(Ancora su) Morire “per” e “con” il Covid

In un post precedente, ho osservato come le discussioni sulla letalità del Covid-19 – morire “per” vs. morire “con” il Covid – siano avvelenate dalla “fallacia della causa unica”, ossia dalla tendenza a ritenere che un evento debba essere causato da un’unica causa, quando invece agiscono varie concause. Ho aggiunto anche che questa fallacia si spiega con il fatto che, per la mente umana, è più semplice attribuire un determinato effetto a un’unica causa e disconoscere o non considerare gli effetti interattivi tra fattori diversi.

Sulla vexata quaestio di cosa causi la morte delle persone – se il virus o le altre patologie con cui il virus coesiste – è intervenuto recentemente lo psicologo Paolo Legrenzi in un libro intitolato Paura, panico, contagio. Vademecum per affrontare i pericoli (Giunti, Firenze, 2020, pp. 70-71). Ecco le sue parole:

Prendiamo per esempio il caso di un decesso dovuto a un’influenza in un organismo già indebolito da un’altra malattia. In questo caso possiamo affermare che la morte di quella persona è causata dal virus? No. Possiamo dire che la persona è deceduta “con” il virus e non “per” il virus. Sicuramente il virus ha aumentato le difficoltà dell’organismo ad affrontare la malattia e magari ha creato ulteriori problemi, che, sommati a quelli già presenti, hanno condotto alla morte. Se poi guardiamo il numero di decessi rispetto ai contagiati e le caratteristiche delle persone decedute, possiamo notare che non sono distribuite casualmente, ma che sono le persone più vulnerabili, per età avanzata e/o per condizioni di salute precarie, a essere più spesso vittime del contagio. Per questo è essenziale riuscire a distinguere le cause dalle concause, perché altrimenti attribuiamo a una causa unica, in questo esempio il virus, quello che è dovuto all’effetto di concause.

L’essere umano ha la tendenza a ridurre in schemi semplici la complessità del mondo, iniziamo a farlo fin da piccoli, per imparare a dare un senso alle cose che ci circondano, a ordinarle in categorie; usiamo questo meccanismo per “risparmiare energie” per esempio nelle valutazioni degli eventi, quando prendiamo una decisione o facciamo una scelta. È più semplice e più rapido. Ma ci può portare a sbagliare. Se riduciamo tutto a una sola causa come unica fonte di un pericolo che ha molte cause, abbiamo una visione schematica e semplicistica del fenomeno che può generare il panico, Perché questo si diffonde sulla base di credenze semplici, per quanto infondate. Quindi, in questo modo, avremo un contagio collettivo.

È a tutti noto che la discussione sulla responsabilità – unica o correa – del Covid-19 nel causare la morte sia intrapresa da opinionisti, “esperti”, medici e virologi, quasi sempre a partire dalla visione schematica e semplicistica del fenomeno di cui parla Legrenzi. Tale schematicità può essere adoperata sia a sostegno di una causa – è il virus che uccide – che di quella opposta – si muore per le altre patologie. Appare difficile ai più abbracciare tesi complesse, improntate all’interazione tra fattori. Anzi, dato che l’attenzione della collettività è incentrata sugli effetti del virus, la sua responsabilità come causa di decessi tende a essere pervicacemente sopravvalutata a scapito di ogni altro cofattore.

Una lezione che potremmo trarre da questa pandemia riguarda la necessità di una educazione alla complessità, a vedere il mondo in maniera non semplicistica e schematica, a giudicare la bontà delle tesi non in base alla loro semplicità monocausale, ma al numero di variabili pertinenti che chiamano in causa.

Certo, per la mente umana è più facile operare monocausalmente. La complessità richiede sforzo e disciplina; qualità che non sono coltivate né incoraggiate da opinionisti, “esperti” e medici “televisivi” (compressi come sono dai loro angusti ruoli mediatici).

Per questo bisogna rivolgersi alla scienza, che non tollera semplificazioni e che, perciò, risulta “antipatica”. Ma se avessimo bisogno di questa “antipatia” come abbiamo bisogno dei vaccini?

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