Coltescu è razzista? Forse no.

I fatti sono noti, ma proviamo a ricapitolarli.

8 dicembre 2020. A Parigi, si disputa l’incontro di calcio, valevole per la fase a gironi della Champions League, tra Paris Saint-Germain e Basaksehir, squadra turca. Al 14° del primo tempo, il quarto uomo, il rumeno Sebastian Coltescu, invita il direttore di gara e connazionale, Ovidiu Hategan, a prendere provvedimenti nei confronti del viceallenatore del Basaksehir, Pierre Webo, colpevole di comportamento poco corretto (sarà poi espulso). Nel richiamare l’attenzione del collega, Cultescu usa l’espressione ala negru, che tradotta in italiano è testualmente: “quel nero”.  «Il nero laggiù, vai a vedere chi è. Non ci si può comportare così» sembra abbia detto Coltescu.

Sentendo queste parole, Webo protesta e, con lui, altri componenti della squadra turca, tra cui l’attaccante francese Demba Ba, in quel momento in panchina, che, rivolgendosi al quarto uomo, gli chiede: «Perché hai detto negro?». Ne nasce un parapiglia con accese rimostranze da parte di altri calciatori di entrambe le squadre. Hategan cerca di spiegare che negru, in romeno, significa “nero” e non “negro”. Demba Ba ribatte: «Allora spiegami perché quando indichi un bianco lo definisci giocatore e basta e quando indichi un nero lo chiami giocatore nero».

La partita viene inizialmente sospesa, poi rimandata al giorno dopo con una nuova squadra arbitrale: terminerà con il punteggio di 5-1 a favore dei francesi. In tutta Europa, intanto, dilagano proteste veementi per il comportamento di Coltescu. Il presidente turco Erdohan invita l’UEFA «ad agire contro un evidente episodio di razzismo». Varie personalità si dichiarano indignate per l’accaduto e invocano provvedimenti forti.

Immediatamente, il quarantatreenne Coltescu, che vanta una carriera di tutto rispetto come arbitro, viene additato come razzista (“Chi è l’arbitro razzista”, scrivono alcune testate). Quotidiani e televisioni compongono servizi inquietanti su di lui, richiamando un tentato suicidio nel 2008, la scomparsa, a distanza di poco tempo l’uno dall’altra, del padre e della madre, il divorzio dalla moglie, un carattere forse troppo decisionista e una fama da duro. Sembra il ritratto di un potenziale serial killer, a cui si aggiunge, per completare l’opera, la taccia infamante di razzismo. Black lives matter si lamenta in tutto il mondo, mentre, durante il replay della partita, i giocatori di Paris Saint-Germain e Basaksehir si inginocchiano in segno di condanna di ogni forma di razzismo.

Ma si tratta di razzismo?

Iniziamo con una riflessione sul termine negru. Come spiega la scrittrice e traduttrice di origini romene Irina Turcanu, negru, in romeno, non ha una valenza negativa. Significa semplicemente “nero” e, quindi, come il negro spagnolo, non è immediatamente sovrapponibile al negro italiano o al nigger inglese, parole, invece, dalla chiara, inequivocabile connotazione offensiva.

Naturalmente, come ci insegna la pragmatica, branca della linguistica che studia gli effetti pratici del linguaggio, il significato dei termini è dato anche dal loro uso. In questo senso, ogni termine può essere utilizzato per offendere, perfino termini apparentemente neutri o innocui. È il contesto a decidere il significato ultimo delle parole.

Cerchiamo di interpretare il contesto in cui si è trovato ad agire Sebastian Coltescu. Il quarto uomo deve comunicare rapidamente al collega il comportamento scorretto di uno dei componenti della panchina del Basaksehir. Non ne ricorda (o conosce) il nome. Non ne può indicare nemmeno il numero, trattandosi dell’allenatore in seconda della squadra turca. D’altronde ha bisogno di fare in fretta, prima che il gioco prosegua. Indica, di conseguenza, quella che, al momento, gli appare la caratteristica distintiva della persona, quella che è più utile segnalare ai fini dell’efficacia della comunicazione: il colore della pelle. A quanto sembra, infatti, i panchinari del  Basaksehir sono in maggioranza di pelle bianca.

Ripetiamo, a questo punto, la domanda. Si tratta di razzismo?

A mio avviso, no (se le cose stanno così come le ho descritte. Mentre scrivo, sembra che ci sia una inchiesta in corso). Far riferimento al colore della pelle di un individuo per comunicare una informazione sullo stesso non è, di per sé, razzista. Così come non è discriminatorio, di per sé, indicare una persona come uomo o donna, italiano o tedesco, meridionale o settentrionale, cattolico o ebreo, imprenditore o operaio, alto o basso. Altro discorso se, invece, alla caratteristica informativa viene attribuita una valenza negativa. Ma a decidere questa valenza è il contesto d’uso. E il contesto potrebbe essere dato dall’ambiente in cui si svolge lo scambio comunicativo, dalla “biografia cognitiva” dei partecipanti allo scambio, dal co-testo, ossia dalle altre parole o frasi che “circondano” il termine utilizzato, dal linguaggio non verbale che accompagna l’enunciazione del termine, dalla dinamica verbale in atto ecc.

In questo caso, mi sembra di poter dire che il contesto non autorizzi una lettura razzista dell’accaduto. L’ambiente calcistico è da tempo sensibile al tema del razzismo nello sport, come dimostrano le tante campagne contro questo fenomeno. Arbitri e giocatori sono troppo impegnati nel “costruire” un evento che si chiama “partita di calcio”. I protagonisti di Paris Saint-Germain-Basaksehir non sono noti per pregressi atteggiamenti o comportamenti razzisti. L’urgenza della situazione, inoltre, imponeva una comunicazione diretta, senza allusioni, ironie o ammiccamenti di segno contrario. Del resto, difficile pensare che un arbitro, impegnato in un incontro della massima competizione calcistica europea per club, metta a repentaglio la propria carriera per un errore del genere. Infine, precedenti episodi di razzismo calcistico avevano visto coinvolto il pubblico più che i giocatori o gli arbitri.

Potrebbe trattarsi, allora, di quella che i semiologi chiamano “decodifica aberrante”, cioè di una interpretazione del contenuto della comunicazione da parte del destinatario della stessa (in questo caso, indiretto) diversa dall’intenzione del mittente del messaggio. In altre parole, il quarto uomo non intendeva esprimere una comunicazione razzista, ma Webo e Demba Ba hanno interpretato il messaggio in questo modo. L’equivoco potrebbe essersi generato, come detto, anche per l’attenzione estrema ai temi del razzismo, che può condurre, in qualche caso, all’emergenza di “falsi positivi”.

Naturalmente, un’inchiesta approfondita sull’accaduto potrebbe smentirmi. Dico, però, che prima di abbozzare e diffondere ritratti criminali di questo o quel protagonista della vicenda, dovremmo tentare di comprendere che cosa sia realmente accaduto e verificare che non si sia trattato di una enorme bolla di sapone.

Sociologicamente, questo episodio rivela come il razzismo non sia un fenomeno del passato, come ancora si sostiene sbrigativamente, ma sia estremamente attuale. E ci insegna anche un’altra cosa. E cioè che, talvolta, le reazioni sociali a un evento ci dicono di più su valori, mentalità ed ethos di una società del comportamento reale dei protagonisti di quell’evento.

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