Notai e traduttori agli albori del volgare

Tra il 1200 e il 1300, quando il volgare cominciò a imporsi come lingua del popolo a scapito del latino, una delle preoccupazioni che maggiormente angustiarono gli operatori del diritto fu quella di tradurre norme, regole, statuti, formulari ecc. dal latino al volgare. Ai notai, ad esempio, era esplicitamente richiesta una  generale capacità di traduzione, così come oggi chi partecipi a un concorso pubblico è tenuto a dare prova di conoscere l’inglese. Uno statuto bolognese del 1250 stabiliva al riguardo che

all’atto dell’ammissione nella corporazione gli aspiranti dovessero dar prova di saper «legere scripturas quas fecerint vulgariter et litteraliter» («leggere le scritture che si trovassero a fare in volgare e in latino»); quasi un secolo dopo a Firenze lo statuto dell’arte dei giudici e notai del 1344 ugualmente imponeva che coloro che chiedevano di essere immatricolati nell’arte fossero tra l’altro esaminati «primo de vulgari sermone alicuius contractus» («dapprincipio sulla traduzione in volgare d’un qualche contratto».

Alcuni autori, come Pietro de’ Boatteri, arrivarono perfino a suggerire alcuni consigli su come tradurre nella maniera più efficace: ad esempio, consigliò di volgere al presente i verbi che comparivano al passato nelle formule o di rendere con un gerundio i participi presenti. Un consiglio, in particolare, appare degno di menzione, soprattutto perché dimostra che i notai dell’epoca avevano ben chiara l’importanza di non provocare disastri con traduzioni inopportune. Pietro de’ Boatteri riteneva, infatti, che non fosse opportuno tradurre quei vocaboli che potessero generare un qualche rischio di fraintendimento da parte dei meno istruiti.

Così a proposito della voce tradidit («ha consegnato», detto del venditore) che ricorre spesso nelle formule: sarà bene ometterla del tutto, e mai azzardarsi a tradurla ha tradito, perché certo il cliente esclamerebbe: «tabellio vult me prodere, quando debet facere instrumentum meum!» («il notaio mi vuole tradire, quando invece deve scrivere il mio contratto!»).

Queste vicende ci restituiscono l’immagine di una professione – quella del notaio – in parte molto diversa da quella attuale, almeno nel senso che i notai dell’inizio del secondo millennio dell’era cristiana erano profondamente consapevoli che volgarizzare è un «lavoro tanto gentile, & dilicato, che chi muove talvolta dal suo luogo una parola, una sillaba, un punto, snerva, perverte, uccide tutto il senso»; una consapevolezza che oggi siamo abituati ad associare a professionisti come traduttori e letterati, ma che, allora, i notai dovevano convertire in una precisa competenza tecnica.

Fonte:

Bambi, F., 2016, L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile. 12. Leggi, contratti, bilanci. Un italiano a norma?, Accademia della Crusca – La Repubblica, Milano, pp. 11-18.

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