La tortura è davvero efficace?

Siamo tutti d’accordo nel sostenere che la tortura – intesa come pratica che consiste nell’infliggere deliberatamente a un individuo dolore e sofferenza fisica e psichica, allo scopo di ricavarne informazioni – sia moralmente sbagliata e inumana e che andrebbe abolita per sempre. Ma è efficace?

Interrogate su questo punto, alcune persone risponderebbero probabilmente di sì. Per i più, il dolore e le sofferenze inflitte sarebbero talmente forti che la vittima non potrebbe non crollare, rivelando qualsiasi informazione. Al limite, il problema sarebbe che il torturato potrebbe dire anche cose non vere pur di non ricevere più dolore, ma, nell’immaginario collettivo, la tortura, tranne che in pochi casi di persone estremamente eroiche e resistenti, costituirebbe un prezioso strumento per “elicitare” le risposte desiderate.

In realtà, questo assunto è profondamente sbagliato. In un breve, interessante articolo del 2007, intitolato “Erroneous Assumptions: Popular Belief in the Effectiveness of Torture Interrogation”, la ricercatrice Ronnie Janoff-Bulman ha individuato quattro complicazioni che minano l’affidabilità della tortura come metodo per recuperare informazioni attendibili.

La prima di queste – quella più ovvia – è che i torturati possono compromettere gli scopi della tortura, riferendo informazioni sbagliate, ingannevoli e menzogne a tutto scapito dell’accuratezza che dovrebbe essere il principale, se non l’unico, obiettivo del torturatore. A dispetto di quanto si ritiene, dunque, la tortura non favorisce necessariamente la produzione di informazioni veritiere e affidabili.

Un secondo fattore può essere riassunto nella credenza erronea secondo cui «informazioni provenienti da nemici crudeli, malvagi e duri possono essere ricavate solamente attraverso tecniche altrettanto crudeli, malvagie e dure». Altri metodi più soft, basati su modelli della psicologia sociale, sembrano invece più utili agli scopi degli interroganti, come dimostrato in numerosi casi.

Una terza complicazione è che si tende a sottovalutare il fatto che, attribuendo un significato importante al dolore o dissociando il dolore dalla coscienza, il torturato può opporre una resistenza maggiore di quanto non siamo disposti a ritenere e rendere del tutto inutile l’inflizione del dolore. Le persone sottovalutano sistematicamente la capacità di resistenza degli individui sottoposti a tortura, quando questi dedicano la propria vita a una causa per essi vitale e importante.

Il quarto e ultimo fattore è che le persone tendono a credere che il successo di un’azione di tortura sia misurabile da quanto dolore infliggiamo al nemico, piuttosto che da quante informazioni veritiere possiamo ricavare da questi. In altre parole, tendiamo a confondere gli scopi della tortura, che non vediamo più come uno strumento per ottenere informazioni, ma come un metodo per vendicarci e infliggere dolore fine a se stesso.

La tortura non è solo immorale e crudele: è anche inutile. Come riferisce Jason-Bulman, «qualcuno potrebbe sostenere che, dal momento che viene adoperata, la tortura debba funzionare; tuttavia, sembra probabile che una ragione per cui la tortura viene adoperata è perché si pensa che essa funzioni».

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