La mutevole percezione dell’autostop

In base all’articolo 175, comma 7, capo B del Codice della Strada, la pratica dell’autostop è vietata in Italia sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali. Per la precisione, l’articolo citato stabilisce che:

sulle carreggiate, sulle rampe, sugli svincoli, sulle aree di servizio o di parcheggio e in ogni altra zona associata all’autostrada è vietato chiedere o offrire passaggi.

La ratio del divieto sta nel fatto che chiedere o offrire passaggi in autostrada è considerata una pratica pericolosa, potenzialmente in grado di causare incidenti o intasamenti.

Ciò che il Codice non rivela, però, è che, nel corso del tempo, la percezione dell’autostop come fatto sociale e culturale è radicalmente mutata. Come afferma la storica Linda Mahood, autrice dello studio “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, nella prima metà del XX secolo, una norma non scritta, ma diffusamente invalsa, stabiliva che dare un passaggio a un autostoppista fosse un gesto di generosità e umanità, da ricambiare con gratitudine, ma non con denaro. Addirittura, l’hitchhiking, come viene detto in inglese l’autostop, veniva descritto come un’occasione per dimostrare agli sconosciuti di essere persone bene educate, una sorta di esperienza edificante sia per chi concedeva sia per chi riceveva il passaggio.

L’autostop era, inoltre, pubblicamente lodato come una modalità avventurosa di viaggiare. Ad esempio, nel 1934, i giornali celebrarono le “gesta” di due diciannovenni che percorsero 2.300 miglia in autostop per incontrare il Primo Ministro canadese R. B. Bennett, raccogliendo l’autografo dei sindaci di ogni città che attraversavano. Una ragazza, la ventitreenne Nora Harris, che viaggiò da sola da Victoria a Halifax, nel 1938, dormendo e cucinando all’aperto, fu ricordata dai quotidiani canadesi con toni encomiastici.

L’autostop era, infine, incoraggiato come un modo per acquisire conoscenze su se stessi, il proprio e altri paesi. In definitiva, era percepito con un misto di paternalismo e cavalleria, bonarietà e indulgenza: un rituale basato su fiducia e mutuo rispetto, in grado di creare coesione sociale.

Fu a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la percezione dell’autostop cominciò a cambiare. La condotta ingegnosa, avventurosa e lodevole di un tempo cominciò a suscitare dubbi e apprensioni, anche in seguito a casi di autostoppisti rapinati e uccisi dai loro “benefattori” negli Stati Uniti.

Le autorità si mostrarono preoccupate soprattutto per il sesso femminile. I giornalisti cominciarono a dare grande rilievo ai casi di giovani donne violentate dopo aver chiesto un passaggio a uno sconosciuto. In alcuni articoli, trapelò l’accusa che “se la fossero cercata” e che la loro condotta non fosse del tutto innocente. Il fatto, poi, che a chiedere passaggi in strada fossero hippie, capelloni e giovani considerati “non affidabili” contribuì a gettare più di un velo di sospetto sulla figura dell’hitchhiker.

Ben presto, l’autostop venne ad essere considerato una pratica rischiosa sia per gli autostoppisti sia per gli automobilisti: nessuno poteva essere sicuro di chi avrebbe trovato dall’altra parte.

In tempi recenti, film come The Hitcher (1986), Say Yes (2001), The Hitchhiker (2007) hanno contribuito ad associare alla figura dell’autostoppista significati macabri e inquietanti che sono ormai sedimentati nell’immaginario collettivo. A ciò hanno contribuito anche leggende metropolitane come quella dell’autostoppista fantasma, che narra, pur in molteplici varianti, la vicenda di una donna (o una bambina o una ragazza) misteriosa che, salita su un’automobile, scompare nel nulla dopo avere avvisato l’automobilista di un pericolo. Alla fine, quest’ultimo scopre che la ragazza era morta in un incidente stradale.

Da pratica di coesione sociale, generosità e condivisione, l’autostop è, dunque, diventato una condotta rischiosa, potenzialmente criminogena e tipica di vagabondi e marginali. Una trasformazione radicale che ne ha completamente stravolto lo status iniziale, trasformando l’autostoppista in una figura quasi deviante o almeno temibile.

Vedremo nel tempo se essa scomparirà del tutto dal novero delle figure incontrate in strada o se si rinnoverà in qualche forma al momento non prevedibile.

Riferimento:

Linda Mahood, 2016, “Thumb Wars: Hitchhiking, Canadian Youth Rituals and Risk in the Twentieth Century”, Journal of Social History, vol. 49, n. 3, pp. 647–670.

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