Profezia che si autoavvera a Samarcanda

Può la celebre storia della morte a Samarcanda (o Teheran o Samarra o Isfahan, secondo le versioni) essere annoverata tra gli esempi letterari di profezia che si autoavvera, il  meccanismo, ricordiamolo, attraverso cui, secondo la celebre definizione di Watzlawick, “una supposizione o profezia per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”? A mio parere sì, ma procediamo per gradi.

La storia ha diverse versioni e le sue origini si perdono nella notte dei tempi, risalendo probabilmente al Talmud (qui e qui per una interessante ricostruzione letteraria).

Consideriamo la seguente variante che prelevo, per comodità, dalla trattazione che Lucius Etruscus e Danilo Arona ne hanno fatto sul sito di Carmilla nel 2013 nell’articolo intitolato La parabola della morte inevitabile:

C’era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto, pallido e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, fui urtato da una donna nella folla, e quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso. Te ne supplico, prestami il tuo cavallo e io abbandonerò questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la Morte non potrà trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e, spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il mercante si recò alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “Perché hai fatto un gesto minaccioso al mio servo, stamane?” mi chiese, avvicinandosi. “Il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “Fui stupita di vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a Samarra”.

La storia ha indubbiamente un suo fascino, dovuto a una certa ineluttabilità che accompagna l’idea di morte e alla nozione sottesa che il nostro destino sia già scritto a dispetto di ogni nostro possibile sforzo in senso contrario. Immagino che il testo eserciti una certa attrazione soprattutto su chi è incline al fatalismo. Questi, infatti, può trovare in esso una conferma delle proprie propensioni. Dal momento che in ognuno di noi si nasconde un fatalista, per quanto ci ostiniamo a negarlo, credo che tutti possano trarre un motivo di piacere dalla lettura del racconto. Del resto, il fatalismo è tentatore perché asseconda la convinzione “egosintonica” che quello che ci accade nella vita è indipendente dalla nostra volontà. Perché sforzarsi, dunque, se qualcuno ha già tessuto la trama della nostra esistenza? Perché studiare per quel concorso, darsi da fare per quella ragazza, andare alla ricerca di quel lavoro? Se il destino vuole…

Ma sto divagando.

Danilo Arona, nell’articolo citato, accenna ad alcune possibili interpretazioni della storia della morte a Samarcanda, che rimandano all’effetto nocebo e al concetto di “epiontica”. Leggete l’articolo per saperne di più perché ne vale la pena.

In questa sede, avanzo una ulteriore interpretazione. La storia della morte a Samarcanda può essere letta come una profezia che si autoavvera, seppure di un tipo particolare.

Qual è la profezia? La profezia che incombe, anche se inespressa, su ognuno di noi sin dal giorno della nascita, è: “Tutti dobbiamo morire”. È una verità che conosciamo bene, ma che ci sforziamo di negare a ogni costo. Si potrebbe quasi dire che ogni cosa che facciamo sin da quando nasciamo sia tentare di dimenticare o contrastare questa verità. Secondo una teoria, addirittura, ogni alta realizzazione umana – la letteratura, l’arte, la politica, la medicina ecc. – non è altro che un tentativo maldestro di annientare l’incombere della morte.

Allo stesso modo, il protagonista della storia, da bravo “essere umano”, posto dinanzi alla minaccia concreta di morire, si sforza di negarne la realtà, fuggendo lì dove pensa che la morte non ci sia (ma potrebbe compiere ogni sorta tipo di azione “salvifica”, almeno nelle intenzioni). Tale fuga si dimostra del tutto inutile, anzi contribuisce a fare avverare la profezia iniziale. Alla fine, il morituro, con il suo comportamento, cade proprio fra le braccia della “nera signora”. Il suo destino si compie ineluttabilmente.

Un po’ come la storia di Edipo, anche in questo caso la profezia si avvera all’esito di un comportamento teso a evitarne la realizzazione. Ma più ci si sforza in tal senso, più la profezia si compie. Ancora una volta, il fragile essere umano non può nulla contro la potenza superiore della morte.

Il sentimento di non essere che una palla con la quale il fato gioca e il principio di non decidere il proprio destino spiegano perché siamo spesso solo preoccupati di sfuggire a qualcosa e temiamo ogni decisione.

In fondo, sembra insegnarci la storia della morte a Samarcanda, siamo tutti profeti del nostro destino, anche se non ne siamo consapevoli. Anzi, sono proprio i tentativi di deviare dal corso tracciato da altri per noi a farlo avverare.

Sulla profezia che si autoavvera rimando, come sempre, al mio Oracoli quotidiani. Cos’è e come funziona la profezia che si autoavvera.

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