Crime and the virus III

Il 2° Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia del Censis conferma quanto avevo già segnalato lo scorso anno (qui e qui). La criminalità in Italia nell’anno 2020 è diminuita. A fronte di 1.866.857 reati denunciati, un calo del 18,9% rispetto all’anno precedente ha significato 435.055 reati in meno (ricordiamo, comunque, che in Italia molti reati seguono un trend in discesa da tempo). Certo, nel 2020, sono state commesse 241.673 truffe e frodi informatiche, in crescita del 13,9% rispetto all’anno precedente. Inoltre, le donne chiuse in casa sono state più facilmente preda di partner e conviventi, e sono cresciute le chiamate e le richieste d’aiuto allo 1522, il numero antiviolenza e stalking. Da marzo a ottobre 2020 il numero ha ricevuto 23.071 chiamate; un anno prima, nello stesso periodo, erano state 13.424. Tutte circostanze da tenere in debita considerazione. Ma le cifre complessive sono – ripetiamo – in calo.

Nonostante ciò, per due terzi degli italiani la paura di rimanere vittima di reato è rimasta la stessa e per il 28,6% è cresciuta, quota che sale al 41,3% tra chi ha un cattivo stato di salute. Si tratta di un fenomeno noto alla criminologia da tempo e che potremmo battezzare “scollamento tra realtà e percezione del crimine”. La paura della criminalità non dipende dalle statistiche, ma, ad esempio, dal modo in cui i media enfatizzano determinati reati; dalla gravità del reato subito da noi, dal vicino di casa o dal nostro amico; dalle conversazioni che si hanno nel quotidiano ecc. In questi casi, l’aneddoto o la storia personale possono più dei numeri.

A ciò si aggiungono le nuove paure indotte dall’emergenza coronavirus. È indubbio che, vedendo un estraneo avvicinarsi, non ci chiediamo più solo: “Avrà intenzioni ostili nei miei confronti?”, ma anche “Mi contagerà?”, “Rispetterà la distanza sociale?”, “Non avrà mica intenzione di toccarmi?”.

Il Censis informa, infine, che

ci sono oltre 6 milioni di italiani che hanno paura di tutto: sono i panofobici, che in casa o fuori vivono in uno stato di ansia e di paura che non riescono a frenare. Tra di loro prevalgono le donne, che sono quasi 5 milioni e rappresentano il 17,9% della popolazione femminile. I panofobici si trovano un po’ in tutte le fasce di età, ma quello che preoccupa è che sono molto rappresentati tra i giovani sotto i 35 anni, tra cui se ne trovano 1 milione e 700.000, pari al 16,3% del totale. Giovani fragili ed impauriti, che pagheranno moltissimo in termini psicologici le conseguenze dell’epidemia.

La panofobia potrebbe essere una delle ricadute più deleterie del panico da Covid-19. La paura di entrare in contatto con gli altri diventerà probabilmente una condizione non più limitata a particolari condizioni psichiatriche, ma una situazione estesa, generalizzata, sostenuta perfino dalle retoriche governative e disciplinari di questo periodo e, quindi, incoraggiata come reazione “normale”.

Il rispetto della distanza sociale, ormai interiorizzato, condurrà vero una società disentactogena in cui la socialità, l’empatia, i rapporti sociali diverranno sempre più lussi suntuari con inevitabili conseguenze sulle potenzialità devianti dei nostri simili. 

In alternativa, potrebbe esserci una reazione di segno diametralmente opposto: ricerca incontrollata di contatti con gli altri con aumento di fenomeni di massa.

Staremo a vedere. Al di là delle profezie più o meno apocalittiche, un dato appare certo: l’insicurezza e la fragilità di chi già sta male crescono e chi sta male ha anche più paura di essere vittima di reati. Un esito non previsto della nostra società pandemica sulla quale i criminologi avranno forse da dire nei prossimi anni.

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