La comunicazione facilitata che non lo è

Il fatto che alcune persone non siano in grado di comunicare o comunichino in modo diverso dalla norma condivisa – come nel caso di alcune forme di autismo – ha spesso indotto aspettative miracolistiche nei confronti di alcune tecniche che promettevano e promettono di far comunicare chi non è in grado di farlo. Una delle più celebri è la cosiddetta “comunicazione facilitata” (Facilitated Communication in inglese). Purtroppo, è anche una delle meno affidabili e screditate.

In cosa consiste la comunicazione facilitata? Una persona, detta “facilitatore”, siede accanto a una persona con autismo, tiene o guida la sua mano e la “aiuta” a scrivere con il supporto di una tastiera di un computer o di un tablet. L’idea sottostante questa pratica è che la persona con autismo abbia bisogno di un piccolo sostegno per riuscire a esprimersi in maniera più o meno fluida. Una volta “sostenuta”, la persona con disabilità sarebbe in grado di esprimersi più o meno come i cosiddetti normali. Tutto molto bello e auspicabile, se non fosse che i “successi” comunicativi dell’assistito sono dovuti ad altro.

Molti test hanno provato, al di là di ogni dubbio, che, in realtà, la comunicazione proviene dal facilitatore stesso. In altre parole, è il facilitatore, in maniera più o meno consapevole, a guidare la mano del facilitato e a fargli dire quello che dice. La dimostrazione che le cose vadano in questo modo è piuttosto semplice. Se si pone alla persona con autismo una domanda di cui conosce la risposta a differenza del facilitatore, la tecnica non funziona più. Questo risultato estremamente critico è emerso ogni volta che la comunicazione facilitata è stata messa seriamente alla prova. Detto più radicalmente, non esistono prove scientifiche di alcun tipo a sostegno della tecnica in questione.

Un altro meccanismo esplicativo chiama in causa la nozione di “azione ideomotoria”. Con questo termine, coniato dal fisiologo inglese William B. Carpenter (1813-1885) nel 1852, si fa riferimento a un insieme di movimenti involontari e inconsapevoli del corpo, compiuti sotto l’influenza di determinate aspettative. Per esprimerci con Carpenter, «l’attesa di un dato risultato è lo stimolo che, direttamente e involontariamente, induce i movimenti muscolari che lo producono». Così, nel caso della comunicazione facilitata, il facilitatore guida inconsapevolmente la persona con disabilità  attraverso movimenti  che danno l’illusione di una comunicazione tra essa e mondo esterno; comunicazione che però è frutto di una interpretazione profondamente errata della realtà. Qui è possibile trovare la mia traduzione, con introduzione, dell’importante testo di Carpenter sull’azione ideomotoria.

Perché diverse persone continuano a credere nell’efficacia della comunicazione facilitata, allora? La risposta è una sola: la speranza. Figli, genitori, parenti e amici della persona con disabilità sperano con tutto il cuore che essa sia vera. E la speranza, che, come dice il proverbio, è l’ultima a morire, fa credere che la comunicazione provenga “realmente” dal facilitato piuttosto che dal facilitatore. È ciò che accade, mutatis mutandis, nelle sedute spiritiche, negli incontri con i sensitivi e in molte altre situazioni in cui è coinvolto il paranormale. In queste circostanze, è la “fede” nel potere del paranormale che determina i suoi successi. A volte, infatti, pur in assenza di miglioramenti effettivi, la forte convinzione nell’efficacia della comunicazione facilitata può generare nel “credente” l’illusione che essa funzioni. Naturalmente, una sensazione illusoria di successo non è la stessa cosa di un reale successo.

Insomma, è il noto meccanismo del wishful thinking: pensiamo che sia vero ciò che desideriamo. Peccato che le cose, nella maggior parte dei casi, non stiano esattamente così!

Questo post è stato ispirato dalla lettura di Dunning, B. “Facilitated Communication Isn’t”, Skeptoid Podcast. Skeptoid Media, 10 maggio 2022, a cui rinvio anche per gli interessanti link inseriti nell’articolo.

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