Quando le donne non potevano fare i giudici

Oggi che i diritti delle donne sono continuamente sostenuti, difesi, tutelati dalla legge, sembra strano che, in un passato non tanto lontano, gli stessi uomini di legge pronunciassero disinvoltamente dichiarazioni finalizzate a negare il diritto delle donne a realizzarsi nella vita pubblica e ad assumere ruoli di responsabilità, come quelli di avvocato, giudice, magistrato, sulla scorta di motivazioni che oggi appaiono ridicole, pretestuose, assurde, ma che, appena qualche decennio fa, erano ritenute solide, condivisibili, legittime.

Un esempio fra tutti, tratto dal bel libro di Romano Canosa, Il giudice e la donna, ci arriva dal 7 novembre 1947, data in cui l’onorevole democristiano e giurista Giuseppe Maria Bettiol dichiarava:

C’è un altro problema da tenere presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia.

San Paolo diceva: “Tacciano le donne nella Chiesa”. Se San Paolo fosse vivo direbbe: “Facciano silenzio le donne anche  nei tribunali”, cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema della donna nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale (Canosa, R., 1978, Il giudice e la donna. Cento anni di sentenze sulla condizione femminile in Italia, Mazzotta, Milano, pp. 37-38).

Nessuno oggi oserebbe vietare alle donne di giudicare nei tribunali sulla scorta di frasi bibliche e considerazioni sull’eterno femminino o chiamando in causa la presunta irrazionalità ed emotività del sesso femminile. Ma sono ottimista. In realtà, queste stesse argomentazioni compaiono ancora di tanto in tanti nel ragionamento quotidiano, seppure in casi minoritari.

Un tempo, questi “pensieri” sulle donne erano luoghi comuni e, in quanto tali, mai messi seriamente in discussione. Anzi, chi avesse avuto da ridire, sarebbe parso “strano”, fuori di senno, bizzarro. È per questo che un onorevole della Repubblica poteva dichiararli pubblicamente, sapendo di trovare consenso nei suoi ascoltatori.

Non dimentichiamo mai che quello che oggi “sappiamo” delle donne è frutto di acquisizioni recenti, emerse a dispetto di sedimentazioni secolari basate su misoginia e inferiorità inculcate. Per questo non dobbiamo mai darlo per scontato perché i saperi antifemministi tradizionali possono sempre ritornare. Magari legittimati proprio dalla loro antichità.

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