Ventidue uomini in mutande che corrono dietro al pallone

È questa la definizione che indifferenti, avversari e haters danno del calcio. Per chi non ha alcun interesse per questo sport – cosa di per sé legittima: non è affatto scontato che a tutti debba piacere – la tentazione è spesso – ma non sempre – di ridurlo a pochi elementi crudi e parziali che ne autorizzano una versione macchiettistica, elementare, cinica. Sarebbe fin troppo facile far notare che il calcio non è una attività di calci casuali a una palla, ma implica l’adozione di regole, strategie, corsi di azione disciplinati, schemi di gioco; prevede abilità, competenze, capacità che non a tutti è dato possedere; presuppone doti atletiche, fisiche, artistiche (sì, anche artistiche) che solo pochi – soprattutto ad alti livelli – hanno.

La riduzione cinica insita in questo che è uno dei più diffusi luoghi comuni branditi dagli avversari o indifferenti del calcio appare in tutti i suoi limiti se estesa ad altri settori. Così, il cinema potrebbe essere ricondotto al chiacchiericcio, condito da smorfie, di uomini e donne presuntuosi che non hanno nemmeno scritto le battute che bofonchiano. E il balletto che altro sarebbe se non un gruppo di uomini e donne in abiti succinti che sgambettano in modo improbabile? Del resto, già George Bernard Shaw profetizzava che “dancing is a perpendicular expression of a horizontal desire” (tradotto: “Il ballo è l’espressione perpendicolare di un desiderio orizzontale”)..

Contro ogni indifferenza e ogni riduzionismo, lo scrittore Edmondo De Amicis, grande ammiratore della “palla a pugno”, sport praticato negli sferisteri di fine Ottocento e oggi praticamente dimenticato, scriveva nel 1897 il primo capitolo de Gli Azzurri e i Rossi, che si apre con un invito a tacere, rivolto a quanti non comprendono la bellezza, il piacere e la passione che si annidano nello sport.

Taci, profano. (Non  dico a te, caro Orazio). Tu non puoi comprendere quanto noi godiamo coi sensi e con lo spirito, noi che impugnammo il bracciale nei nostri begli anni, allo spettacolo d’una partita al pallone giocata da artisti di polso; né si può spiegare a chi non lo comprende come non si spiega la  virtù della musica a chi ha gli orecchi turati dalla natura. Tu, mal venturato, non sai che le arcate descritte da un pallone battuto e ribattuto alla brava sono per noi immagini vive e distinte, nella cui varietà infinita vediamo la maestà, la forza, l’eleganza, la grazia come in linee d’archi di trionfo titanici, in curve d’arcobaleni, in traiettorie di bombe, in fughe di razzi, in voli di rondini e di saette, in contorni di montagne e d’onde d’oceano in tempesta. Tu non sai che la battuta o la rimessa d’un pallone che rade il muro d’appoggio e lo morde e ne sfugge e vi ribatte, rabbioso come il ronzone che non si può staccar dal vetro dove dà del capo, ci fa fremere di piacere col riso del genio del Monteverde che imprigiona il fulmine fra le dita; che dietro al pallone che supera il gioco da tetto o da basso va la nostra fantasia come dietro all’aereostato che si perde nell’azzurro o all’astro che cala dietro l’orizzonte; che alla vista d’un pallone preso di posta a fior di terra e ricacciato in fondo al gioco quando non appariva più speranza di coglierlo, i nervi tesi ci s’allentano e il petto oppresso ci si dilata con un senso profondo di sollievo come al malato per un’inalazione di ossigeno o all’avaro al veder salvata da un pericolo una cosa preziosa. E tu non sai nemmeno che certe grandi volate diritte, fatte con un colpo sicuro e senza sforzo, ci fanno vibrare da capo a piedi come una nota sostenuta e limpidissima d’un tenore; che la ribattuta trionfale con cui si chiude un palleggio prolungato e fortunoso, che ci tenne l’animo sollevato come una disputa di medici al nostro capezzale, ci allarga l’anima come un annunzio di salvezza; che i diversi colpi alti e bassi, forzati e liberi, fiacchi e gagliardi, e i vari rimbalzi, scozzi, salti inaspettati e archi crescenti e calanti del pallone hanno per noi figura e senso di provocazioni, di scherni, di risposte superbe, d’audacie eroiche e d’insidie feline, e che nelle vicende d’una partita vediamo tutte le vicende di sfortuna e di riscossa, di scoramento, d’entusiasmo e di disperazione di una battaglia umana. Tutte queste cose tu non sai, e forse non credi neppure. Taci dunque, profano, e accetta l’espressione del nostro compianto.

Tacete, dunque, profani: il calcio non sono ventidue uomini in mutande che corrono dietro al pallone

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