La sociologia dei terremoti di Rousseau

Inquadrare sociologicamente Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che pure è di sentimenti schiettamente democratici, non è affatto facile. Le condizioni sociali della sua epoca sono così complesse, che non sempre i principii e le intenzioni del filosofo sono elementi sufficienti per formulare un giudizio sulla sua visione del mondo.

Tuttavia, tra i suoi numerosi scritti non è raro trovare analisi brillantemente sociologiche su eventi e fenomeni che si tenderebbe a giudicare “naturali”. Un esempio è dato dalle seguenti osservazioni da lui maturate all’epoca del celebre terremoto di Lisbona (1755) che causò la morte di circa 30.000 persone e distrusse metà della città.

Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che la vivente persona di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?

Avreste voluto – e chi non l’avrebbe voluto! – che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano terremoti anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno a lorsignori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che popolano, sparpagliati sul territorio, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città? (Jean-Jacques Rousseau, “Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona”, 18 agosto 1756, in Tagliapietra, A., 2022, Filosofie della catastrofe, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 113-114).

Ancora oggi, tendiamo a pensare che i terremoti siano eventi fondamentalmente naturali e, sebbene siamo disposti a riconoscere che possano essere accelerati da comportamenti poco in sintonia con la “natura”, qualsiasi cosa ciò significhi, non riflettiamo spesso sul fatto che le conseguenze di un terremoto possono essere più o meno devastanti secondo il grado di urbanizzazione del luogo colpito, ossia secondo il grado di antropizzazione che l’uomo ha imposto al luogo stesso. Case, grattacieli, edifici ecc. non sono “naturali”, ma sono costruzioni umane e sociali che mutano il nostro ambiente di vita. Eppure, tendiamo a pensare che siano naturali perché abbiamo sempre vissuto in questo ambiente e ci risulta difficile non viverlo come una “seconda natura”.

Evidentemente, anche al tempo di Rousseau queste osservazioni non erano affatto scontate, tanto che i contemporanei le avvertivano come sorprendenti. Ma, del resto, chiunque studi sociologia sa che questa disciplina è in grado di cambiare letteralmente il nostro modo di vedere il mondo e, già solo per questo, dovrebbe essere una materia obbligatoria in qualsiasi indirizzo scolastico superiore.

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