L’effetto “bookcase flex”

Tra gli effetti indiretti dell’ultima pandemia virale, vi è sicuramente la diffusione di sistemi mediati di comunicazione per compensare l’impossibilità degli incontri faccia a faccia. Piattaforme come Zoom, Skype, Google Meet, Cisco ecc. sono ormai adoperate da un numero ingente di persone e non solo per condurre incontri professionali, webinar e formazione a distanza. Un effetto indiretto di questo effetto indiretto è che la comunicazione mediata da piattaforma prevede modalità di presentarsi diverse dalla comunicazione in presenza. Chi partecipa a una videoconferenza deve curare di apparire fotogenico, accertarsi che video e audio funzionino in maniera ottimale e sincrona, evitare possibili intrusioni da parte di familiari e altri ospiti, non incappare in fuori onda imbarazzanti ecc. La presentazione del sé su Zoom e Skype risponde a logiche quasi simili a quelle televisive con tutto ciò che ne consegue in termini sociocomunicativi.

Molti esperti consigliano di curare anche lo sfondo delle proprie apparizioni. Questo dovrebbe essere neutro e veicolare personalità e professionalità. In questo senso, non sorprende che tra i fenomeni emergenti in questo ambito quello del bookcase flex, come dicono gli anglofoni, appaia uno dei più caratteristici. Esibire una biblioteca fornita consente, infatti, secondo gli esperti, di dare un’impressione di affidabilità, credibilità, fiducia come poche altre cose. La conseguenza imprevista è che persone per nulla interessate alla lettura si danno da fare per piazzare sullo sfondo delle proprie apparizioni in videoconferenza libri che non hanno mai letto e che probabilmente non leggeranno mai, pur di “fare una buona impressione”.

Nell’epoca della pandemia, dunque, i libri diventano bonus estetici professionali per sostenere la propria reputazione e per distorcere convenientemente le idee che gli altri si fanno di noi. Non importa leggere. Importa dare l’impressione di leggere. E sembra che funzioni davvero.

Il fenomeno del bookcase flex è l’ennesima riprova che viviamo in una società in cui importa solo apparire, non essere. E se consideriamo che la società pandemica in cui viviamo ostacola la comunicazione faccia a faccia, possiamo capire come essa incrementi, anziché ridurre, l’importanza dell’apparire sull’essere.  

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