Anche i pettegolezzi servono: parola di Max Gluckman

Non c’è dubbio che un consenso morale diffuso individui nel pettegolezzo una sventura comunicativa, un’ulcera linguistica, una carie sociale da evitare e rimuovere senza indugi dal repertorio delle interazioni quotidiane. Il/la pettegolo/pettegola – colui/colei che ritiene di essere in diritto di soppesare i suoi simili, sovente alle loro spalle, atto supremo di vigliaccheria secondo i canoni etici dominanti – giudica negativamente il prossimo quando si trova in sua compagnia, sparla di questo e quello come se non fossero umani come lui (o lei), diffondendo malignità, svalutazioni, calunnie, diffamazioni, seminando zizzania, innescando conflitti, incomprensioni, rotture tra amici e conoscenti, mettendo a dura prova i legami sociali.

Se esaminato con la lente dello psicologo, agisce spinto/spinta da moventi inconfessabili che si chiamano, secondo i casi, invidia, pessimismo, aggressività, frustrazione, odio, rancore, risentimento, vendetta, bigottismo o, più banalmente, maleducazione. A volte, giudica gli altri per coprire le sue colpe, per evitare di assumersi la responsabilità del proprio comportamento, di mettersi in discussione o di fare ricadere l’attenzione su di lui (o lei).

Per il/la pettegolo/pettegola ogni occasione è buona per dire male dell’altro: un modo particolare di vestirsi, un taglio di capelli estroso, una predilezione alimentare, un determinato gusto musicale. A volte, le sue parole sono espresse per abitudine: chi parla frequentemente male degli altri crede che sia “normale” farlo, che non ci sia niente di sbagliato nelle sue chiacchiere, che, in fondo, si tratti di una condotta innocua, un modo per passare il tempo. La sua inclinazione alla maldicenza riflette spesso un egocentrismo estremo, racchiuso nella celebre frase biblica di Luca 6, 41: vede la pagliuzza nell’occhio del prossimo, ma non la trave nel suo. Così facendo, proietta negatività e disperazione sugli altri per allontanarle da sé.

Così facendo, il pettegolezzo rischia di avere effetti dirompenti sul tessuto sociale, di costituire una sorta di lallazione esulcerante. La chiacchiera, in altre parole, non interessa solo la dimensione psicologica, ma anche quella sociologica. Una parola o una critica fuori posto possono disgregare in maniera irreparabile una relazione sentimentale, un gruppo sociale, un’organizzazione, la stabilità politica di una nazione, un assetto economico. Possono generare un conflitto intestino o con un nemico esterno; distruggere un rapporto di fiducia; alimentare odio intergruppale, minare una istituzione sociale faticosamente costruita. Quanti conflitti sono nati in seguito a un “si dice che…” sussurrato (casualmente o no) nell’orecchio!

Insomma, sembra esserci un giudizio negativo unanime sul pettegolezzo, vizio, malcostume da purificare con cospicue dosi di buona educazione e consapevolezza dei danni che può provocare alle persone, alle comunità, alla società tutta.

E, però.

Nel senso comune, un pregiudizio molto diffuso vuole che ci sia un profondo isomorfismo tra ciò che è negativo – crimine, devianza, violenza – e i suoi effetti. In altre parole, da ciò che è negativo non può che derivare altro negativo. Questa fallacia è conosciuta nel mondo anglosassone con il nome di pestilence fallacy e può essere descritta come l’idea che all’origine di ogni cosa che è negativa non possano che esservi cagioni altrettanto negative e dunque che le principali cause, ad esempio, della criminalità sono l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali. Questa fallacia ha perso oggi quasi ogni credibilità: è noto a tutti, ad esempio, che anche i cittadini danarosi (i “colletti bianchi”) commettono reati. Meno noto è, però, il paradosso inverso: a volte anche dal negativo possono derivare effetti positivi. Lo dimostra proprio il caso del pettegolezzo.

Una tradizione psicologica, sociologica e antropologica consolidata, sebbene quasi di nicchia, ha dimostrato da tempo che il gossip non è un cicaleccio vuoto e odioso come ordinariamente e moralisticamente si crede, ma svolge una serie di importanti, quanto sottovalutate, funzioni psicologiche, antropologiche e sociali.

Uno dei sostenitori di questa interpretazione è l’antropologo di origine sudafricana Max Gluckman (1911-1975). Sfruttando alcune intuizioni di antropologi e sociologi come Paul Radin, Melville Jean Herskovits, Elizabeth Colson, Ronald Frankenberg, Gluckman afferma che gossip and scandal (“pettegolezzi e maldicenze”) – questo il titolo del suo seminale articolo del 1963 – possiedono insospettabili virtù positive in quanto preservano l’unità, la morale e i valori dei gruppi sociali. Essi, inoltre, consentono di tenere sotto controllo i gruppi concorrenti e gli individui che aspirano ad essere loro membri, “calmierando” sogni e ambizioni.

Le maldicenze possono essere utilizzate anche per segnare e confermare divisioni di gruppo, per individuare il nemico da contrastare, per far sì che l’ostilità diventi un modo per tenere saldo il gruppo. 

I pettegolezzi possono essere considerati come una raffinata forma di aggressione verbale, da condursi immancabilmente “alle spalle” in quanto gli insulti a viso aperto metterebbero in serio pericolo la continuazione del rapporto, sebbene solo apparentemente amichevole, tra pettegolo/pettegola e spettegolato/spettegolata.

Gluckman individua altre funzioni positive di pettegolezzi e maldicenze. Qui trovi la traduzione integrale – per la prima volta in italiano – di Gluckman, M., 1963, “Papers in honor of Melville J. Herskovits: Gossip and Scandal”, Current Anthropology, vol. 4, n. 3, pp. 307-316 con una mia introduzione al tema delle funzioni positive del pettegolezzo. Qui, invece, il testo originale affiancato alla mia traduzione.

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