Sulla retorica degradante dell’eccellenza

L’eccellenza un tempo era un’altra cosa. Come ci insegna la Treccani, era un titolo “per molto tempo riservato al sovrano, sia nel regno longobardo, sia nel regno franco; e più tardi anche all’imperatore, fino a Enrico VII, pur continuando a essere usato per i re […]. Se ne servirono nel sec. XV i principi italiani; e venendo ormai in uso i titoli di “maestà” e di “altezza” per i capi di stato, “eccellenza” divenne l’attributo degli ambasciatori e dei grandi funzionari dello stato”.

In Italia, continua sempre la Treccani, “eccellenza” era “riservato ai personaggi compresi nelle prime quattro categorie delle precedenze a corte, cioè ai grandi ufficiali dello stato. Nella gerarchia ecclesiastica, oltre a determinati prelati, era attribuito abitualmente ai vescovi” (Enciclopedia italiana 1932). Oggi, il titolo è stato abolito per le cariche civili dalla legge italiana nel 1945, ma tutti ricordano espressioni come: “Vorrei parlare con S. E.”, che, anche  a livello regionale, è dato talora di sentire.

Nelle consuetudini e nelle convenzioni protocollari, “ma anche, più in senso stretto giuridicamente”, ricorda Raffaele De Mucci, “eccellenza” continua a essere adoperato “in campo politico (per gli ambasciatori residenti; e nelle cerimonie ufficiali, per rivolgersi a un Capo di stato o a un ministro), amministrativo (per i prefetti in sede), giudiziario (per il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione, i presidenti delle Corti di appello e i procuratori generali), religioso, nobiliare e militare. Questa prassi venne consolidata e imposta per legge durante il fascismo”.

Ricordiamo che in Dante Alighieri, “eccellenza” aveva il significato di “elevata superiorità” rispetto ad altri e di “perfezione spirituale sovrumana”,

Infine, conclude mestamente la Treccani, “eccellenza” è diventato “termine di uso senza più connessione con una determinata carica”.

Possiamo iniziare da qui.

Ormai del termine “eccellenza” si abusa in modo inverecondo. Del titolo sono investiti non solo cariche importanti dal punto di vista politico, religioso, militare, ma mozzarellari che esportano con successo il proprio prodotto all’estero, pizzaioli abili nel lanciare e riprendere ammiccando la propria pasta davanti a una telecamera; cuochi pluristellati; artigiani specializzati nel vetro di Merano, nell’ebano, nel tessuto e in improbabili quanto poco utili oggetti; industriali salvatori del distretto in crisi; performatori finanziari; specialisti della customer satisfaction.

È tutto un profluvio di “imprese eccellenti”, “nicchie di eccellenza”, “eccellenza del made in Italy”. Si eccelle nel luxury, nel pets, nell’agroalimentare. Basta saper cucinare, vendere, filare, esportare più del concorrente dirimpettaio che si diventa “eccellenti”. Ci si può perfino iscrivere a un Registro Eccellenze Italiane che “conta circa 8000 aziende dislocate in Italia e all’estero: attività alle quali è stato rilasciato il marchio registrato con un ID anticontraffazione”. Basta possedere qualche certificazione condita da marchi DOP, DOC, IGP, IGT ecc. e da iscrizioni ad albi professionali che si diventa “eccellenti”. L’eccellenza come contrassegno burocratico.

Sembra chiaro che “l’eccellenza è ciò è definito tale”. In questo modo, probabilmente, tutti noi arriveremo a fare qualcosa nella vita che sarà definito eccellente da qualcuno. Forse, anche i criminali più abili saranno, prima o poi, definiti eccellenti, con tanto di marchio e certificazione. Del resto, si ergono al di sopra della massa (e dei delinquentelli di mezza tacca)!

Come ricorda ancora Raffaele De Mucci: “In questi ultimi anni […] abbiamo assistito a un uso indiscriminato e fuorviante dell’appellativo di “eccellenza”, a un vero e proprio abuso del concetto come panacea di modernizzazione e sviluppo sociale, politico e culturale”. E questo al di là di qualsiasi criterio di supremazia nel possesso di particolari capacità, conoscenze e competenze. Criteri che, comunque, sono labili, fluttuanti, mutevoli e che finiranno con lo svuotare il termine “eccellenza” di qualsiasi significato concreto, come tante altre parole abusate e neutralizzate, o nel degradarne il senso per una malintesa volontà di democratizzare alla mediocrità.

Quel che è certo è che oggi non si eccelle per il possesso di qualità morali o spirituali sovrumane, come ai tempi di Dante, ma perché qualcuno ci iscrive a un registro.  

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