Il Grande Cocomero come il Grande Fratello

Peanuts

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Ho già segnalato come la traduzione più accurata del celeberrimo “Grande Fratello” (dall’inglese Big Brother) sarebbe Fratello Maggiore, ma che questo errore è divenuto a tal punto parte della cultura italiana che è probabilmente impossibile emendarlo (anche se ciò è avvenuto per un caso simile: il titolo del romanzo di Thomas Mann La montagna incantata, divenuto di recente La montagna magica dopo decenni e decenni di “radicamento” del primo titolo nel patrimonio culturale italiano).

Affine alla vicenda del Grande Fratello è quella del “Grande Cocomero”, termine con il quale fu tradotta in Italia l’espressione Great Pumpkin presente in una striscia dei Peanuts pubblicata quando la festa di Halloween non era ancora penetrata nel nostro paese. L’espressione, divenuta quasi leggendaria per i cultori del fumetto, è un errore evidente – la traduzione corretta è “Grande Zucca” – ma trova una sua spiegazione culturale sul sito del Post che oggi pubblica e traduce i Peanuts. Eccola:

Quando in Italia si cominciarono a tradurre le strisce dei Peanuts dedicate al misterioso evento evocato da Linus per la notte di Halloween, in Italia della festa di Halloween non parlava ancora nessuno. Era una cosa da americani, erano di là da venire le importazioni dall’America dei suoi usi e costumi, e anche le polemiche su quelle importazioni, che sono diventate parte delle celebrazioni italiane di Halloween (“Non è una festa nostra!”).

I lettori italiani non avevano quindi nessuna familiarità con l’atmosfera di quella festa e di quella notte, né con le zucche relative, e insomma i traduttori della rivista Linus ritennero di tradurre “the great pumpkin” – la strana divinità di cui Linus aspetta devoto ma frustrato l’arrivo la notte di Halloween – con un più familiare e mediterraneo “Grande cocomero”. Benché questa scelta abbia generato poi occasionali contraddizioni, il “Grande cocomero” è entrato come tale – come molte cose Peanuts – nella cultura italiana, arrivando a dare il nome a un film di Francesca Archibugi e più di recente a una trasmissione televisiva di Linus (quello di Radio Deejay, non quello della coperta).

Così, quando al Post – che pubblica e traduce fiero i Peanuts da un anno e mezzo – sono arrivate le repliche di quelle strisce, abbiamo deciso di mantenerci fedeli al nome divenuto familiare in Italia, piuttosto che a quello più esatto ma un po’ spiazzante di “Grande Zucca”. Non senza discussioni interne, eh.

Licia Corbolante, sul suo blog Terminologia etc.,  fa notare che, «in realtà nel Veneto e in altre parti dell’Italia settentrionale esisteva già da molto tempo la tradizione delle zucche intagliate con dentro il lumino per la vigilia di Ognissanti» e che forse l’errore di traduzione era stato voluto dalla rivista Linus per «dare un genere maschile a qualcosa che fosse trascendente quanto Dio, Gesù e Babbo Natale».

Indipendentemente dalle motivazioni, penso sia interessante notare che, a dispetto delle invettive dei moralisti della lingua, l’errore contribuisce spesso a incrementare il vocabolario. Si pensi a tutti quegli ismi (francesismi, solecismi ecc.) riprovati inflessibilmente dai puristi e oggi adoperati da tutti addirittura come esempi di buona lingua (chi ricorda, ad esempio, che “neutralizzare” è un francesismo un tempo vivamente sconsigliato?). Non mi sorprende, dunque, che anche un errore di traduzione, legittimato dal tempo e dall’uso, possa svolgere un effetto linguisticamente “positivo”, così come, in sociologia, è noto che la devianza possa offrire un contributo positivo alla società (si pensi alla prostituzione funzionale alla preservazione del “sacro” legame matrimoniale in sant’Agostino, ad esempio). Non è sempre vero, dunque, che Garbage in, garbage out. A volte anche l’immondizia linguistica (e sociale) può offrire un contributo fattivo alla lingua (e alla società). 

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