Siamo tutti areligiosi in cerca di sacro

Come afferma Mircea Eliade nelle pagine finali del suo Il sacro e il profano (Bollati Boringhieri, Torino, pp. 129-132), l’uomo profano o areligioso porta ancora in sé le tracce del comportamento devoto a cui ci ha abituato la tradizione, depurate dei significati religiosi. Anzi, sembra essere ossessionato dalla religiosità che sconfessa. Egli esibisce ancora condotte che rimandano al sacro di cui non è pienamente consapevole, ma che possiedono una struttura e un’origine magico-religiosa indubitabili. Come, ad esempio, gli innumerevoli riti e miti che continuamente crea e dissolve. Pensiamo ai festeggiamenti che accompagnano il nuovo anno, l’entrata in una nuova casa, l’acquisto di una nuova automobile, la nascita o il compleanno di un bambino, il conseguimento di un nuovo lavoro, una promozione.

L’uomo areligioso sostituisce ai miti religiosi nuovi miti che gareggiano con i primi quanto a motivi fantastici in essi contenuti. Si pensi al cinema, alla letteratura, alla musica che presentano continuamente lotte tra eroi e mostri, combattimenti e prove iniziatiche, figure esemplari (la “fanciulla” l’“eroe”, il “paradiso”, l’“inferno”) che proiettano lo spettatore/lettore/ascoltatore in universi “sacri”, seppure di un sacro diverso da quello religioso. Un mondo dominato dalla finzione come, e forse più, della religione.

Pensiamo, poi, a quella miriade di credenze, superstizioni, culti che affliggono la società contemporanea e che non hanno nulla da invidiare alle credenze e alle superstizioni di un tempo: mi riferisco al culto del “bio” e del “naturale” a ogni costo; alle convinzioni sulla bellezza e sull’estetica che facciamo nostre senza neppure sapere perché; alla venerazione degli animali, in particolare dei pets, che ha elevato questi al rango di umani con tanto di cappottino invernale e punti vendita dedicati; ai rituali del cibo officiati da sacerdoti con cappello bianco che si fanno chiamare chef.

Se la confessione è stata sostituita dalla psicoterapia, il digiuno religioso dal digiuno salutistico, il cilicio salvifico dal running salubre, la preghiera comunitaria dal pilates, l’eucarestia dalla dieta macrobiotica, il pellegrinaggio dal turismo di massa, la morale dogmatica da quella del politically correct, il religioso emerge anche in campi insospettabili.

Oggi, termini come mission, redemption, vision, vocazione, community, fidelizzazione (loyalty), customer loyalty, fidelity card/programs, follower (seguace), ricompensa (reward), valori e conversione vengono adoperati quasi esclusivamente nel marketing. Il calcio, si sa, è questione di “fede” per gli ultras e il tifo è paragonabile a una sorta di fanatismo religioso con tanto di rito ad hoc, non limitato più alla domenica. Il tifo divide il mondo in buoni e cattivi: è buono chi tifa per la mia squadra, cattivo chi parteggia per altri. È raro trovare un campo morale in cui tale suddivisione assuma tratti così manichei. A parte quello della religione, ovviamente. Il calcio è uno sport in cui i portieri “fanno miracoli”, le squadre “lottano per la salvezza” e “provano sofferenza” e se precipitano in serie B, “risorgono”. I calciatori più celebri sono “predestinati” da giovani, “idolatrati” o “divinizzati” secondo precise liturgie, in seguito. Per non parlare delle “stelle” del cinema, delle costellazione astrali delle band musicali, delle influencer dotate di milioni di follower.

Insomma, l’uomo areligioso di Eliade ha lo stesso bisogno di sacro dell’uomo religioso a cui si oppone perché il sacro, pur desacralizzato e reso oggetto di consumo, serve a conferire un senso alla propria vita. Come dire: meglio un senso qualsiasi che nessun senso.

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