La fine bizzarra di Erode Agrippa

Gli psicologi e i sociologi della salute sanno da tempo che le aspettative, le credenze e le convinzioni degli individui possono incidere, talvolta in maniera sorprendente, sul decorso di un disturbo, se non addirittura “crearlo” ex nihilo, gettando le basi per un classico esempio di profezia che si autoavvera.

Un esempio umoristico ci arriva dal Frasario essenziale per passare inosservati in società di Ennio Flaiano (Bompiani, Milano, 1993, p. 48) e riguarda un caso di malocchio.

18 marzo 1969

“Ho un mal di testa, mi sento stanchissima, come se mi avessero bastonata.” “Vada dal dottore.” “Ci sono stata, mi ha dato le medicine, ma non è cosa della mutua, questo è malocchio. Mi hanno gettato il malocchio.” Va al telefono. “Pronto, sei tu Peppina? guarda devi vedere se mi hanno gettato il malocchio. Stai facendo il sugo? Be’, tanto che ci metti. Posso aspettare. Hai messo l’acqua nel piatto fondo? E le gocce d’olio? Dici che ho ragione? Allora me lo levi? Coraggio, dimmi le parole (Ascolta) Grazie.” Un quarto d’ora dopo: “Era malocchio, è andato via, mo’ sto bene”. Questo a Roma, 20 ottobre, a casa mia.

Un altro esempio di matrice letteraria ci arriva da un testo di nicchia dello scrittore inglese Thomas De Quincey (1785-1859) intitolato Modern Superstition (1840). In esso, De Quincey descrive alcune superstizioni dell’antichità e della modernità e ricorda un episodio la cui pertinenza con il tema della profezia che si autoavvera apparirà immediatamente evidente. Eccolo:

Tra le storie antiche dello stesso genere ve ne è una che racconteremo che ha per protagonista quell’Erode Agrippa, nipote di Erode il Grande, dinanzi al quale San Paolo pronunciò la sua famosa apologia a Cesarea. Questo Agrippa, sopraffatto dai debiti, era fuggito dalla Palestina alla volta di Roma negli ultimi anni del regno di Tiberio. La considerazione avuta dalla madre nei confronti della vedova di Germanico gli procurò una raccomandazione speciale presso il figlio di questa, Caligola. Reputando il figlio ed erede del celebre Germanico il sole nascente, Agrippa aveva usato parole troppo disinvolte. È vero, lo zio di Germanico era il principe regnante, ma era vecchio e in sfacelo. È vero, il figlio di Germanico non era ancora sul trono, ma lo sarebbe stato presto; e Agrippa fu talmente avventato da definire l’imperatore un vecchio rimbambito augurandogli addirittura la morte. Seiano era già morto, ma non mancavano le spie e un certo Macrone riferì le sue parole a Tiberio. Agrippa fu, per questo motivo, arrestato; lo stesso imperatore acconsentì ad additare il nobile ebreo all’ufficiale in servizio. Il caso lasciava intravedere un esito triste, se Tiberio fosse vissuto ancora a lungo. La storia del presagio continua così: «Ora, Agrippa si trovava in catene davanti al palazzo imperiale e, essendo sofferente, si appoggiò a un certo albero, sui cui rami venne a posarsi un uccello che i romani chiamano bubo, cioé gufo. Tutto ciò fu prontamente osservato da un prigioniero germanico, il quale chiese a un soldato quali fossero il nome e la colpa di quell’uomo che indossava un abito di porpora. Avendo appreso che il nome dell’uomo era Agrippa, che era un ebreo d’alto rango, che si era macchiato di un crimine nei confronti della persona dell’imperatore, il prigioniero germanico chiese il permesso di avvicinarsi a lui e rivolgergli la parola. Essendogli stato concesso, egli pronunciò le seguenti parole: “Non dubito, oh giovane, che questo disastro sia penoso per il tuo cuore; e forse non mi crederai se ti preannuncio che la tua liberazione provvidenziale è imminente. Comunque, ti dirò questo – e, consentimi sinceramente di fare appello ai miei dei nativi, nonché agli dei di questa Roma che è causa di afflizione per entrambi – che nessun motivo egoistico mi spinge a farti questa rivelazione, perché di rivelazione si tratta e in questo consiste: è destino che non rimarrai a lungo in catene. La tua liberazione sarà immediata; perverrai alle vette più alte del potere; sarai oggetto di molta invidia così come adesso sei oggetto di commiserazione; conserverai la tua prosperità fino alla morte e la trasmetterai ai tuoi figli. Ma” e, a questo punto, il prigioniero germanico si interruppe. Agrippa era turbato; gli astanti ascoltavano con attenzione; e dopo un po’, quello, indicando solennemente l’uccello, continuò con le seguenti parole: “Ma ricorda: la prossima volta che vedrai l’uccello che ora è posato sul ramo al di sopra del tuo capo, avrai solo cinque giorni di vita! Ciò accadrà per volontà del medesimo dio misterioso che ha ritenuto opportuno inviarti l’uccello come segno di avvertimento; e tu, quando otterrai la gloria, non dimenticarti di me che la presagii quando fosti umiliato”». La storia aggiunge che Agrippa fece mostra di ridere quando il prigioniero germanico ebbe finito. Dopo di che – continua –, di lì a qualche settimana, venne liberato in seguito alla morte di Tiberio; fu scarcerato dal medesimo principe per il quale si era messo nei guai; assurse alla tetrarchia e successivamente al regno di tutta la Giudea; ottenne tutta la prosperità che gli era stata promessa dal germano; e non perse potere a Roma nonostante l’assassinio del suo mecenate Caligola. A questo punto, prese a considerare con rispetto le parole del germano e cominciò ad attendere con ansia la seconda apparizione dell’uccello. Sette anni di splendore passarono via silenziosi come un sogno. Una grande festa, con voti ed esibizioni, stava per essere celebrata in onore di Claudio Cesare, a Torre di Stratone, chiamata anche Cesarea, la metropoli romana della Palestina. Obblighi morali e politici esigevano che il signore del luogo fosse presente per rendere omaggio religioso all’imperatore. Agrippa rispettò gli obblighi e, il secondo giorno di festa, allo scopo di onorare con somma magnificenza la grande solennità, indossò un’armatura di argento mirabilmente sfarzosa, talmente brunita da riflettere i raggi del sole mattutino con un bagliore in grado di accecare gli occhi rivolti verso l’alto della vasta moltitudine che lo circondava. Immediatamente, dai più adulatori tra la folla, la stragrande maggioranza della quale era composta da pagani, risalì un clamore di apoteosi quasi che si fosse manifestata una divinità. Agrippa, compiaciuto per il successo della nuova armatura e per gli elogi ricevuti, non insoliti per un re, non ebbe la fermezza (sebbene fosse ebreo e consapevole della malvagità insita nella folla pagana; malvagità da lui posseduta in misura maggiore) di respingere il blasfemo omaggio. Voci adoranti continuarono a levarsi nei suoi riguardi, quando improvvisamente, guardando in alto verso gli enormi tendoni allestiti per riparare la calca dal caldo meridiano, il re vide il medesimo uccello funesto che aveva visto a Roma il giorno della sua umiliazione, appollaiato tranquillamente, che lo osservava. In quello stesso momento, una fitta glaciale gli trafisse gli intestini. Fu condotto a palazzo e, nel giro di cinque giorni, completamente esausto per il dolore, Agrippa spirò nel cinquantaquattresimo anno di vita, settimo del suo regno.

A molti di noi capita di avere convinzioni o credenze negative legate a determinati comportamenti che si riflettono sulla nostra salute, seppure non necessariamente nelle modalità definitive della vicenda di Erode Agrippa. Si tratta di un aspetto spesso sottovalutato dai medici, ma che può avere ripercussioni straordinarie sul paziente. Pensiamo alla prostrazione che si abbatte sulla persona alla quale sia stata appena diagnosticata una malattia letale. O al dolore che pensiamo di provare dopo avere immaginato di esserci scottati. O ancora all’angoscia che ci prende quando non conosciamo la ragione della nostra patologia.

In tutti questi casi, è in azione il potere della nostra immaginazione, come diceva il filosofo francese Montaigne, che può in alcuni casi addirittura provocare la morte di chi vi indugia troppo.

Al riguardo aneddoti e storie abbondano. Per saperne di più rimando al mio Oracoli quotidiani. Cos’è e come funziona la profezia che si autoavvera, pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane, nel 2003.

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