I tranelli linguistici dell’elemosina

«Ma G. Cristo comanda che diate ai poveri, non le cose necessarie al vostro stato, ma soltanto quelle soprabbondanti al vostro bisogno. Quod superest ec. «fate elemosina di quel che vi avanza». S. Luc. 11»., così il sacerdote Filippo Bartolomeo scriveva nel 1864 nel suo libro Elemosina e ricchezza, dedicato al concetto di elemosina nel cristianesimo. E non vi è dubbio che Bartolomeo interpretasse il noto passo «Quod superest, date pauperibus», rievocante Luca 11, 41, come tanti prima di lui avevano fatto e tanti, dopo di lui, hanno continuato e continuano a fare ancora oggi. In sostanza, secondo questa posizione, l’elemosina dei cattolici deve limitarsi a “ciò che avanza”, non di più, soluzione che consente di tenere a bada coscienza e sensi di colpa nei confronti dei “più sfortunati” senza troppe difficoltà. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Siamo sicuri che dietro quel superest non si nascondano messaggi più sovversivi nei confronti dell’ordine sociale?

Incominciamo dall’origine.

Il testo greco di Luca 11, 41 recita: «πλὴν τὰ ἐνόντα δότε ἐλεημοσύνην», che significa «ma date in elemosina quel che c’è dentro», ma la Vulgata, la versione latina della Bibbia in uso nella Chiesa cattolica, traduce «Veruntatem, quod superest, date eleemosynam», interpretato come  «Piuttosto date in elemosina quel che avanza». Come affermava, però, Igino Giordani nel 1960, nel libro intitolato Il messaggio sociale del cristianesimo, «quell’ἐνόντα dice di più: il «di dentro» del piatto, il contenuto, è più del superfluo; indica la nostra stessa razione. Il fariseo faceva questione di lavaggio di scodelle, per mondarsi; Gesù fa questione di «contenuto» di esse, da elargire ai poveri». La frase, infatti, si inserisce in un contesto ben preciso: Gesù era stato invitato a pranzo da un fariseo, il quale si meravigliava che il suo ospite non avesse fatto le abluzioni prima di mangiare. Al che Gesù gli aveva rivolto le seguenti parole: «Voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? Piuttosto date in elemosina quel che c’è dentro, ed ecco, tutto per voi sarà mondo» (Lc 11, 39-41. Bibbia CEI). Traducendo in italiano “quel che c’è dentro” piuttosto che “quel che rimane”, si resta dunque fedeli allo spirito complessivo del passo, del resto in linea con i messaggi radicali diffusi anche in altri passi dei Vangeli come testimoniano, ad esempio, Matteo 19, 21 («Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»») e Luca 18, 22 («Udito ciò, Gesù gli disse: «Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi»»), due esortazioni di Gesù che invitano ad abbracciare una condizione di povertà assoluta, non relativa.

Luca 11, 41 contribuisce a fondare la dottrina sociale della Chiesa in fatto di elemosina. Non è indifferente, dunque, che i cristiani siano invitati a dare in elemosina “ciò che avanza” o tutto ciò che è nel piatto. Forme e obiettivi dell’elemosina cambiano completamente. Nel primo caso, la propria condizione personale resta immutata e la distanza sociale è inalterata; nel secondo sia la prima sia la seconda cambiano interamente.

Tradurre, dunque, “ciò che avanza” rappresenta una forzatura non da poco, ma comprensibile se si tiene a mente la necessità della Chiesa cattolica di rendere, nel tempo, il messaggio cristiano più accettabile agli strati superiori a fronte della rivoluzionaria radicalità della condotta di Gesù. Si racconta, però, che il sindaco di Firenze Giorgio la Pira  leggesse il latino “quod superest” dividendo in due il verbo (“super est”), e quindi interpretando non «ciò che è in più, che avanza», ma «ciò che sta sopra», sopra la tavola, restituendo un significato rivoluzionario alla frase.

Ci sarebbe molto da scrivere sulla psicologia dell’elemosina. Sappiamo che essa spesso comunica non amore per il prossimo o atteggiamenti caritatevoli, bensì senso di superiorità, ostentazione del proprio benessere, sadismo, senso di colpa e altri sentimenti poco onorevoli. I cristiani, probabilmente, lo hanno sempre saputo. E forse è per questo che le loro interpretazioni hanno sempre oscillato da una posizione all’altra nel corso dei secoli.

Fonti:

Bartolomeo, F., 1864, Elemosina e ricchezza. Trattato del sac. Filippo Bartolomeo, e un discorso dell’istesso autore contro il Protestantesimo, Ribera, Messina, p. 33.

Giordani, I., 1960, Il messaggio sociale del cristianesimo, Città Nuova, Roma, p. 249, n. 40.

Sider, R.D., 2003, Collected Works of Erasmus. Paraphrase on Luke 11-24, University of Toronto Press, Toronto, p. 21, n. 57.

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Una risposta a I tranelli linguistici dell’elemosina

  1. Piero scrive:

    Articolo interessante.
    La TNM (versione dei Testimoni di Geova) rende così il versetto di Luca 11:41
    “Piuttosto date come doni di misericordia ciò che viene da dentro, ed ecco che sarete puri in ogni cosa”..

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