Montaigne e gli animali di ieri e di oggi

I Turchi hanno offerte e ospedali per le bestie. I Romani avevano a spese pubbliche l’allevamento delle oche, per la vigilanza delle quali il loro Campidoglio era stato salvato; gli Ateniesi ordinarono che le mule e i muli che erano stati adoperati per la costruzione del tempio nominato Hecatompedon fossero liberi, e che fossero lasciati pascolare ovunque senza divieto.

Gli Agrigentini avevano come usanza pubblica di seppellire con un rito le bestie che avevano avute care, come i cavalli di qualche raro merito, i cani e gli uccelli utili, oppure che avevano servito di passatempo ai loro figli. E la magnificenza che era loro solita in tutte le altre cose, si manifestava anche singolarmente nella sontuosità e nel numero dei monumenti innalzati a tal fine, i quali hanno durato come ornamento parecchi secoli dopo.

Gli Egiziani seppellivano i lupi, gli orsi, i coccodrilli, i cani e i gatti in luoghi sacri, imbalsamavano i loro corpi e portavano il lutto alla loro morte.

Cimone diede onorevole sepoltura alle giumente con cui aveva guadagnato per tre volte il premio della corsa nei giochi Olimpici. Il vecchio Santippo fece seppellire il suo cane su un promontorio, sulla costa del mare che poi ne ha conservato il nome. E Plutarco, dice egli, si faceva scrupolo di vendere e mandare al macello per lieve guadagno un bue che l’aveva servito molto tempo (“Della crudeltà” in Montaigne, M. de, 1986, Saggi, vol. 2, Mondadori, Milano, p. 115).

Così il filosofo Michel de Montaigne, nel saggio Della crudeltà, ricordava l’amore degli antichi per gli animali, esaltati e celebrati più di molti umani, non dissimilmente da come accade anche oggi, epoca in cui gli animali sono oggetto di una antropomorfizzazione spinta che ci conduce a proiettare su di essi tutto ciò che di umano possiamo immaginare, spesso in maniera talmente eccessiva da apparire caricaturale.

Così, non è difficile imbattersi nella donna di mezza età che invita il proprio cane a salire “da nonno”, nemmeno fosse un figlio umano. O l’uomo talmente invaghito del proprio chihuahua da chiedergli in maniera invereconda: “Sono o non solo il tuo amore?”.

C’è però una differenza tra l’amore per gli animali dei contemporanei e quello degli antichi citati da Montaigne. Questi ultimi esaltavano le loro creature solo in determinate circostanze, Quando, ad esempio, riconoscevano (proiettivamente) loro meriti o utilità particolari, li associavano (superstiziosamente) a imprese, fatti, luoghi determinati, vi attribuivano significati sacri in coerenza con la loro religione.

Oggi, l’amore per gli animali si è “democratizzato” e prescinde totalmente da meriti, utilità, sacralità. Si adora il pet in quanto tale in virtù di una ideologia diffusa, superstiziosamente votata alla loro trasformazione in surrogati degli umani. Forse perché stabilire relazioni con i propri simili è eccessivamente oneroso.

E allora meglio chiedere amore incondizionato al proprio pesciolino rosso piuttosto che a un uomo o una donna. Meglio proiettare sul quadrupede i propri desideri che dialogare con il bipede che potrebbe smentirli o negarli. Meglio costruire un universo creaturale a nostra immagine che confrontarci con chi non scodinzola a ogni nostra parola.  

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