La “soddisfazione di essere la causa” di Karl Groos

Nel 1901, lo psicologo tedesco Karl Groos (1861-1946)  scoprii che i bambini piccoli esprimono una straordinaria felicità quando si rendono conto per la prima volta di poter provocare effetti prevedibili nella realtà circostante, abbastanza indipendentemente da quale fosse l’effetto e dal fatto di poterlo interpretare come benefico per loro.

Groos coniò al riguardo l’espressione “soddisfazione di essere la causa”, ipotizzando che sia questo il fondamento del gioco, che egli considerava l’esercizio di facoltà per il semplice piacere di esercitarle. In virtù di esso, i bambini arrivano a capire di esistere, di essere entità distinte dalla realtà attorno a loro, e comprendono che sono “loro” ad aver appena causato un avvenimento, e che possono farlo accadere di nuovo. Altro fatto cruciale, questa realizzazione è contrassegnata, sin dall’inizio, da una sorta di delizia che resta lo sfondo essenziale di ogni successiva esperienza umana.

Questa “soddisfazione di essere la causa” rimane il fondamento implicito del nostro essere. È solo quando sappiamo di essere la causa di qualcosa che possiamo trarne soddisfazione. Ecco perché, come ricorda l’antropologo David Graeber, svolgere un lavoro che ci fa sentire inutili o che sembra non avere alcuna conseguenza sul mondo esterno ci rende incapaci di esistere e può avere un effetto devastante sulle nostre vite.

Desideriamo esercitare i nostri poteri come fine in sé. Questo, secondo Groos è tutto ciò in cui consiste davvero la libertà. La libertà è la nostra capacità di inventare le cose per la sola ragione di essere in grado di farlo (Graeber, D., 2018, Bullshit jobs, Garzanti, Milano, p. 115).

Viviamo, però, in una società che ci invita a lavorare per amore del lavoro indipendentemente da che cosa facciamo. Questa feticizzazione assoluta del lavoro è talmente interiorizzata che la diamo per scontata. E se invece ci dedicassimo a svolgere un lavoro che ci fa sentire bene e che è davvero utile per la società? Non sarebbe una rivoluzione come mai se ne è avuta una?

Dovremmo liberarci dei bullshit jobs di cui parla Graeber e smetterla di idolatrare il lavoro in quanto lavoro. Il lavoro non nobilita davvero uomini e donne se non è un lavoro dotato di senso.

Questa voce è stata pubblicata in Sociologia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.