Il gruppismo nel calcio

Fa bene tifare per una squadra di calcio? Partecipare con passione alle vicende dei propri idoli calcistici può avere una funzione positiva per la società?  

Secondo Jonathan Haidt, autore di Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione (Codice Edizioni, 2013), libro in cui, peraltro, non si parla di calcio, la risposta è sì. Perché? Perché le persone sono “gruppiste”. Ciò significa che:

Ci piace entrare a far parte di una squadra, iscriverci a club, leghe e associazioni; assumiamo identità di gruppo e lavoriamo spalla a spalla con estranei per conseguire obiettivi comuni con un entusiasmo tale che le nostre menti sembrano progettate apposta per la cooperazione. Non penso si possano comprendere la moralità, la politica o la religione finché non si ha un’idea precisa del gruppismo umano […].

Quando dico che la natura umana è […] gruppista, intendo dire che la nostra mente contiene una grande varietà di meccanismi che ci consentono di promuovere abilmente gli interessi del nostro gruppo, in competizione con altri gruppi. Non siamo santi, ma a volte siamo bravi a fare gioco di squadra (p. 239).

Per Haidt, che propugna una visione evoluzionista della società, il gruppismo è inserito nella natura umana e, in quanto tale, produce effetti positivi sulla società:

Se si chiede a un gruppo di persone di cantare insieme una canzone, o di marciare al passo, o anche solo di tamburellare insieme una melodia su un tavolo, questo accrescerà la fiducia reciproca e la propensione ad aiutarsi a vicenda, in parte perché fa sentire le persone più simili le une alle altre (p. 305).

Se ne ha una riprova in ambiente sportivo:

Da un punto di vista ingenuo, che prenda in considerazione soltanto l’aspetto più visibile (cioè la partita giocata sul campo), il football universitario è un’istituzione stravagante, costosa e superflua, che intacca la capacità di una persona di pensare in maniera razionale e al tempo stesso lascia dietro di sé una lunga scia di vittime (tra cui i giocatori stessi, oltre al gran numero di tifosi che hanno incidenti a causa dell’alcol). Ma dal punto di vista della sociologia, è un rito religioso che assolve precisamente la funzione alla quale è deputato: eleva le persone» dal piano del profano a quello del sacro. «Accresce lo spirito collettivo […], attira studenti migliori e maggiori donazioni da parte degli ex alunni, il che contribuisce a sua volta a migliorare l’esperienza per l’intera comunità» (p. 315).

Haidt propone, al riguardo, la seguente citazione tratta da Edmund Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese: «Essere legati al proprio ambiente, amare la piccola squadra a cui si appartiene nella società, è il primo principio di ogni affezione pubblica. È il primo di una serie di legami percorrendo il quale giungiamo all’amore per il nostro Paese e per il genere umano» (p. 393).

Sappiamo che Burke non si riferiva a squadre sportive, ma la tentazione di decontestualizzare le sue parole e leggervi un elogio della squadra di calcio a cui si appartiene è grande. E forse è vero che il tifo, almeno entro certi limiti, può costituire per alcuni di noi “il primo principio di ogni affezione pubblica”; un legame comunitario e sentimentale attraverso cui giungiamo ad amare di più il nostro Paese e il genere umano.

Su questi temi, sta per uscire un mio libro che indaga le funzioni psicologiche e sociologiche del tifo calcistico. Sono sicuro che gli appassionati di calcio vi troveranno una interessante fonte di ispirazione.

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