“Si stava meglio quando si stava peggio”

 “Ah, i bei tempi andati!”. “O tempora, o mores!”.

Una vena nostalgica pulsante percorre tanti discorsi quotidiani di tanti fra noi, no necessariamente vecchi. Un tempo, le persone erano più oneste, gentili e socievoli; i ragazzi più rispettosi; i sentimenti e gli amici più sinceri; le ragazze acqua e sapone; la vita meno complicata; il cibo più genuino; le relazioni più spontanee; i rapporti di vicinato erano una cosa seria; la musica era più armonica; il calcio era più autentico. C’era meno criminalità e i crimini erano meno efferati di oggi; tante malattie e disagi psichici non esistevano; trovare lavoro era più facile; ci si divertiva con poco e ai bambini era sufficiente giocare a nascondino o a campana.

Mentre oggi… oggi non si capisce niente. Non puoi più fidarti di nessuno. Si pensa solo ai fatti propri. Nessuno ha più rispetto per gli altri e i “giovani di oggi” sono viziati, irresponsabili, strafottenti e violenti. Con i vicini solo buongiorno e buonasera. Le ragazze si truccano troppo e hanno troppe pretese, mentre i ragazzi pensano solo al fisico e al profilo Instagram. I rapporti sociali sono assediati da mille diavolerie tecnologiche. La musica è inascoltabile, solo rumore; il calcio è diventato un fatto commerciale e i calciatori mercenari che cambiano bandiera dalla sera alla mattina. La criminalità dilaga come non mai e i criminali sono diventati più crudeli e spietati. Ci si ammala per patologie che prima nessuno sentiva nemmeno nominare, mentre i bambini crescono troppo in fretta, esposti come sono a tonnellate di sesso e violenza nei media.

La litania dei “bei tempi andati” non è un fatto nuovo. Il mito dell’età dell’oro – un’epoca primigenia in cui avrebbero regnato letizia, tranquillità e abbondanza – è vecchio quanto l’umanità. Nel poema di Esiodo, Le opere e i giorni, risalente all’VIII secolo a. C., si descrive un tempo in cui gli uomini vivevano come dei e «passavano la vita con l’animo sgombro da angosce, lontani, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la misera vecchiaia incombeva su loro […] tutte le cose belle essi avevano». Esiodo contrapponeva l’età dell’oro a quella del ferro, in cui viveva egli stesso, dove la vita era fatica e dolore (Polidoro, 2019, p. 299). Molto simile è il mito dell’Arcadia, luogo idealizzato dove uomini e natura vivono in perfetta armonia. L’Arcadia divenne una delle ambientazioni preferite della poesia bucolica, interpretata da Teocrito e Virgilio. Quest’ultimo, ad esempio, teorizza nella quarta egloga delle sue Bucoliche l’arrivo di un misterioso puer che avrebbe preannunciato il ritorno dell’età dell’oro.

Anche l’Eden biblico rappresenta una versione dell’età dell’oro. Occorre, infatti, l’intervento del serpente tentatore per far bandire Adamo ed Eva dalle sue delizie e far loro scoprire dolore e sofferenza. Nei versi finali dell’Apocalisse (22, 5), viene prefigurato un mondo edenico in cui: “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli”.

Miti dell’età dell’oro sono presenti anche in altre culture. Ad esempio, nelle antiche culture babilonese, sumera e indiana.

Come ricorda Lucrezia Ercoli, «la sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, ma la collocazione temporale di quest’età dorata è sempre diversa. Un’unica costante: è sempre lontana dal presente in cui viene nostalgicamente nominata» (Ercoli, 2022, p. 16). Tale costanza lascia intendere che essa sia un archetipo culturale, un mito, la cui continua rievocazione serve, da un lato, a denunciare le nefandezze del mondo imperfetto in cui viviamo, dall’altro a contrapporvi un passato remoto verso cui tendere idealmente e che ci rassicura raccontandoci che l’umanità può essere felice. Questa epoca primigenia in cui tutti sono gioiosi e in armonia con il mondo rappresenta, dunque, un artificio narrativo che ci aiuta a vivere. Come dice ancora Ercoli: «Siamo noi che costruiamo i tratti dell’epoca d’oro, siamo noi che cerchiamo in un passato vagheggiato e lontano – che non abbiamo vissuto in prima persona e che possiamo ricostruire a posteriori selezionando i suoi profili migliori – i tratti della vera felicità che non rintracciamo nel presente» (Ercoli, 2022, p. 17).

In effetti, se ci spogliamo di ogni nostalgia e ci affidiamo alle statistiche, quello dei “bei tempi andati” appare pateticamente per quello che è: un mito privo di fondamento. Come mostra, ad esempio, dati alla mano, Steven Pinker ne Il declino della violenza (2013), la nostra può essere considerata l’epoca più pacifica della storia dell’umanità. Basti pensare che il tasso di omicidi nell’Europa medievale era oltre trenta volte quello attuale, mentre schiavitù, torture, pene orribili, anche per motivi che oggi considereremmo banali, sono state per millenni pratica quotidiana. Condotte quali stalking, molestie, violenze sessuali, “abuso di mezzi di correzione” non erano considerate riprovevoli o, comunque, erano trattate con estrema indulgenza. La mortalità infantile, una volta diffusissima, è oggi estremamente contenuta. Lo stesso vale per il lavoro minorile, la violenza predatoria, le rivalse dettate dalla vendetta, la letalità delle malattie. Per non parlare del cibo, delle comunicazioni, dell’educazione dei figli, dell’istruzione, della qualità della vita, del rapporto tra culture diverse: tutto è molto migliorato rispetto a cento anni fa.

Ma allora, se le cose stanno così, perché tante persone credono che un tempo il mondo fosse migliore?

Una risposta sociologica la fornisce ancora Lucrezia Ercoli: «La nostalgia, da sempre, è il sentimento dominante della crisi. Quando il presente è opaco e il futuro incerto, quando i cambiamenti sono troppo repentini e disorientanti, ci si tuffa nella geometria invariabile della nostalgia che ricostruisce un passato idilliaco, seleziona i ricordi positivi, sfronda i dettagli dolorosi, rinsalda le radici sicure. Un rassicurante ritorno indietro è l’unico modo per esorcizzare il terrore del mutamento» (Ercoli, 2022, p. 7).

La rievocazione di un passato roseo, più immaginario che reale, serve, dunque, a proteggere noi stessi dalle incertezze di un presente incerto e imprevedibile: una sorta di meccanismo di difesa funzionale al nostro equilibrio sociale e mentale. Non a caso periodi di crisi sociale, quali quelli che si hanno in occasione di rivoluzioni, guerre, pandemie, favoriscono le più straordinarie regressioni passatiste.

Un effetto di tali regressioni è che la comunità può reinventarsi «attraverso la produzione di un forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato» (Ercoli, 2022, p. 42), un passato che presenta caratteristiche che lo fanno somigliare al futuro: «plasmabile, duttile modificabile, adattabile e reinterpretabile. Il passato è pieno di buchi che la nostalgia si affretta a completare a posteriori. La nostalgia unisce i puntini dando vita a figurazioni di volta in volta diverse, a seconda delle necessità» (Ercoli, 2022, p. 43).

Un altro effetto è l’emergere di movimenti politici conservatori che si propongono di ridare smalto alla comunità attraverso il recupero di motivi idealizzati, seppure anacronistici, del passato, assunti a verità cui aderire in maniera irriflessa. Tali movimenti hanno spesso un carattere revanscista, nazionalista e populista e possono attrarre un seguito anche numeroso di seguaci, abbacinati dall’idea di ritornare a un passato glorioso privo di complessità storica e rimesso a lucido alla bisogna.

Si spiegano così fatti apparentemente bizzarri come la forte nostalgia sperimentata in Cina per i tempi della Rivoluzione culturale (1966-1976) quando professionisti e studenti furono costretti ad abbandonare le loro occupazioni per svolgere umilianti lavori manuali in comunità rurali; quando tutti erano obbligati a vestirsi allo stesso modo e a evitare ogni forma di individualismo; quando moltissime persone patirono la fame e morirono di stenti. Così come potrebbe parere strano provare nostalgia per gli anni della DDR, la Repubblica democratica tedesca (1945-1989), uno dei periodi più grigi della storia della Germania. Eppure oggi hanno mercato cioccolatini, detersivi e birra che richiamano quegli anni ed è stato coniato il termine Östalgie (dal tedesco Öst), per definire la nostalgia per la Germania Est  (Stracciari, Fioritti, 2023, pp. 97-98). Pensiamo infine al fascismo che, in Italia, trova ancora stimatori che pure non hanno mai vissuto quel periodo, né studiato ciò che avvenne nel Ventennio, ma che sono abbagliati dalla figura irreale e sublimata di un Mussolini che “fece grande l’Italia”.

In una società fondata sul consumo come quella in cui viviamo è inevitabile che certi ritorni al passato siano mercificati a favore di una prospera industria del vintage. Anzi, la nostra può essere definita l’epoca del vintage perché la costruzione idealizzata del passato «porta all’incasso oggetti e mode passate riproposti e adattati all’epoca contemporanea per soddisfare gli appetiti nostalgici dei consumatori. Ed è questo che ha spinto numerosissime aziende di svariati settori ad adottare quello che viene definito vintage marketing o retromarketing per le loro campagne pubblicitarie, ma anche per rilanciare prodotti, mode, costumi e così via» (Stracciari, Fioritti, 2023, p. 133).

Ecco quindi che molte pubblicità di prodotti, in particolare quelli alimentari, sfruttano l’attrazione che il passato ha su di noi ricordando luoghi, situazioni, ambientazioni dove la vita era – forse solo apparentemente – più semplice e meno logorante. Figure vintage, come le nonne e i nonni, imperano nei canali pubblicitari dedicati al cibo, fin dagli anni ’60: il gelato Coppa del nonno, i biscotti con la ricetta della nonnina. Le cose di una volta sono vendute come più genuine, più sane. Espressioni come «Buono come quello di una volta» sono al centro di molti spot pubblicitari di prodotti alimentari. Le immagini di «una volta» celebrano il mondo del passato come fosse più armonioso, semplice, genuino, dove è evidente il richiamo a un legame con la natura quasi bucolico, con spot pubblicitari e jingle diventati leggenda, dove imperversano mulini bianchi e armoniose fattorie (Stracciari, Fioritti, 2023, pp. 131-132).

L’incertezza della crisi può riguardare non solo la società, ma anche l’individuo. Alcune fasi della vita ci espongono più di altre alla reminiscenza consolatoria del passato. La transizione dall’adolescenza alla giovinezza, l’ingresso nella maturità, l’affacciarsi dell’invecchiamento, periodi della nostra esistenza in cui dobbiamo affrontare importanti adattamenti identitari, sono particolarmente forieri di nostalgie di vari tipi (Stracciari, Fioritti, 2023, p. 33).

Un esempio cristallino di questo fenomeno ci viene da alcune parole scritte da Milan Kundera nel suo L’insostenibile leggerezza dell’essere:

Mi commuovo sfogliando un libro su Hitler. Guardando le immagini della Germania degli anni Trenta mi si bagnano gli occhi di lacrime. Ho vissuto il nazismo, ho affrontato le atrocità della guerra, molti dei miei familiari sono stati deportati nei campi di concentramento. Eppure, anni dopo, piango guardando le foto in bianco e nero che raccontano l’ascesa del Führer.

Come giustificare questa assurda riconciliazione con Hitler, che sostituisce alla rabbia e al disprezzo un’autentica commozione? La risposta è semplice: mi ricordano la mia infanzia. In quelle foto d’epoca non ci sono documenti della Storia dei totalitarismi del Novecento, ci sono ricordi personali degli anni fulgenti della mia giovinezza perduta, un periodo della mia vita che non tornerà mai più (cit. in Ercoli, 2022, p. 39).

Nella vecchiaia, in particolare, il luogo comune dei “bei tempi andati” attecchisce per una serie di ragioni che la psicologia ha ben indagato.

L’avanzare dell’età induce un atteggiamento conservativo, un maggiore attaccamento alle abitudini, una resistenza al cambiamento, la propensione ad aggrapparsi al passato. Negli ultimi anni della vita, si rimpiange quello che si era un tempo, si ha nostalgia del modo disincantato, non corrotto dall’esperienza, con cui il mondo veniva visto. Si rimpiange la giovinezza propria e la giovinezza del mondo. La stessa giovinezza viene idealizzata e il passato dipinto come migliore di quanto non fosse.

Una conseguenza psicologica è che si estende la propria percezione a regola generale. Il vecchio che dice: “Oggi non si capisce più niente” dice, in realtà: “Io non capisco più niente”. L’anziano che ripete in continuazione: “Che tempi viviamo!” intende, in realtà: “Che tempi vivo!”. La psicologia diviene sociologia; il proprio disagio è promosso a disagio collettivo; i propri problemi si traducono in problemi dell’umanità. Il mondo senza valori di cui si lamenta il vecchio è, in realtà, un mondo che ha cambiato i propri valori.

Questi processi sono facilitati dall’azione di alcuni meccanismi psicosociali su cui conviene soffermarsi.

È stato dimostrato, ad esempio, che i ricordi negativi con il tempo vengono cancellati o molto attenuati, lasciando spazio a quelli positivi. Pertanto, più invecchiamo e più abbiamo la tendenza a vedere il passato come qualcosa di positivo, cosa che fa dire a chi è anziano: “Si stava meglio prima…”.

Questo fenomeno è soprannominato “ricordo roseo”, traduzione dell’inglese rosy retrospection, e agisce soprattutto nel caso di eventi moderatamente piacevoli. In una serie di esperimenti, gli psicologi Mitchell e Thompson (1994; 1997) esaminarono le aspettative delle persone, le esperienze reali e il successivo ricordo di eventi significativi della vita: un viaggio in Europa, una vacanza per il Giorno del Ringraziamento e un viaggio in bicicletta di tre settimane in California. I risultati degli studi supportarono l’ipotesi che le aspettative delle persone riguardo agli eventi personali sono più positive della loro esperienza reale durante l’evento stesso. Ma ciò è vero anche per il loro successivo ricordo. In altre parole, le persone tendono a ricordare gli eventi di cui hanno fatto esperienza più favorevolmente e positivamente di quanto ritenessero nel momento in cui accadevano.

Un altro meccanismo psicologico correlato al luogo comune dei “bei tempi andati” è il cosiddetto “effetto alone”, termine con il quale si indica il fenomeno per cui un’impressione generale positiva o una singola caratteristica di un individuo, fatto o evento domina la percezione che gli altri hanno di questi, anche per tratti diversi. Per il vecchio, ad esempio, quasi tutto ciò che appartiene al passato è di per sé valido perché associato alla gioventù, come se un gigantesco alone positivo lo avvolgesse. Al contrario, la contemporaneità è percepita in maniera infausta e perfino i suoi aspetti più positivi sono screditati a favore di quelli del mondo di ieri.

Alcuni studi hanno tentato di indagare le ragioni per cui molti di noi sono convinti del fatto che la moralità del nostro tempo sia in declino rispetto a quella dei tempi passati.

Ad esempio, in un lavoro di metanalisi pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, Mastroianni e Gilbert (2023) partono dalla domanda: perché tante persone in epoche e luoghi diversissimi hanno creduto che la moralità del proprio tempo fosse in declino rispetto ai tempi passati? Secondo gli autori, la percezione del declino morale è un’illusione psicologica a cui soggiacciono gli individui per vari motivi. A dimostrazione di ciò, attingendo a una serie di dati provenienti da studi effettuati tra il 1949 e il 2019 in cui veniva chiesto agli intervistati se ritenessero che negli ultimi anni le persone fossero divenute meno oneste e morali, Mastroianni e Gilbert hanno mostrato che oltre l’80% degli intervistati, provenienti da almeno 60 nazioni diverse, hanno dichiarato di credere che la moralità sia in declino e hanno attribuito tale declino sia al calo della moralità degli individui con il passare degli anni sia al declino della moralità delle successive generazioni. Il dato interessante è che, in settanta anni di studi del genere, la maggior parte degli intervistati ha persistentemente dichiarato di credere in un declino della moralità collettiva. Se a questa convinzione corrispondesse una verità fattuale, dovremmo vivere in un mondo cinico e immorale da tempo, circostanza che suggerisce che la percezione del declino morale sia solo un’illusione. Inoltre, se si domanda agli intervistati quando ha avuto inizio il processo di degrado morale, molti lo collocano intorno al loro anno di nascita. Come si spiegano questi risultati così coerenti nel tempo e nello spazio?

Per gli autori, l’illusione del declino morale può essere spiegato da due noti fenomeni psicologici. In primo luogo, numerosi studi hanno evidenziato che gli esseri umani tendono a cercare e prestare attenzione alle informazioni negative che riguardano gli altri e i mass media assecondano questa tendenza dando sproporzionato risalto agli individui che non si comportano bene. Di conseguenza, si è esposti più a informazioni di segno negativo che a informazioni di segno positivo sulla moralità delle persone; esposizione che favorisce la percezione di una moralità in calo.

In secondo luogo, numerosi studi hanno evidenziato che, quando le persone richiamano alla mente eventi passati positivi e negativi, tendono a dimenticare o ad accantonare gli eventi negativi o ad averne un ricordo distorto, se non addirittura positivo. I ricordi di eventi negativi tendono, infine, a perdere il loro impatto emotivo. Di conseguenza, le persone tendono a credere che il passato sia un’epoca più morale di quanto non sia il presente. Insieme, i due fenomeni favoriscono l’illusione del declino morale: il primo meccanismo (definito in inglese, biased exposure effect) contribuisce a far percepire il presente come una sorta di terra desolata da un punto di vista morale, il secondo (definito in inglese biased memory effect) contribuisce a far percepire il passato come un paese delle meraviglie morali e quando chi vive in una terra desolata ricorda di aver vissuto nel paese delle meraviglie, tenderà naturalmente a concludere che il paesaggio è cambiato.

Una fallacia della memoria che opera a vantaggio del luogo comune secondo cui “Si stava meglio quando si stava peggio” è il cosiddetto fading affect bias o “bias dell’emozione che svanisce”. Nel 2003, Walker, Skowronski e Thompson, passando in rassegna dati provenienti da varie ricerche, notarono che le emozioni associate ai ricordi di eventi negativi svaniscono più rapidamente delle emozioni associate ai ricordi di eventi positivi. La conseguenza di ciò è che gli avvenimenti del passato appaiono più felici di quanto non siano stati in realtà. In questo modo, le persone ingannano se stesse e costruiscono un’identità più rosea di quella reale.            

Infine, mi piace richiamare un bias, che potremmo chiamare “bias del vicino di casa”, che ci permette di capire perché possediamo ricordi più ottimistici di persone conosciute durante l’infanzia.

Afferma Emily Cockayne nel libro Cheek by Jowl. A History of Neighbours:

I ricordi infantili dei vicini sono diversi da quelli degli adulti. I bambini abitualmente non notano chi disturba e fanno facilmente amicizia. È probabilmente per questo motivo che molte persone credono che i vicini fossero più amabili un tempo, quando erano giovani. Forse non ne hanno mai saputo il mestiere, ma ne ricordano la generosità o l’avarizia (Cockayne, 2013, pp. 60-61).

Ognuno di noi può confermare la pervasività di questo bias. Quando siamo piccoli, il vicino di casa è la figura che ci accarezza, ci sorride, gioca con noi, ci racconta storie divertenti o ci incoraggia a giocare con il figli. Di lui o lei conosciamo poche caratteristiche di personalità. Non sappiamo né ci interessa nulla del lavoro che fa, di come sbarca il lunario, se va d’accordo con il (o la) partner, se ha dei debiti nei confronti dello stato o se ha problemi con la giustizia. Queste sono cose “per i grandi”. Di conseguenza, è facile, una volta adulti, cullarsi nell’illusione che, quando eravamo bambini, i vicini di casa fossero migliori di oggi; illusione che si spande ad avvolgere tutti gli aspetti del mondo che, naturalmente, “va sempre peggio di un tempo”.

Si tratta dell’ennesima “distorsione mentale” che contribuisce ad alimentare il pessimismo nei confronti delle sorti dell’umanità tipico della maturità e, ancor di più, della terza età.

Come abbiamo notato, i vecchi confondono spesso la propria percezione del passare del tempo e delle fasi della vita con quella dell’andamento del mondo, per cui il ricordo dell’energia, dell’ottimismo e del piacere dei vent’anni diventa ricordo di una sorta di età dell’oro che contrasta violentemente con un presente fatto di energie ridotte, disillusioni, aspettative funeste nei confronti della vita, che diventano facilmente pensiero pessimista e catastrofista sul futuro del mondo.

Forse bisognerebbe semplicemente concludere con Qoelet 7, 10: «Non dire: “Come mai i giorni di prima erano migliori di questi?”, poiché non è da saggio domandarsi questo».

È vero. Non è saggio. Ma continuiamo a farlo imperterriti.

Riferimenti

Cockayne, E., 2013, Cheek by Jowl. A History of Neighbours, Vintage, London.

Ercoli, L., 2022, Yesterday. Filosofia della nostalgia, Ponte alle Grazie, Milano

Mastroianni, A. M., Gilbert, D. T., 2023, “The Illusion of Moral Decline”, Nature, vol. 618, pp. 782-789.

Mitchell, T. R., Thompson, L., 1994, “A Theory of Temporal Adjustments of the Evaluation of Events: Rosy Prospection and Rosy Retrospection-”, Advances in Managerial Cognition and Organizational Information Processing, vol. 5, pp. 85-114.

Mitchell, T. R., Thompson, L., Peterson, E., Cronk, R, 1997, “Temporal Adjustments in the Evaluation of Events: The “Rosy View””, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 33, n. 4, pp. 421-448.

Pinker, S., 2013, Il declino della violenza, Mondadori, Milano.

Polidoro, M., 2019, Il mondo sotto sopra, Piemme, Milano

Serres, M., 2018, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, Torino.

Stracciari, A., Fioritti, A., 2023, Nostalgia. Una risorsa per il benessere, Il Mulino, Bologna.

Walker, W. R.; Skowronski, J. J.; Thompson, C. P., 2003, “Life is Pleasant – And Memory Helps to Keep It That Way”, Review of General Psychology, vol. 7, n. 2, pp. 203-210.

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