Nel Libro VII dell’Eneide

Nel Libro VII dell’Eneide si legge: «Sola una figlia continuava la casa e così insigni dominii, ormai in anni da marito, ormai compiuta l’età per le nozze» (versi 52-53).

Qual era l’età da marito di una ragazza dell’antica Roma? 20 anni? 25? 30? Niente di tutto questo. L’età adatta per il matrimonio coincideva per i romani con la pubertà. Una ragazza era considerata in età da marito a partire dai 12 anni compiuti o poco più. Sì, avete letto bene 12 (dodici) anni. Per i nostri standard, gli antichi romani sarebbero tutti pedofili. Ovviamente, definirli tali sarebbe da parte nostra un errore di anacronismo, oltre che di etnocentrismo. Non vorrei, però, soffermarmi su questo. La nostra considerazione delle culture classiche si basa su un attento lavoro di selezione e occultamento. Delle culture greca e romana antiche, ad esempio, selezioniamo di solito, fin dal Ginnasio, solo i frutti più “alti”, le teorie filosofiche più elevate, le imprese storiche più ardite. Dimentichiamo, occultiamo tutto quanto potrebbe farci ribrezzo – la schiavitù (quanti sanno che per un filosofo come Aristotele la schiavitù era un fenomeno “naturale”?), la condizione subalterna della donna (anche questa data per scontata), la diversa concezione della sessualità (che implicava, appunto, la disponibilità sessuale e matrimoniale di una dodicenne) – a vantaggio di ciò che celebriamo come degno, nobile e meritorio. Fin dall’adolescenza, dunque, subiamo versioni mutile, incantate delle culture antiche che poi confrontiamo con la cultura contemporanea in cui viviamo, di solito per denigrare la modernità ad esaltazione dell’antichità.

Non dovremmo mai dimenticare che le nostre conoscenze storiche sono spesso selettive, parziali, funzionali a come e cosa desideriamo vedere (de)gli altri. L’errore più grande è quello di pensare che tutti i greci antichi fossero come Aristotele e Platone e tutti i romani antichi come Cicerone e Marco Aurelio. Troppo facile così (auto)biasimarci e consumare complessi di inferiorità. Invece di giudicarci “peggiori di tutti”, riequilibriamo i termini di confronto e riscopriamo in noi e gli altri (pur se antichi) la stessa umanità e le stesse doti intellettuali e morali.

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