Quando la lingua è di ostacolo

A metà strada tra il mio interesse per il turpiloquio funzionale, vale a dire con effetti positivi per la società, e gli errori di traduzione che hanno cambiato il mondo, racconto il seguente episodio che ho sentito più volte narrare tra gli immigrati italiani e che ha come fonte alcuni miei parenti emigrati all’estero.

Questa storia è diffusa tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti, con minime variazioni. La fonte è di solito l’amico dell’amico dell’amico ed è difficilmente identificabile in modo preciso. Inoltre, il suo luogo di elezione è la città, sia essa americana, inglese o di un’altra zona di immigrazione. Insomma, la storia sembra avere tutte le connotazioni della leggenda metropolitana, compresa la finalità scopertamente o celatamente moralistica, sulla quale torneremo.

Eccola in breve: un immigrato italiano (o immigrata) del sud, appena arrivato in America (o Inghilterra) entra in un negozio di alimentari. Non conosce affatto l’inglese e quindi non riesce a farsi capire. A un certo punto, chiede del formaggio. “Fromaggio?” ripete il negoziante. “I don’t understand!”. “Formaggio, formaggio” chiede ancora l’italiano. Il dialogo continua su questa falsa riga per alcuni secondi, dopo di che, amareggiato dalle continue frustrazioni comunicative, l’immigrato sbotta in dialetto: “Puozz’ essere acciso” (“Che tu possa essere ucciso”) al che il negoziante risponde: “What? Oh, cheese, cheese” (Il termine inglese “cheese” – formaggio – ha più o meno lo stesso suono di “acciso“). E il cliente riesce finalmente ad avere l’agognato formaggio.

Questa storia ha un evidente significato morale: costituisce ovviamente un avvertimento all’immigrato relativo alle avversità della sua nuova condizione e, in particolare, alle difficoltà che nascono dal non conoscere la lingua del paese di arrivo. Non è un caso che quello della lingua sia uno dei primi e più immediati problemi che si trovano di fronte gli immigrati appena arrivati nella nuova nazione. Ma è interessante anche per altri due motivi.

Innanzitutto, testimonia di come, seppure in questo caso involontariamente, l’imprecazione, solitamente bollata come indicatore di cattiva educazione e scarsa istruzione, possa avere anche una funzione positiva: qui mi riferisco alla capacità di risolvere il dilemma linguistico in cui si è impegolato l’immigrato. In secondo luogo, dimostra come un errore linguistico possa avere delle conseguenze pratiche (in questa circostanza, positive) sulla vita di un individuo, al di là delle sue intenzioni e conoscenze.

Mi sono state riferite altre storie del genere: trasmesse oralmente, dall’amico di un amico, in tempi ormai lontani, provenienti dagli angoli di mezzo mondo, lì dove l’immigrazione ha rappresentato il fenomeno e il cemento sociale di tante nazioni, compresa l’Italia.

Mi piacerebbe conoscerne altre: storie di equivoci linguistici, culturali, sociali che, al di là di tutto, ci parlano dei problemi quotidiani di donne e uomini come noi, solo costretti a cercare fortuna altrove senza aver mai potuto frequentare un corso di lingua. Anzi spesso senza nemmeno conoscere bene la propria lingua.

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