La mente fragile dei detenuti

In un post precedente ho discusso della cosiddetta “sindrome di Ganser”, una sorta di “stato isterico crepuscolare” che affligge i detenuti e che colpisce l’osservatore per le sue forme bizzarre. La sindrome di Ganser non è l’unico complesso di sintomi che colpisce il detenuto. Altre, altrettanto importanti e niente affatto rare, sono state individuate dalla psichiatria. Di seguito ne cito alcune, elencate dalla psichiatra Maria Noemi Sanna.

Sindrome persecutoria: consiste nell’insorgenza di tendenze di tipo paranoideo favorita dall’ambiente carcerario. Nelle forme lievi è caratterizzata da sospettosità e tendenza a sentirsi svalorizzato, insultato e minacciato, mentre nelle forme più gravi può arrivare al delirio sistematizzato di persecuzione.

Sindrome del sentimento di innocenza: il detenuto minimizza la propria colpa e considera la pena a cui è stato condannato molto grave e sproporzionata al reato commesso. Consente al detenuto di mantenere una buona stima di sé o della propria accettabilità sociale.

Sindrome dell’amnistia o della grazia: è caratterizzata da una acritica speranza o convinzione di ottenere una riduzione della pena o una misura alternativa alla detenzione. I casi più gravi si hanno tra i condannati all’ergastolo.

Malattia della Montagna Magica: apprendimento, attraverso conversazioni fra detenuti, di tecniche criminali e valori del mondo carcerario, tale da rappresentare una vera e propria “controcultura”, opposta a quella che i terapeuti cercano di introdurre nel carcere attraverso il trattamento.

Sindrome da prisonizzazione (individuata da Clemmer): assunzione, in grado minore o maggiore, delle abitudini, degli usi, dei costumi e della cultura prevalente della prigione.

Sindrome da irradicamento: i detenuti si legano all’istituto penitenziario a tal punto, da non essere più in grado di affrontare la vita all’esterno. Talvolta, si osservano casi di isolamento e privazione sensoriale con fenomeni di regressione.

Vertigine dell’uscita: stato di ansia e di agitazione psico-motoria che colpisce i soggetti alcune settimane prima dell’uscita dall’istituto.

Sindrome del guerriero: soggetti violenti condannati a lunghe pene, che non hanno nulla da perdere, reagiscono in maniera aggressiva a qualsiasi provocazione.

Sindrome da inazione: dovuta alla povertà di stimoli.

Sindrome da congelamento: caratterizzata da comportamento motorio ridotto, blocco delle idee e delle iniziative, tendenza a rimanere inerti. Si riscontra in soggetti al primo impatto con il carcere.

Sindrome motoria: caratterizzata da distruzione di oggetti e comportamenti autolesionistici, sempre in  soggetti al primo impatto con il carcere.

Fuga nella malattia: caratterizzata dalla rappresentazione, da parte del soggetto, di malattie che possono richiedere indagini esplorative, ricoveri e interventi chirurgici inutili o dannosi (Maria Noemi Sanna, cit. in Carnevale, A., Di Tillio, A., 2006, Medicina e carcere, Giuffré, Milano, pp. 117-119).

Un elenco così freddo e ambulatoriale di sindromi potrebbe sembrare un esercizio ozioso o, al più, cinico. In realtà, lo propongo contro tutti coloro che ritengono che stare in carcere sia come vivere in un albergo a cinque stelle, che i detenuti sono parassiti a spese del contribuente, che la vita in carcere sia una pacchia con tanto di televisione e via stereotipando.

In questi giorni in cui si discute se sia “civile” concedere il reddito di cittadinanza a ex detenuti, dovremmo ricordare che, al di là di ogni reato, la privazione della libertà è, di per sé, qualcosa di terribile che, da sola, soddisfa le esigenze punitive della pena. Chi è stato in galera, al di là delle sue colpe, è qualcuno che ha vissuto una esperienza umiliante e devastante, dalle conseguenze spesso pesanti in termini psicologici e fisici.

Chi non è stato in prigione non lo sa e “incornicia” l’esperienza del detenuto in base a ciò che vede o sente di questi quando esce dal carcere. Esprime, di conseguenza, le sue opinioni sulla fase “evidente” della vita del carcerato, dimenticando quella celata dalle sbarre del carcere. Ne consegue un corto circuito cognitivo che favorisce equivoci e incomprensioni, come quello per cui il carcere è un periodo che si dimentica facilmente e il detenuto può ritornare tranquillamente alla sua vita precedente. Non è così e lo dimostrano le innumerevoli sindromi da cui è colto il detenuto e che, talvolta, gli rendono quasi impossibile tornare alla vita anteriore al carcere.

Prima di trinciare giudizi, allora, cerchiamo di capire che cosa è il carcere e che cosa fa davvero alle persone che hanno la ventura di finirvi dentro.

Sui miti relativi al crimine, al carcere, ai delitti rinvio ai miei 101 falsi miti sulla criminalità e Delitti.

 

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