Cambiarsi la biancheria come fatto sociale

Nel 1937, in piena epoca fascista, si distribuivano agli impiegati pubblici consigli di igiene come il seguente:

Sarebbe assai bene mutarsi di biancheria ogni quattro giorni: ma purtroppo molte volte le necessità economiche si oppongono ad una larghezza che ha tante ragioni per essere seguita. Si ricordi almeno che alcune biancherie hanno diritto al rinnovo frequente: e le mutande si chiamano così appunto perché debbono essere spesso mutate, e le calze sono così facili a lavarsi che basta la buona volontà a ciò che ogni tre-quattro giorni abbandonino il piede. Ne guadagna la educazione, la salute e talora anche l’olfatto (Gian Franco Venè, Mille lire al mese. Vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, pp. 43-44).

Il consiglio appena esposto rivela l’esistenza di standard igienici in epoca fascista sensibilmente diversi dai nostri. Oggigiorno, un membro competente della società non può evitare di lavarsi e cambiare la propria biancheria giornalmente. Non farlo – soprattutto se tale negligenza si traducesse in un odore sgradevole – attirerebbe inevitabilmente giudizi negativi che, in casi estremi, comporterebbero una vera e propria squalifica sociale o una espulsione dal consesso delle persone civili.

Contrariamente a quello che si ritiene comunemente, il rispetto delle norme di pulizia non è solo questione di civiltà. Gli standard igienici riflettono precise condizioni di produzione materiale. In epoca di consumismo avanzato, l’acquisto di articoli di biancheria facilmente usurabili a causa del materiale con cui sono realizzati è fatto comune. È pratica diffusa comperare per pochi euro mutande e canottiere, destinate a un rapido ricambio a causa della deperibilità dei materiali. Ciò rende possibile indossare ogni giorno nuovi capi di biancheria. Questa condizione, abbinata alla disponibilità quasi illimitata di acqua e di prodotti per la pulizia di ogni tipo, consente, anzi impone, l’adesione a norme di igiene molto esigenti che, in quanto tali, non possono essere disinvoltamente trasgredite se non si vuole apparire come dei “devianti igienici”.

In epoca fascista, invece, l’acquisto frequente di indumenti intimi non era alla portata delle tasche di tutti. Anzi, l’ethos popolare spingeva a tenere con sé le stesse mutande per anni e anni e a disfarsene solo se totalmente inutilizzabili. Il ricambio di biancheria era molto meno frequente, così come, del resto, non esistevano in tantissime abitazioni servizi igienici interni, né abbondanti e diversi prodotti per la pulizia della pelle. Il risultato era che la maggior parte delle persone condivideva standard di pulizia e olfattivi che oggi troveremmo inaccettabili, ma che, all’epoca erano del tutto ordinari.

Potremmo essere tentati dall’idea di etichettare i nostri antenati come più “lerci” di noi, ma anche i criteri di pulizia cambiano di epoca in epoca. Non esistono, al riguardo, standard universali e immutabili. È probabile, anzi, che, in un futuro non troppo distante, perfino le nostre norme igieniche appariranno discutibili.

Ogni epoca, tuttavia, tende a interpretare etnocentricamente le proprie norme igieniche come assolute, condannando chi non aderisce a esse a un ruolo di deviante e imputandogli, talvolta, condizioni patologiche. Così oggi, trascurare la propria igiene – ad esempio, “mutare” le mutande ogni quattro giorni o più – potrebbe essere interpretato come un sintomo di depressione, una forma di accidia o, nel migliore dei casi, un indice di sudiceria. 

Ciò che un tempo era normale diventa patologico qualche decennio dopo. Di questi mutamenti è piena la storia dell’umanità. Il che dovrebbe almeno portarci a essere più benevoli nei confronti di noi stessi e di chi ci ha preceduto.

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