Sull'”essere professionali”

Oggi si dà molta importanza all’essere professionali. Essere professionali è una caratteristica positiva, molto apprezzata nei rapporti di lavoro. Si lodano il medico, l’avvocato, il giornalista, lo scienziato per la loro professionalità. Ma anche il cameriere, il commesso, l’autista di taxi, il parrucchiere. Perfino un sicario o una escort possono essere molto professionali. La professionalità fa la differenza tra un lavoratore e l’altro. È un criterio di buona condotta e approvazione sociale. Un’aspirazione e un ambizione. A tutti fa piacere essere definiti “professionali”. Ma che cosa significa davvero?

Essere “professionale” significa innanzitutto mostrare particolare competenza e preparazione nello svolgimento della propria attività o professione. Ma la competenza è solo un aspetto della faccenda. Essere professionali significa imparare a disgiungere il lavoro da tutto il resto, la neutralità affettiva dall’affettività, le emozioni dal lavoro. Significa imparare un ruolo e seguirlo senza cedimenti, senza esitazioni. Significa aderire a una parte senza lasciare che questa venga contaminata da altre parti. Significa imparare a mascherarsi bene e non togliere mai la maschera.

Per comprendere bene l’essenza della “professionalità” occorre rivolgersi a uno degli strumenti concettuali più fortunati della sociologia contemporanea: le cosiddette “variabili strutturali” (pattern variables) elaborate dal sociologo americano Talcott Parsons (1902-1979) per spiegare gli orientamenti culturali tipici di ogni società. Per Parsons, l’azione umana si declina secondo le seguenti coppie di alternative, definite appunto variabili strutturali:

  • Affettività/Neutralità affettiva: le azioni umane possono essere guidate dalle emozioni e dagli affetti oppure da criteri che nulla hanno a che vedere con le emozioni.
  • Diffusione/Specificità: le azioni umane possono indirizzarsi a considerare tutti gli aspetti della personalità umana o solo qualcuno, come quando ci si rivolge al macellaio per acquistare la carne. Nel momento in cui interagiamo con lui o lei, a noi interessa solo in quanto macellaio, non in quanto padre/madre, figlio/figlia, appassionato/a di robotica o di filatelia ecc.
  • Universalismo/Particolarismo: le azioni umane possono ispirarsi a criteri universalistici, come il merito, o a criteri particolaristici e privati.
  • Acquisitività/Ascrizione: le azioni umane possono ispirarsi a criteri acquisitivi (la prestazione) o ascrittivi (appartenenza a una data famiglia).
  • Orientamento alla collettività/Orientamento a sé stessi: le azioni umane possono essere guidate da interessi collettivi o privati.

Ebbene, se analizziamo la professionalità secondo la tipologia appena descritta, risulterà evidente che la persona che si comporta in maniera professionale deve possedere le seguenti caratteristiche:

  • L’individuo professionale deve essere neutralmente affettivo e non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni. Un chirurgo professionale deve essere in grado di eseguire un’operazione sulla base delle sole competenze tecniche senza che altri fattori intervengano a condizionare l’esito del suo lavoro.
  • L’individuo professionale deve essere specifico. Uno psicologo impegnato con un paziente deve limitarsi a considerarlo solo per il problema che gli viene esposto non per altri motivi. Ad esempio, se si trova di fronte una bella ragazza, non può mettersi a corteggiarla durante una seduta. Ciò sarebbe considerato, appunto, poco professionale.
  • L’individuo professionale adotta criteri universalistici e non particolaristici. Ad esempio, un selezionatore professionale sceglierà il migliore candidato a un posto di lavoro in base a criteri quali il merito piuttosto che particolaristici (il candidato è figlio del suo amico).
  • L’individuo professionale si orienta sempre verso criteri acquisitivi: un insegnante professionale valuterà i suoi alunni sulla base delle loro prestazioni oggettive, non in base alle appartenenze familiari o alle simpatie.
  • Infine, l’individuo professionale è sempre guidato da interessi collettivi. Se fosse guidato da interessi privati, comprometterebbe il buon esito del suo lavoro. Un impiegato pubblico poco professionale che decidesse di emettere certificati solo a favore di parenti e amici non si comporterebbe in maniera corretta.

In sintesi, l’individuo professionale non deve essere guidato da nessun genere di affettività; deve ricoprire il proprio ruolo aderendo rigorosamente a quanto esso stabilisce; deve adottare criteri di giudizio prescritti dal ruolo nei confronti degli altri e della realtà; deve essere guidato da interessi prescritti dal ruolo.

Questo significa che l’individuo professionale deve, per essere tale, rinunciare a quanto di umano e complesso vi è in lui/lei, e obbedire senza esitazioni a fisionomie, condotte e posture predeterminate e “circoscritte”. “Professionalità” significa rifiutare la complessità a favore della parzialità. La professionalità è un’operazione di anatomia sociale. Il taglio, la recisione sono le sue cifre elettive. L’individuo professionale deve ritagliare tra le mille condotte possibili solo quella adatta al proprio ruolo. Deve imparare a parlare, pensare e agire come esige il ruolo. Al limite, essere disposto ad annullarsi completamente in esso, diventarne prigioniero senza condizioni. E più si annulla in esso, più sarà giudicato “professionale”.

Il nemico diabolico di questo processo è il pensiero critico. Se l’individuo professionale assume la fisionomia del ruolo senza mai metterla in discussione sarà accolto da sorrisi e pacche sulle spalle. Se mette in discussione il ruolo sarà giudicato “poco professionale”, verrà considerato un individuo di dubbia competenza, strano, forse inaffidabile. Ma ciò che gli altri chiamano “strano” è in realtà tutto ciò che eccede il ruolo professionale e che talvolta coincide senz’altro con l’essere “umani”.

Essere professionali configura, così, una forma estrema di adesione al ruolo e di rimozione della propria umanità. Il caso limite è quello del sicario che assolve professionalmente alla propria occupazione sine ira et studio, uccidendo persone sconosciute senza alcun coinvolgimento emotivo perché totalmente assorbito dal proprio ruolo. Da un punto di vista professionale, il suo operato è impeccabile; dal punto di vista morale è crudele, terribile, malvagio. Per i cultori della professionalità, il suo è un lavoro fatto bene. Per tutti gli altri, il suo agire è esecrabile.

In questo senso, il ruolo è anche un rifugio per individui insicuri. Aderendo agli imperativi imposti dal ruolo, celandosi dietro le apparenze solide della parte che recita, l’insicuro acquisisce sicurezza. Molte persone mediocri riescono a sentirsi rispettate solo quando interpretano fin negli aspetti più minuti un ruolo. La conformità totale e acritica a quanto esso prescrive è lo scudo dietro il quale si trincerano. Una volta fuori dal ruolo professionale, lasciate a se stesse, si sentono smarrite e incapaci di tutto e rivelano la loro mediocrità assoluta come nello stereotipo del temuto direttore d’azienda, inflessibilmente devoto al proprio ruolo, che rivela la propria nullità umana in famiglia.

La professionalità può, dunque, essere un’opportunità per essere celebrato e lodato. Naturalmente, affinché ciò avvenga, la conformità rispetto alle aspettative legate al ruolo deve essere totale o quasi. Più ci si conforma, più si è approvati. Ma più ci si conforma, più si perde in umanità.

Ecco, così, che una delle qualità più ambite della nostra “società della prestazione” rivela tutta la propria fragilità, rivelandosi una sorta di cortocircuito sociale: essere professionale vuol dire spesso limitare la propria umanità entro un alveo prestabilito. In taluni casi, poi, la professionalità è un paravento per persone insicure e mediocri, forse insicure e mediocri per non aver fatto altro che ricoprire ruoli nella loro esistenza. La professionalità, insomma, rappresenta uno dei grandi paradossi della modernità, che celebra questo attributo nel momento stesso in cui prescrive la perdita, seppure parziale, della qualità che fa di noi quello che siamo: la complessità umana.

Fonte:

Parsons, T., 1996, Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Milano.

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