Perché odio l’espressione “Buon lavoro”

In inglese, non esiste un equivalente esatto di “Buon lavoro”, inteso come  forma di augurio o saluto. Nessuno direbbe: Good work. Un nativo anglofono preferirebbe: Have a nice day o Enjoy your day at work. Altra cosa è Good job che serve a complimentare qualcuno per aver fatto qualcosa di buono e che si potrebbe tradurre con “Bel lavoro”, “Ben fatto”.

Lo confesso. Vorrei che “Buon lavoro” non esistesse nemmeno in italiano. Ogni volta che qualcuno me lo dice, mi sento accapponare la pelle. Una sensazione di disagio mi attanaglia e richiede qualche secondo per dissiparsi. Perché? Perché, per la maggior parte degli individui, me compreso, il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale.

Il lavoro, come dice l’anarchico Bob Black, è noia, imposizione, monotonia, insoddisfazione, alienazione. Un ricatto (“Se non lavori, non mangi”), un veleno (in quanto uccide la nostra vitalità, canalizzandola verso obiettivi meschini), un serial killer dell’anima (perché fa strame seriale della nostra creatività spontanea, sopprimendola o mettendola al servizio degli interessi di istituzioni che di noi, in fondo, non sanno che farsene).

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero” (che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”).

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Perfino il lavoro nelle pubbliche amministrazioni – quello dei “fannulloni” – risulta letale: sedentarizza milioni di individui, relegandoli in cubicoli asfittici e impegnandoli in attività prive di senso, governate dal diritto amministrativo, che costituiscono una perversione totale delle potenzialità umane a tutto vantaggio di istituzioni indifferenti che si reggono su codici aberranti e abbacinanti (nel senso che il dipendente pubblico non riesce a vedere oltre ciò che i codici del diritto gli impongono).

Insomma, “Buon lavoro” è un augurio di servilismo, sottomissione e alienazione duratura. Un’offesa o, al più, un ossimoro.

Non ditemelo mai più! Fate come gli inglesi!

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