Per una criminologia della notte

L’introduzione e la diffusione dell’illuminazione pubblica hanno rappresentato uno dei più grandi sistemi di controllo sociale della criminalità e della devianza. A partire dalla prima metà del XVIII secolo, le lampade ad olio prima e i lampioni a gas dopo, che sostituirono gradualmente le candele e anticiparono l’energia elettrica come mezzo di illuminazione destinato non solo alle mura domestiche, ma anche agli spazi pubblici, divennero un sistema molto efficace per contrastare il crimine. «Il gas», affermava Sidney Parker in Sanditon (1817), opera postuma della scrittrice Jane Austen, «si è dimostrato più utile alla causa della prevenzione del crimine dei tentativi di chiunque in Inghilterra dai tempi di Alfredo il Grande».

I contemporanei della Austen erano consapevoli del fatto che l’oscurità favorisce la commissione di crimini e altre azioni devianti tanto che in tutti i provvedimenti in cui si discuteva dell’introduzione di nuovi e migliori sistemi di illuminazione la prevenzione della criminalità costituiva la ragione principale per l’adozione della misura (con qualche eccezione: papa Gregorio XVI (1765-1846) si dichiarò contrario ai lampioni per timore che il popolo approfittasse della luce artificiale per promuovere rivolte) (Ekirch, 2005, pp. 330-337).

Ancora oggi tale consapevolezza è viva. Secondo alcune stime circa il 90% delle aggressioni criminali sono compiute in ore notturne o in cui regna l’oscurità, mentre, già negli anni Settanta del XX secolo, alcuni studi avevano dimostrato che il miglioramento dell’illuminazione degli spazi pubblici provocava una riduzione della criminalità tra il 33% e il 70% (Page, Moss, 1976, p. 126).

Ma perché l’oscurità notturna contribuisce a incoraggiare la criminalità? Secondo Richard A. Page e Martin K, Moss, autori di “Environmental Influences on Aggression: The Effects of Darkness and Proximity of Victims”, è possibile avanzare tre ipotesi al riguardo.

Secondo la prima, l’oscurità produce un incremento della sensazione di anonimato e un conseguente calo delle inibizioni. L’anonimato procurato dall’oscurità allenterebbe le restrizioni normative e genererebbe un rapido sviluppo delle relazioni intime sia in senso prosociale sia in senso antisociale. Nell’oscurità, dunque, un malintenzionato si sentirebbe meno condizionato da vincoli morali e più propenso a compiere azioni illecite.

La seconda ipotesi afferma che l’oscurità potrebbe condurre a un incremento dell’aggressività in quanto agirebbe da stimolo disinibente condizionato. L’oscurità domina, infatti, in luoghi di socializzazione come bar e locali notturni e verrebbe inconsapevolmente associata a un decremento delle inibizioni, che favorirebbe, a sua volta, l’esecuzione di condotte aggressive.

Infine, l’oscurità genererebbe un aumento dell’aggressività in quanto consentirebbe di isolare l’aggressore dalla sua vittima. Rendendo meno visibile la vittima e impendendo all’aggressore di coglierne le reazioni, l’oscurità favorirebbe un’attenuazione delle reazioni di empatia nei confronti della vittima, che sarebbe più facilmente bersaglio di condotte antisociali.

Per mettere alla prova le tre ipotesi, Page e Moss condussero un esperimento su 48 soggetti maschi di età compresa tra i 18 e i 23 anni, iscritti a un corso di psicologia universitario. I soggetti furono incaricati di somministrare una serie di scariche a una vittima designata in condizioni di illuminazione variabile. I risultati dell’esperimento confermerebbero, in linea di massima, le ipotesi di partenza, ma Page e Moss richiamarono l’attenzione sulla necessità di ulteriori studi.

Potremmo dire, al riguardo, che sarebbe interessante e necessario elaborare una criminologia della notte che desse il giusto rilievo a una variabile che sin dall’inizio dei tempi condiziona l’agire umano in maniera, forse, insospettabile.

Fonti:

Ekirch, A. R., 2005, At Day’s Close. A History of Nighttime, Phoenix, Londra

Page, R. A., Moss, M. K., 1976, “Environmental Influences on Aggression: The Effects of Darkness and Proximity of Victims”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 6, n. 2, pp. 126-133.

Questa voce è stata pubblicata in criminologia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.