Identità come camicie di forza

Scrive Ivan Illich in Gender. Per una critica storica dell’uguaglianza (Neri Pozza, pp. 187-188):

Prima del Rinascimento una persona non poteva considerarsi un omosessuale come non poteva considerarsi uno scrittore: preferiva semplicemente i ragazzi alle donne o era bravo a scrivere versi. Un uomo poteva essere dedito alla sodomia come poteva avere un carattere violento. I suoi contemporanei potevano parlare di lui come di un sodomita o di un assassino, ma nessuno di questi termini aveva il contenuto diagnostico che ha oggi. Il fare l’amore con altri uomini non rendeva intrinsecamente “diverso” un uomo. Gli atti omosessuali erano riconosciuti, e ogni cultura aveva un suo modo di valutarli – come gioco infantile, come inversione rituale, come castigo per quei guayaki che avevano toccato il paniere di una donna, come vizio da schernire o da reprimere con la violenza. Ma nel regime del genere era impossibile immaginare l’omosessuale come un’identità particolare. Il deviante europeo moderno fa storia a sé quanto il partner coniugale eterosessuale.

È proprio vero. Mai nessuna società come la nostra è stata ossessionata dall’identità, dal desiderio/necessità di identificare un essere umano con un suo comportamento, appartenenza o fatalità e di costruire intorno a tali tratti steccati, recinti, palizzate per ridurlo a quel comportamento, quell’appartenenza, quella fatalità. Così, si è omosessuali, scrittori, leghisti, romanisti, meridionali, ladri, giocatori d’azzardo, stupratori, anche se a un determinato comportamento ci si è abbandonati una sola volta. Basta infatti avere un solo rapporto sessuale con una persona del proprio sesso per diventare “omosessuali”; rubare una sola volta per essere “ladri”, giocare al gratta e vinci una sola volta per essere “giocatori d’azzardo”. Il problema è che le etichette identitarie tendono a essere espansive e dominanti: invadono e fagocitano ogni altra condotta, mettono a tacere ogni altro orientamento, ogni altro modo di esistere. Così, se si è etichettati come “romanisti”, l’identità sportiva mette in secondo (se non terzo e quarto) piano altre possibilità di esistenza, riducendo l’essere umano a un ruolo asfittico che pretende di essere il ruolo guida. Non solo. Le identità attirano interessi “diagnostici” e professionali (medici, psichiatrici, culturali, economici ecc.) che possono avere conseguenze letali per l’individuo: si pensi a chi viene identificato come “schizofrenico” per alcuni (pochi) comportamenti “da schizofrenico” e che vede ogni suo comportamento invaso dall’identità a lui imposta.

Le identità sono camicie di forza nella nostra società, ma molti preferiscono indossarle per non naufragare nella liquidità delle incertezze contemporanee di cui parla Bauman. Come dire: meglio essere “giocatore d’azzardo” che niente.

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