Il bias del vicino di casa

Tra i numerosi bias di cui gli psicologi parlano da quando la psicologia cognitiva si è prepotentemente imposta alla nostra attenzione, non ho mai trovato citato quello che potremmo definire il “bias del vicino di casa” (che si potrebbe rendere con neighbour bias, in inglese).

È un termine che ho coniato dopo aver letto un libro curioso che attende un suo corrispettivo in italiano: Cheek by Jowl. A History of Neighbours di Emily Cockayne (Vintage, London, 2013).  Cheek by Jowl è la storia di come si siano trasformate nel tempo la presenza e l’idea del vicino di casa in Inghilterra. Se inizialmente il vicino era una presenza intima, costante, inevitabile, talvolta anche oppressiva, con l’affermarsi dell’industrializzazione e i progressi dell’urbanizzazione, è diventato quella figura anonima e “familiarmente” estranea alla quale siamo abituati oggi.

Il volume di Emily Cockayne è ricco di osservazioni, anche apparentemente incidentali, sulla psicologia sociale e cognitiva del vicino che è interessante approfondire. Ad esempio, a un certo punto, si può leggere:

I ricordi infantili dei vicini sono diversi da quelli degli adulti. I bambini abitualmente non notano chi disturba e fanno facilmente amicizia. È probabilmente per questo motivo che molte persone credono che i vicini fossero più amabili un tempo, quando erano giovani. Forse non ne hanno mai saputo il mestiere, ma ne ricordano la generosità o l’avarizia (traduzione mia).

Ognuno di noi può confermare la pervasività di questo bias. Quando siamo piccoli, il vicino di casa è la figura che ci accarezza, ci sorride, gioca con noi, ci racconta storie divertenti o ci incoraggia a giocare con il figli. Di lui o lei conosciamo poche caratteristiche di personalità. Non sappiamo né ci interessa nulla del lavoro che fa, di come sbarca il lunario, se va d’accordo con il (o la) partner, se ha dei debiti nei confronti dello stato o se ha problemi con la giustizia. Queste sono cose “per i grandi”. Di conseguenza, è facile, una volta adulti, cullarsi nell’illusione che, quando eravamo bambini, i vicini di casa fossero migliori di oggi; illusione che si spande ad avvolgere tutti gli aspetti del mondo che, naturalmente, “va sempre peggio di un tempo”.

Si tratta di una piccola “distorsione mentale” che contribuisce, insieme ad altre, ad alimentare un certo pessimismo nei confronti delle sorti dell’umanità tipico della maturità e, ancor di più, della terza età.

I vecchi confondono spesso la propria percezione del passare del tempo e delle fasi della vita con quella dell’andamento del mondo, per cui il ricordo dell’energia, dell’ottimismo e del piacere dei vent’anni diventa ricordo di una sorta di età dell’oro che contrasta violentemente con un presente fatto di energie ridotte, disillusioni, aspettative funeste nei confronti della vita che diventano facilmente pensiero pessimista e catastrofista sul futuro del mondo.

Il bias del vicino di casa è solo uno dei tanti che compongono la visione del mondo di chi è in là con l’età e, come tanti bias, è, per lo più inconsapevole.

Il libro di Emily Cockayne ci permette di averne consapevolezza e questo è senz’altro un merito.

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