La sindrome “americana” di Stoccolma

Il 23 agosto 1973, nel corso di una rapina alla Norrmalmstorg Kreditbanken di Stoccolma, tre donne e un uomo impiegati presso l’istituto furono presi in ostaggio dal trentaduenne Jan-Erik Olsson, un detenuto in permesso, in possesso di una mitragliatrice, esplosivi, corda e una radio a transistor. Il rapinatore chiese alla polizia di essere raggiunto da un suo compagno di prigione Clark Olofsson e i due rimasero nel caveau della banca in compagnia degli ostaggi per sei giorni. La loro richiesta: 710.000 euro e una automobile per fuggire. Il sesto giorno, il 28 agosto, dopo vari tentativi di negoziazione, la polizia fece irruzione nell’edificio diffondendo gas lacrimogeno, arrestò i due rapinatori e trasse in salvo i quattro impiegati, a cui non era stato torto un capello. Dopo la conclusione della vicenda, gli ex ostaggi rivelarono di stare bene, di non aver mai temuto per la propria incolumità ed espressero addirittura sentimenti benevoli nei confronti dei rapinatori.

La  rapina alla Norrmalmstorg Kreditbanken di Stoccolma è passata alla storia per le conseguenze criminologiche che da essa derivarono. Proprio lo strano comportamento degli ostaggi, indusse infatti lo psichiatra Nils Bejerot a coniare l’espressione “Sindrome di Stoccolma”, che, da allora, è passata a significare un particolare legame affettivo che si instaura tra sequestratore e sequestrato e che spesso ha per quest’ultimo il significato di un meccanismo di difesa.

La rapina del 1973 presenta però altri elementi di interesse. Innanzitutto, essa esibì una “dose” di violenza a cui la Svezia non era abituata. Alla fine degli anni Cinquanta, le rapine in banca rientravano in una tipologia criminale quasi del tutto inedita per il paese. Nel 1973, la situazione era mutata, ma le rapine non rappresentavano affatto una caratteristica diffusa dello scenario urbano svedese dell’epoca. In altre parole, non esisteva un copione nazionale del rapinatore svedese, un modello criminale a cui ispirarsi. È forse per questo che, quando Olsson fece irruzione nell’edificio, si conformò a quello che, in quel tempo, doveva apparire il tipo criminale per eccellenza: il fuorilegge americano. Esordì infatti, sventagliando diversi colpi della sua arma verso il soffitto, parlando con un finto accento americano e pronunciando i suoi ordini in inglese. Sembra che le sue prime parole siano state: “The party has just begun!” (“La festa è appena iniziata!”), una frase estratta direttamente da un film proiettato negli Stati Uniti. Inoltre, si camuffò indossando un paio di occhiali prelevati da un negozio di giocattoli, una voluminosa parrucca marrone e dei baffi vistosi. Infine, quando sopraggiunse un poliziotto in borghese, Olsson lo minacciò invitandolo a cantare una canzone (sembra sia stata Lonesome Cowboy di Elvis Presley),  in puro stile americano. Con il passare dei giorni, la “posa americana” scomparve gradualmente e Olsson prese a parlare in svedese con i suoi ostaggi, ma la sua vicenda ci dice qualcosa di profondamente interessante.

Contrariamente a quanto siamo inclini a pensare, la violenza, per esprimersi, ha bisogno di essere sempre incanalata in forme culturalmente predefinite. Così, il membro di una gang americana ostenterà determinate propensioni criminali, accompagnate da forme di gestualità e di condotta culturalmente specifiche. Lo stesso accade per i camorristi nostrani, come appare evidente, ad esempio, da una serie come Gomorra in cui verbalizzazioni, comportamenti, azioni  dei camorristi sono resi in maniera idiosincratica. In un contesto caratterizzato da una radicata avversione alla violenza, come la Svezia dei primi anni Settanta, Olsson dovette “inventare” il personaggio del rapinatore di banca, attingendo a uno stereotipo ormai diffuso al di là dei confini nazionali: quello del fuorilegge americano, incarnato da personaggi leggendari come Jesse James, Billy the Kid, Sam Bass e Charles Arthur “Pretty Boy” Floyd, e divenuto ormai un folk hero nell’immaginario statunitense, anche grazie al contributo mediatico di Hollywood.

Il risultato fu, in realtà, deludente. Il criminale svedese Olsson, cresciuto in un paese in cui era profondamente radicata l’avversione verso la violenza, non aveva niente della brutalità spietata dell’outlaw americano e il fatto che fu arrestato senza aver recato alcun danno ai suoi ostaggi, traendone anzi affetto e comprensione, la dice lunga sulla difficoltà di superare ex abrupto copioni di vita interiorizzati dalla nascita e di adattare modelli culturali da un contesto all’altro. Gli svedesi, inoltre, non trovarono niente di eroico nelle sue gesta: ne furono anzi indignati e traumatizzati.

La vicenda dell’“americano” Olsson è la dimostrazione che la violenza non si manifesta mai in un vacuum culturale, e riflette sempre luoghi, contesti, tempi, valori, che ne plasmano contenuti e significati. Mutuare astrattamente tali luoghi, contesti, tempi e valori trasforma la violenza in farsa – come nel caso di Olsson – o in tragedia. Ma questo, forse, Jan-Erik Olsson, in quel lontano 1973, non poteva saperlo.

Per avere maggiori informazioni sulla Sindrome di Stoccolma, rimando al mio Delitti

Per la fonte di questo articolo, rimando a questa pagina.

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