Santoriello, la Juventus e il bias giudiziario di conferma

Si parla molto in questi giorni del caso Santoriello, uno dei pm titolari dell’inchiesta Prisma in base alla quale sono stati rinviati a giudizio 12 dirigenti della Juventus, tra cui Andrea Agnelli, con conseguenze anche in termini di diritto sportivo, concretizzatesi in 15 punti di penalizzazione inflitti alla squadra torinese nel campionato corrente.

Come è noto, è stato ripescato un vecchio video, relativo alla partecipazione del magistrato a un convegno del 2019, in cui lo stesso rivelava, senza troppi giri di parole, di essere tifosissimo del Napoli e di odiare la Juventus. Queste le sue parole: “Lo ammetto, sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero ovviamente sono antijuventino, contro i ladrocini in campo”.

Questa rivelazione, come ovvio, ha suscitato enormi polemiche. In particolare, ci si è chiesto se un magistrato che esprime una passione calcistica così accesa possa serenamente giudicare i fatti relativi a una squadra che dichiaratamente “odia”.

Alcuni commentatori hanno affermato che un bravo giudice riesce sempre a distinguere il piano emotivo e passionale da quello professionale e che, di conseguenza, non si lascerà mai condizionare nei suoi giudizi dal proprio tifo calcistico. Ma le cose stanno davvero in questi termini? Le scienze sociali ci dicono di no: pregiudizi, convinzioni, aspettative, credenze, emozioni influenzano tantissimo il giudizio, anche se i giudici non se ne rendono conto.

Tra gli anni Venti e la fine dei Trenta del XX secolo, negli Stati Uniti si affermò il cosiddetto “realismo giuridico” di cui l’esempio più significativo è il libro di Jerome Frank, Law and the Modern Mind (1930). Secondo Frank, «la sentenza del giudice non è frutto di ragionamento ma di “intuizioni” per mezzo delle quali il giudice giunge alla decisione finale, prima ancora di aver cercato di motivarla e spiegarla. Le conclusioni dei giudici sono il risultato unicamente di fattori psicologici, morali, politici ed economici. Le norme evocate nelle sentenze costituiscono solo un apparato formale» (Forza, A., Menegon, G., Rumiati, R., 2017, Il giudice emotivo, Il Mulino, Bologna, p. 123). Per esprimerci in termini caricaturali, “la giustizia è quello che il giudice ha mangiato a colazione” (Justice is what the judge ate for breakfast).

Soprattutto, la mente del giudice è condizionata da una serie di bias che ne distorcono sistematicamente il pensiero. Il principale tra essi è definito “pregiudizio giudiziario di conferma” (forensic confirmation bias) e designa «l’insieme di effetti tramite cui le credenze, le aspettative e le motivazioni preesistenti di un individuo, e il contesto situazionale, influenzano la raccolta, la percezione e l’interpretazione dei fatti nel corso di un procedimento giudiziario». Tale bias genera la formazione di una sorta di “visione tubulare” (tunnel vision) per cui il giudice giunge a una fissazione (rigid focus) su un sospettato che spinge gli investigatori a individuare e prediligere gli elementi colpevolizzanti e a trascurare o sminuire ogni elemento a discolpa esistente» (Kassin, S. M., Dror, I. E., Kukucka, J., 2013, “The forensic confirmation bias: Problems, perspectives, and proposed solutions”, Journal of Applied Research in Memory and Cognition, vol. 2, p. 45).

Il bias della conferma viene mantenuto in due modi interrelati: i) il modo in cui si ricercano le informazioni, in quanto le aspettative influenzano la quantità e il tipo di informazioni che la persona ricerca; ii) il modo in cui si elaborano le informazioni, in quanto le aspettative influenzano l’interpretazione, il ricordo e il giudizio sulle nuove informazioni.

Si crea così una situazione di cognitive hysteresis, o psychological fixation, in cui le persone non riescono a rivedere le loro valutazioni iniziali a fronte di nuove prove, in particolare di prove che divergono dalle aspettative (Catino, M., 2022, Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, pp. 136-138).

In uno studio, i partecipanti esaminarono un finto rapporto di polizia, relativo a una indagine su un crimine, che conteneva deboli prove indiziarie a carico di un possibile sospettato. Alcuni partecipanti, ma non tutti, furono invitati a formarsi e definire una ipotesi iniziale relativa al probabile colpevole. Gli stessi si diedero a rinvenire prove ulteriori e a interpretare queste prove in modo da confermare la loro ipotesi. Così, un individuo su cui esistevano deboli sospetti divenne il principale sospettato.

In un altro studio, i ricercatori chiesero ad alcuni partecipanti, ma non a tutti, di compiere un finto reato, dopo di che tutti furono interrogati da altri soggetti che, in base a una assegnazione casuale, furono indotti a ritenerli colpevoli o innocenti. Coloro che partivano da una presunzione di colpevolezza posero domande più incriminanti, condussero interrogatori più coercitivi e si sforzarono maggiormente di far confessare il sospettato. A sua volta, questo stile più aggressivo fece apparire i sospettati sulla difensiva e spinse gli osservatori che, in un secondo momento, ascoltarono le registrazioni a giudicarli colpevoli, anche quando erano innocenti (Kassin, Dror, Kukucka, 2013, p. 44).

Allo stesso modo, un giudice che parte dal presupposto che “la Juve ruba” tenderà a raccogliere solo i fatti che sembrano confermare la tesi di partenza e a interpretarli nella medesima chiave. Altri fatti saranno scartati o minimizzati come ininfluenti o interpretati come non rilevanti ai fini del giudizio. Così, le intercettazioni, che essendo testi radicati in un co-testo e in un contesto sono per definizione passibili di interpretazioni conflittuali, saranno coerentemente “spiegate” come indubitabili prove a carico del colpevole. Intercettazioni dal contenuto dissonante rispetto alla tesi di partenza non saranno ritenute rilevanti o, al più, giudicate marginali ai fini della formulazione dell’accusa.

Numerosi altri bias condizionano la mente del giudice. L’idea che si possa tenere separate la sfera professionale da quella umana è clamorosamente smentita dalle scienze umane. I nostri giudizi sono raramente sereni. Le emozioni spesso hanno la meglio su di noi.  

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