Cecità e provvidenza

La psicologia ci insegna che se le condotte degli individui non sono sempre razionali, gli individui tendono comunque a razionalizzarle, ossia a giustificarle per farle apparire razionali a sé e agli altri.

Un altro insegnamento della psicologia è che le persone non sopportano il caso e hanno bisogno di conferire un significato a tutto ciò che accade loro, soprattutto se l’accadimento è importante. Anzi, più è importante l’avvenimento, più questo deve avere un senso; un senso che può chiamarsi “destino”, “volontà divina”, “prova”, “karma” ecc.

Queste due propensioni della mente umana emergono soprattutto quando si ha un problema di salute o una disabilità. Lo illustra molto bene una osservazione di John Hull tratta da Il dono oscuro, di cui ho già parlato nel post precedente.

C’è un senso in tutto questo? La mia cecità era prevista dall’ordine delle cose? La gente mi rivolge spesso domande come queste.

La mia cecità è stata il risultato di piccoli accidenti. Non c’è una «strada» fantomatica che mi avrebbe guidato verso la cecità. Se mi guardo indietro posso ricostruire la catena di eventi, e può sembrare una «strada», è vero, ma qualunque landa desolata che non sia mai stata calpestata si riempie di sentieri una volta percorsa. Quando guardi avanti invece, non c’è una strada segnata ma solo un numero pressoché infinito di possibilità.

La parola «provvidenza» significa letteralmente «vedere davanti a sé» e per tradizione si riferisce all’idea che Dio ti conduca lungo una certa strada. Credo che dovremmo chiamare questa dottrina «retrovidenza», o «vedere dietro di sé», perché è solo guardandoci indietro che dotiamo di significato ciò che è frutto del caso. Il significato viene conferito dopo l’evento. È per questo che la domanda «perché è successo?» è fuorviante. È successo perché a me è capitato di nascere nel ventesimo secolo e non nel diciannovesimo. Se fossi nato cento anni fa, avrei senz’altro perso la vista molto più giovane; mentre se fossi nato tra un secolo, probabilmente sarei riuscito a conservarla. In altre parole, potrei trovare migliaia di altri piccoli «se» e «ma» in grado di spiegare, in qualche misura, perché un determinato evento si sia verificato nella mia vita. Ma se con «perché» si intende domandare che scopo abbia tutto questo – come se la cecità stessa fosse il mio destino – allora non credo che ne abbia uno.

Ciascuno degli avvenimenti che hanno preceduto il grande evento è stato fortuito, e nella loro concatenazione non c’è un disegno; a determinare l’accaduto è stato il succedersi dei singoli fatti accidentali.

La fede è un atto creativo. È attraverso la fede che trasformiamo gli eventi accidentali delle nostre vite nei segni del nostro destino. La felicità è casuale, ma le attribuiamo un significato trasfigurando il Caso mediante nuove immagini.

Ma questo non è il risultato di uno sforzo, o perlomeno noi non lo percepiamo come tale. Le immagini hanno una loro forza, e la vita ci appare dotata di senso solo in seguito alla ricomposizione che esse operano sul contenuto accidentale dell’esistenza. La cosa più importante della vita non è la felicità ma il significato. La felicità è il prodotto di catene di accidenti che tendono al nostro benessere. La cecità non mi rende felice. Non l’ho scelta, né mi è stata inflitta. Ciò nonostante, come ogni evento accidentale, può acquistare un senso (John Hull, 2019, Il dono oscuro, Adelphi Edizioni, Milano, pp. 178-179).

Hull si riferisce a quella che, in psicologia, viene chiamata razionalizzazione ex post: ci accadono delle cose e noi, con un gioco di prestigio mentale, le facciamo retrospettivamente rientrare in una trama che qualcuno ha costruito per noi (“fede”, “provvidenza”). Le cose che ci accadono acquistano, in questo modo, un senso, un significato, fanno parte di una storia di cui siamo protagonisti e, così, diventano tollerabili, spiegabili, comprensibili e riusciamo a convivere con esse. Sempre meglio che fare i conti con l’insopportabile idea che la nostra cecità o disabilità sia dovuta al caso, al caos, all’ineffabile.

Se ci pensiamo, questo bias mentale è molto comune e non è necessario avere una disabilità per rendersi conto del suo funzionamento. Se, nel giro di pochi minuti, la lavastoviglie smette di funzionare e perdiamo lo smartphone, diciamo che “è una giornata no”. Se le nostre storie sentimentali naufragano, diciamo che “non abbiamo fortuna in amore”. Se tentiamo disperatamente di avere un figlio e ciò non accade, diciamo che “Dio non ci ha fatto la grazia”. Siamo sempre pronti a razionalizzare e a esorcizzare il caso che, per il nostro sistema mentale, equivale al caos ed è dunque insostenibile. Meglio, dunque, un destino avverso che una cieca casualità. Almeno – sembriamo ragionare – conserviamo un qualche significato alla nostra vita. E questa ci appare degna di essere vissuta.

A questi temi ho dedicato un libro Apofenia. Interpretazioni razionali di eventi “misteriosi (2012).

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