Guerra e superstizione

La guerra non è solo violenza, propaganda e fake news. È anche superstizione.

Non a caso, insieme a sportivi professionisti, scommettitori e studenti, i soldati compaiono tra gli individui più superstiziosi in generale.

Una testimonianza in tal senso ci viene dal bel libro di Franco Cardini, Quella antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese (Mondadori, Milano, 1995, pp. 408-410).

La superstizione dei  soldati e, soprattutto, dei marinai, era proverbiale; essa cominciava dagli alti gradi e si collegava a pratiche astrologiche e divinatorie comuni un po’ a tutte le sfere dell’attività umana. Del resto, l’astrologia aveva  un suo ruolo preciso nella guerra: nel Medioevo e nel Rinascimento era pratica comune attendere che l’astrologo facesse «il punto» prima di attaccar battaglia o di consegnare il bastone di comando al capitano generale delle milizie; allo stesso modo, del resto, si attendeva sempre il  momento astrale propizio alla partenza per un viaggio o alla fondazione d’un edificio. È rimasto famoso l’astrologo ghibellino Guido Bonatti, che spia il cielo dalla torre campanaria della chiesa forlivese di San  Mercuriale in attesa del momento buono per dare ai suoi il segnale  dell’attacco.

Ma a queste tradizioni, derivate da una cultura dotata d’un suo preciso statuto scientifico, ne corrispondevano altre che, in forma dimessa e popolare, perpetuavano il celebre ibis redìbis degli antichi con l’interrogazione del futuro mediante varie tecniche divinatorie tese a conoscere l’esito dello scontro che si approssimava e il propri destino in esso.

Naturalmente, la colorazione di queste antiche credenze era ormai cristiana; gli amuleti indossati per recarsi in guerra avevano forma di medagliette, rosari, scapolari; ci si armava di reliquie – da sempre, come nel pomo della spada di Rolando, usbergo arcano in battaglia – e d’immagini di santi. Erasmo da Rotterdam si sdegnava di queste manifestazioni di «follia», che riteneva dirette eredi dell’idolatria pagana:

“Fedeli corpo e anima al mio credo sono invece coloro che si dilettano nel sentire o nel raccontare storie mirabolanti inventate di sana pianta – di prodigi e miracoli, e non sanno saziarsi d’udire raccontare portenti di fantasmi, di spettri, di morti, di genietti, e altre vicende del genere: e quanto più queste fole si allontanano dalla verità, tanto più volentieri costoro le credono vere e tanto più piacevolmente se ne sentono titillare le orecchie. Predicatori e preti dal canto loro ne profittano mirabilmente non soltanto per scacciare la noia, ma anche per empire le proprie borse.

Un genere di follia simile è quello di chi si abbandona alla stolta ma allegra fiducia che, per aver visto per caso un’immagine o una gigantesca statua di San Cristoforo, quasi nuovo Polifemo, per quel giorno sia sicuro di non morire, o che, per aver rivolto alla statua di Santa Barbara la preghiera di rito, si creda certo di scamparla in battaglia.

Altri in certi determinati giorni, con offerte stabilite di statuine di cera con gran borbottare di preghiere impetrano la ricchezza da Sant’Erasmo. In San Giorgio hanno trovato un secondo Ercole, e così pure in lui hanno resuscitato Ippolito. Con religioso zelo ne adornano il cavallo con redini e campanelli, e manca soltanto che l’adorino, e con nuove offerte cerchino di guadagnarsene la benevolenza: un giuramento per il suo elmo di bronzo è ritenuto fede di re”.

Talora, la difesa magica non aveva neppure i connotati esterni del culto cristiano, e si rivelava per quel che era: appunto un oggetto magico. Si trattava di particolari preghiere-scongiuro da portare indosso – sul tipo della famosa «preghiera di Carlo Magno» – oppure dei cosiddetti brevia militum, vale a dire «brevi» (strisce di carta o più spesso di pergamena recanti iscrizioni o simboli a carattere magico, che si urtavano arrotolati o cuciti, appesi al collo) che avrebbero dovuto assicurare l’immunità in battaglia. L’uso, da parte di certi cavalieri, di una «camicia infernale» decorata di simboli magici da indossarsi sotto la corazza, e che avrebbe dovuto rendere invulnerabili, fu condannato nel 1306 da Filippo il Belio. Più tardi si sarebbe affermata la superstizione che le palle di cannone si potevano arrestare invocando – è un caratteristico caso dell’applicazione del principio di analogia – le pietre della lapidazione del protomartire Stefano. Nel Quattrocento, ricordava Jean Germain, si tendeva a ricercare l’invulnerabilità in battaglia con un altro sistema magico di antiche origini, l’astensione dalle carni: il digiuno o la continenza sessuale si ritrovano spesso, nelle società militari, come mezzi atti ad aumentare forza e valore. Anche al di sotto di certi voti cavallereschi – che infatti riguardavano spesso il vitto, le bevande, gli usi quotidiani e via dicendo – sembra di poter cogliere il ricordo di pratiche magiche d’invulnerabilità. Scongiuri e giaculatorie, connessi o no, in tutto o in parte, al cristianesimo, erano comuni contro le ferite, specie quelle da arma da lancio, e ricordano le Loricae celtiche che usano appunto un linguaggio esorcistico di tipo guerriero per invocare la protezione delle forze divine. Ancora durante il movimento vandeano, circolava del resto fra i partigiani realisti la leggenda che la bandiera bianca della monarchia preservasse dalla morte.

Se si faceva di tutto per sfuggire ai pericoli della guerra, s’impiegava in cambio la magia per esporvi il nemico: tali pratiche ricordano, forse nel loro principio di fondo, il quadro romano della devotio. Attorno al 1232, durante una guerra tra Firenze e Siena, in margine ai conflitto si svolse una specie di «guerra fra stregoni», regolamenti pagati per colpire con i loro sortilegi a base di malie e di polveri incantate le armate in campo. Atteggiamenti e pratiche del genere si sono del resto mantenuti anche molto oltre l’età preindustriale.

Si potrebbe raccontare una intera sociologia della superstizione. Per saperne di più rimando al mio recente Aloni, stregoni e superstizioni, dove un intero capitolo è dedicato all’analisi della psicologia e della sociologia della superstizione con la traduzione di un piccolo classico in argomento dell’americano Burrhus F. Skinner: Superstition in the Pigeon.

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