vengono attribuite doti eroiche dalla collettività.

 Anche lo psicologo sociale Philip Zimbardo (2008) è dell’opinione che l’eroismo non sia appannaggio di uomini e donne speciali. Anzi, a suo avviso, l’idea dell’eroe come di una persona superiore alla norma è fondamentalmente errata: «L’eroismo e lo status di eroe sono sempre attribuzioni sociali. Qualcuno, che non è l’attore, conferisce quell’onore alla persona e all’atto. Perché un atto sia considerato eroico, e perché chi lo compie sia chiamato eroe, deve esserci un consenso sociale sul significato e sulla conseguenza significativa dell’atto» (Zimbardo, 2008, p. 627). È per questo motivo che un attentatore suicida palestinese può essere considerato un eroe in Palestina e un assassino o un terrorista in Israele. L’eroicità come attribuzione sociale fa sì che lo status di eroe sia una condizione relativa, sempre legata alla cultura e all’epoca. Non esiste un eroe assoluto. L’eroe è tale in quanto parte di una comunità di individui che lo “elegge” tale.

Zimbardo oppone alla nozione tradizionalmente accettata che l’eroe sia una persona straordinaria, la nozione che l’eroe sia una persona comune che fa qualcosa di straordinario o di almeno ritenuto tale in una data situazione. È l’interazione tra persona e situazione a indurre l’individuo ad agire eroicamente in un particolare tempo e luogo: «Una situazione può fungere da catalizzatore, incoraggiando l’azione, oppure può ridurre le barriere all’azione, come la formazione di una rete sociale di supporto. È interessante che nella maggior parte dei casi le persone che hanno compiuto un’azione eroica abbiano più volte rifiutato la denominazione di eroi» (Zimbardo, 2008, pp. 651-652).

Per Zimbardo, l’eroismo deve prevedere quattro tratti fondamentali:

(a) deve trattarsi di un’azione intrapresa volontariamente; (b) deve comportare un rischio o un potenziale sacrificio, come la minaccia di morte, un’immediata minaccia all’integrità fisica, una minaccia a lungo termine alla salute o la possibilità di un grave deterioramento della propria qualità di vita; (c) deve essere compiuto nell’interesse di una o più persone o della collettività nel suo complesso; (d) non deve comportare un beneficio estrinseco, secondario, anticipato al momento dell’atto (Zimbardo, 2008, p. 634).

Lo psicologo americano individua poi dodici sottocategorie all’interno della macrocategoria “eroi”: 1) Eroi militari e altri eroi che corrono un rischio fisico connesso al loro compito; 2) Eroi civili. Eroi che corrono un rischio fisico non connesso al loro compito; 3) Figure religiose; 4) Figure politico-religiose; 5) Martiri; 6) Leader politici o capi militari; 7) Avventurieri/esploratori/scopritori; 8) Eroi della scienza; 9) Buon samaritano; 10) Chi sconfigge l’handicap/Emarginati; 11) Eroi della burocrazia; 12) Denunciatori.

In definitiva, per Zimbardo, si può parlare di “banalità dell’eroismo”:

Non esistono speciali attributi interiori né della patologia né della bontà che risiedano nella psiche umana o nel genoma umano. Entrambe le condizioni emergono in particolari situazioni, in particolari circostanze, quando le forze situazionali svolgono un ruolo determinante nell’indurre singoli individui a varcare la frontiera decisionale fra inerzia e azione. C’è un momento decisionale cruciale in cui una persona è catturata in un vettore di forze che emanano da un contesto comportamentale. Quelle forze si combinano per aumentare la probabilità che essa agisca per fare del male ad altri o per aiutare altri. La decisione può o meno essere programmata consapevolmente o presa razionalmente. Piuttosto, nella maggior parte dei casi potenti forze situazionali spingono impulsivamente una persona all’azione. Fra i vettori situazionali annoveriamo: pressioni del gruppo e identità di gruppo, la diffusione della responsabilità dell’azione, una concentrazione temporale sull’immediato, senza preoccupazioni per le conseguenze derivanti dall’atto in futuro, la presenza di modelli sociali e l’adesione a una ideologia» (Zimbardo, 2008, pp. 655-656).

La prospettiva della banalità dell’eroismo non ridimensiona il mito dell’eroe perché l’atto eroico rimane speciale e raro. Significa semplicemente che «siamo tutti eroi latenti. È una scelta che possiamo tutti essere chiamati a fare in un certo momento. Credo che facendo dell’eroismo un attributo egualitario della natura umana invece che una caratteristica rara di pochi eletti, possiamo promuovere meglio gli atti eroici in ogni collettività» (Zimbardo, 2008, p. 658).

Infine, tra i non tantissimi contributi delle scienze sociali all’eroismo, è opportuno ricordare almeno Sibylle Scheipers secondo la quale la creazione dell’eroe è frutto di un «processo continuo di costruzione sociale piuttosto che derivare dal compimento di un atto di coraggio individuale o, altrimenti detto, di una condizione sociale che dà rilievo a narrazioni di eroismo e sacrificio» (2014, p. 5). Secondo Scheipers, a questo processo contribuiscono molti attori e, di conseguenza, il concetto di eroismo è sempre soggetto a ricostruzioni e reinterpretazioni, come è evidente dal fatto che individui considerati eroi in una determinata epoca possono non esserlo più a distanza di tempo (si pensi alla figura di Cristoforo Colombo, eroe esploratore per secoli e da diversi decenni accusato di genocidio da alcune comunità native americane) e che individui considerati devianti e criminali in un’epoca possono acquisire uno status eroico in tempi successivi (è il caso dei briganti del Sud Italia della seconda metà dell’Ottocento in Italia, oggi considerati eroi della resistenza antisabauda secondo alcune letture storiche). Il ruolo di eroe non risponde, dunque, solo a variabili di tipo situazionale, geografico o comunitario, ma anche di tipo storico e longitudinale.

Riassumiamo brevemente le considerazioni finora svolte.

Da un punto di vista sociologico, l’eroe non è tale perché dotato di caratteristiche personali straordinarie. Il ruolo di eroe viene attribuito dalla collettività a determinati tipi sociali in ragione del fatto che la loro attività suscita improvvisamente interesse ed emozione, di solito in periodi di crisi o tensione, in cui quella attività acquista improvvisamente salienza e importanza. Lo status di eroe è sempre la conseguenza di un’attribuzione sociale. È necessario che esso sia conferito da qualcuno o da una collettività. Ciò significa che esso è sempre relativo, in quanto legato alla cultura e all’epoca. È l’interazione tra persona e situazione a suggerire il compimento di azioni eroiche situate in un particolare tempo e luogo. In definitiva, la “nascita” dell’eroe è un fatto più banale e quotidiano che straordinario. Infine, si può dire che lo status di eroe è socialmente costruito in base a narrazioni e interpretazioni incessanti, per cui esso è legato non solo alla cultura e all’epoca, ma anche ai cambiamenti storici.

Applicando le riflessioni finora svolte alle figure eroiche di medici, infermieri e paramedici emerse nel periodo del coronavirus, possiamo ora comprenderne la genesi apparentemente arcana. Il ruolo di eroi è stato collettivamente attribuito a queste figure sanitarie in un periodo in cui, in virtù della crisi sociale provocata dall’epidemia di coronavirus e delle notevoli tensioni psicologiche e di altro genere conseguenti, le loro competenze e conoscenze sono diventate improvvisamente molto più salienti rispetto al normale. L’interazione tra questi tipi sociali e la situazione specifica venutasi a creare in seguito alla diffusione del virus ha creato un humus unico che ha trasformato il banale in straordinario, il quotidiano in eccezionale. Al tempo stesso, una serie, anche eterogenea, di narrazioni e interpretazioni hanno contribuito alla costruzione del medico/infermiere/paramedico eroe secondo un processo di ascrizione destinato probabilmente a perdere vigore una volta che l’emergenza sarà terminata. Medici, infermieri e paramedici non posseggono di per sé tratti straordinari, ma, dal momento che le loro attività sono percepite come particolarmente rilevanti e utili ai fini del debellamento del virus, hanno acquistato uno status eroico, “per riconoscimento e ossequio popolari spontanei”.

Come detto, qualsiasi occupazione può, nella giusta situazione, vedersi attribuita una qualifica eroica. I tipi sociali emersi durante la crisi indotta dall’epidemia di coronavirus sono, a tutti gli effetti, il precipitato sociale di attribuzioni, situazioni e significati sociali. Non si potrebbero capire questi processi di attribuzione, se non in riferimento a una situazione specifica, a un tempo specifico, a un luogo specifico, a una cultura specifica. Come sono assegnati, i ruoli eroici possono essere anche sottratti, ad esempio tramite processi di screditamento. Un esempio è dato dal tentativo di far passare gli operatori sanitari per novelli untori in virtù, come abbiamo visto, del loro persistente contatto con chi è contagiato dal virus.

Al di là di questa possibilità, è evidente la natura fondamentalmente sociologica del carattere eroico di medici, infermieri e paramedici. Ulteriore conferma del fatto che anche fenomeni apparentemente individuali e causati da ragioni intime e psicologiche, come l’eroismo o, potremmo aggiungere, il suicidio, di cui si occupò magistralmente Émile Durkheim alla fine del XIX secolo, sono in realtà e sorprendentemente determinati (anche) socialmente.

Riferimenti:

Carlyle, T. (1981). Gli eroi. Milano: Dall’Oglio.

Durkheim, É. (1897).  Le Suicide. Etude de Sociologie. Paris: Felix Alcan Editeur.

Klapp, O. E. (1948). “The Creation of Popular Heroes”, American Journal of Sociology, vol. 54, n. 2, pp. 135-141.

Klapp, O. E. (1949). “Hero Worship in America”, American Sociological Review, vol. 14, n. 1, pp. 53-62.

Klapp, O. E. (1954). “Heroes, Villains and Fools, as Agents of Social Control”, American Sociological Review, vol. 19, n. 1, pp. 56-62.

Scheipers, S. (ed.) (2014). Heroism and the Changing Character of War. London: Palgrave Macmillan.

Zimbardo, P. (2008). L’effetto Lucifero. Milano: RaffaelloCortina Editore.

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