L’incredibile storia dei “suicidi per procura”

Vi è un capitolo poco noto della criminologia suicidaria che vale la pena di raccontare. Si tratta di un fenomeno sconcertante che interessò alcuni paesi europei tra il XVI e il XIX secolo e che, per fortuna, fu abbastanza circoscritto. Ne parla la storica Kathy Stuart in un articolo del 2008 dal titolo “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany” che si legge come una storia e che lascia il lettore a bocca aperta, perché oggi, nel XXI secolo, mai immagineremmo che fenomeni del genere siano mai potuti accadere. La vicenda dei “suicidi per procura” (suicides by proxy), come li battezza la Stuart, è estremamente interessante anche perché mostra a quali aberrazioni possa condurre la salda credenza in alcuni dogmi religiosi e l’osservanza di norme morali in contrasto tra loro.

Come è noto, per i cristiani il suicidio è tradizionalmente considerato un peccato. Nel passato, questa consapevolezza induceva negli aspiranti suicidi un terribile dilemma: da un lato, la sofferenza “terrena” per una vita giudicata non più degna di essere vissuta; dall’altro, il timore, in caso di suicidio, di soffrire le pene dell’Inferno, e quindi una sofferenza ancora più atroce di quella patita in vita.

Come risolvere questo dilemma? Per alcuni, la soluzione si rivelò tanto ingegnosa quanto terribile. Dal momento che, nell’Europa moderna, la pena per l’omicidio era l’esecuzione capitale, quale migliore corso di azione che uccidere un innocente, preferibilmente un bambino – in modo che questi sarebbe andato comunque in Paradiso – , consegnarsi alla giustizia, essere condannati a morte dalle autorità, pentirsi e ricevere l’assoluzione da parte del sacerdote e morire per mano del boia nella certezza di non essere condannati all’Inferno in virtù della remissione di tutti i peccati?

Deve averla pensata così, il 24 maggio 1704, la trentenne Agnes Catherina Schickin, la quale, giunta nel villaggio di Krumhard, in Germania, si imbatte in quattro bambini che giocano al lato della strada. La donna chiede a uno di loro, Hans Michael Furch, di sette anni, figlio del bovaro locale, di accompagnarla a Schorndorf in cambio di un regalo. Giunti in una foresta, la Schickin taglia la gola al bambino per poi recarsi a Schorndorf, dove si consegna alle autorità del posto. Interrogata sul motivo della sua terribile azione, la donna risponde che «il bambino era ormai “salvo” e che lo aveva fatto solo perché anche lei potesse “lasciare questo mondo”, dato che il boia l’avrebbe certamente uccisa».

Comportamenti così aberranti, frutto di un conflitto tra norme religiose – i suicidi non potevano vedersi assolti dai propri peccati; gli omicidi sì – non furono affatto cosa rara, se molte autorità secolari emanarono editti e provvedimenti di vario genere per arginarne il numero.

Stuart dimostra che il “suicidio per procura” era più diffuso tra i protestanti che tra i cattolici e tra le donne più che tra gli uomini. I protestanti assunsero nei confronti del fenomeno un atteggiamento più ambivalente perché la ricerca dell’assoluzione prima della morte appariva un obiettivo tradizionalmente cattolico che contrastava con la dottrina della salvezza per sola grazia che tanto caratterizzò il luteranesimo. D’altro canto, i teologi cattolici, che pure credevano che i cristiani dovessero fare penitenza per espiare i loro peccati, non avevano certo in mente il caso dei suicidi per procura.

Le autorità secolari cercarono di rispondere alla sfida lanciata da questa nuova fattispecie criminale in vari modi. Alcuni stati introdussero pene particolarmente atroci per questo genere di reato, come  l’impalamento invece della decapitazione. Gli stati dello Schleswig e dell’Holstein, invece, stabilirono, nel 1767, che coloro che uccidevano con l’intenzione di porre termine alla propria vita non sarebbero stati condannati a morte, ma ai lavori forzati, alla marchiatura, alla fustigazione pubblica e alla gogna annuale in catene. Anche la Prussia, nel 1794, decise di non ricorrere alla pena capitale per questo genere di reati, ma alla prigione a vita e alla fustigazione periodica. In questo modo, venne meno ogni motivo per uccidere da parte di questi “criminali”.

Il fenomeno del “suicidio per procura” scomparve gradualmente nel XIX secolo, ma lo studio della Stuart mostra come l’adesione acritica a dogmi religiosi profondamente creduti possa scatenare comportamenti distruttivi paradossali e aberranti.

Colpevoli perché troppo religiosi, potremmo aggiungere nel nostro giudizio su questi poveri infelici alle prese con le contraddizioni della dottrina cristiana.

Da questo punto di vista, la conquista della laicità appare sicuramente un modo per non cadere più in simili pervertimenti. Oggi che i dogmi religiosi non hanno più presa sui credenti come una volta, è difficile che si verifichino crimini come quelli che ho appena raccontato. Certo, esistono anche crimini di laicità, ma questa è un’altra storia.

Fonte: Kathy Stuart, 2008, “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany”, Central European History, vol. 41, n. 3, pp. 413–445.

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